Archivi categoria: Fonti fossili

A2A, il carbone, gli elettrodotti e gli impegni per la COP21

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Nuova svolta nella saga infinita dell’elettrodotto fra Italia e Montenegro. Una grande opera che ormai assomiglia al Ponte sullo Stretto: di tanto in tanto riemerge dal silenzio, anche se le ragioni per giustificarla non reggono all’esame del buon senso.

Quando nel 2003 l’Italia subì il black out, si progettò un elettrodotto fra Balcani e Italia (approdo in Abruzzo) in vista dell’importazione di elettricità da quelle aree. Dieci anni dopo però, l’undercapacity italiana si trasformò in overcapacity e un’opera che oggi finirebbe per costare almeno un miliardo di euro, perse la sua attrattività. Per di più, l’iniziale previsione di importare energia idroelettrica dalla Serbia andava perdendo di significato già all’inizio del secondo decennio 2000, dato che ormai potevamo produrci in casa tutta l’energia verde che ci serviva per raggiungere gli obiettivi fissati a livello nazionale ed europeo.

Ora, andando verso l’appuntamento di dicembre a Parigi per la Cop 21, potremmo onorarci almeno di un definitivo abbandono del carbone e, quindi, di un contributo trasparente al miglioramento della situazione climatica. Ma tra il dire e il fare… ci sono sempre intoppi che nascondono interessi di cui i cittadini e l’opinione pubblica non devono occuparsi e che, nel caso trattato, hanno a che vedere proprio con il combustibile fossile più inquinante

Abbiamo già denunciato su questo blog che A2A, l’utility ancora a maggioranza pubblica di Milano e Brescia, aveva fatto un rischioso investimento in centrali elettriche compartecipate nel piccolo Montenegro, un Paese non proprio esempio di trasparenza e incorruttibilità. Un rischio che si poteva correre, probabilmente, solo esportando kWh in Italia a prezzi ben più alti di quelli che vengono pagati, quando vengono pagati, nel paese balcanico. E – qui viene il bello – non kWh puliti, ma kWh prodotti da A2A con carbone, bruciato in una centrale in via di raddoppio e estratto da una miniera di lignite, fonte di preoccupante inquinamento per la cittadina di Pljevlja, contigua alla centrale e al giacimento.

Nell’assemblea generale di A2A dello scorso 11 giugno era stata sollevata una decisa obiezione per un’operazione come quella in corso in Montenegro, contraria perfino al buon nome di una municipalizzata e, se si fanno i conti, vantaggiosa solo a fronte della realizzazione urgente della connessione con l’Italia, ovvero, della posa del cavo che dovrebbe attraversare l’Adriatico. Diciamoci perché e per chi “vantaggiosa”: perché i costi della costruzione dell’elettrodotto sarebbero finiti nella bolletta elettrica e A2A avrebbe usufruito di una infrastruttura a carico dello Stato.

E arriviamo ad oggi. Nella Legge di Stabilità in discussione al Senato ieri pomeriggio sono stati avanzati da parlamentari del Pd emendamenti per riconoscere sostegni ai cosiddetti “energivori” e produttori di energia da fossile, così da garantire ad essi un incentivo economico per l’acquisto virtuale di energia elettrica al di fuori dell’Italia ad un prezzo di favore, oltre che per la realizzazione di interconnessioni anche in un momento di overcapacity. Esiste già una legge del 2009 che promuove gli “interconnector” (siamo ormai abituati agli inglesismi quando le cose sono sospette) al costo di 500 milioni di euro l’anno prelevati dalle bollette elettriche dei cittadini. Una legge che dovrebbe decadere se davvero il nostro governo si muovesse verso le energie pulite, ma che l’emendamento sotto accusa (per quanto ci risulta contrastato al Senato solo dall’opposizione), prorogherebbe fino al 2021, sottraendo come maggiori oneri altri 2 miliardi di euro dalle utenze elettriche degli italiani.

In sostanza: trivelle, carbone e elettrodotti transmarini finirebbero per essere il biglietto da visita alla conferenza di Parigi spedito dal governo e da una municipalizzata che ha l’ambizione di regionalizzarsi e coprire l’intera Lombardia. Un accredito non certo coerente con gli impegni per la Cop 21 e con una paradossale inversione dei fini, che rendono ancora più oscuro perché dovrebbero essere i cittadini a dover finanziare opere sanzionabili e senza futuro. Importare energia prodotta in modo inquinante non fa bene all’ambiente, allontana il rispetto dei nostri impegni sul clima e contrasta con ogni dichiarazione pubblica dei nostri governanti nei consessi internazionali di fare di tutto per mantenere l’aumento di temperatura globale sotto i 2°C.

Condividi

Appello al Governo sulla Strategia Energetica Nazionale

Appello al Governo sulla Strategia Energetica Nazionale

FIRMA L’APPELLO >>>

Siamo un gruppo di docenti e ricercatori dell’Università e dei Centri di ricerca di Bologna. In virtù della conoscenza acquisita con i nostri studi e la quotidiana consultazione della letteratura scientifica internazionale, sentiamo il dovere di esprimere la nostra opinione sulla crisi energetica e sul modo di uscirne.

Abbiamo quindi scritto al Presidente del Consiglio ed ai Ministri competenti una lettera aperta nella quale critichiamo la politica energetica del Governo e presentiamo proposte alternative.

Chiediamo ai colleghi delle Università e Centri di ricerca di altre sedi e a tutti i cittadini interessati di firmare questo appello nella apposita sezione (firma).

Definire le linee di indirizzo per una valida Strategia Energetica Nazionale è un problema complesso, che deve essere affrontato congiuntamente da almeno cinque prospettive diverse: scientifica, economica, sociale, ambientale e culturale. I punti fondamentali dai quali non si può prescindere sono i seguenti:

1) E’ necessario ridurre il consumo eccessivo e non razionale di energia. Sia i singoli cittadini che le aziende devono essere indotte  a consumare di meno, non solo per i vantaggi economici che ne derivano, ma anche perché il consumo di energia è collegato al consumo di materiali e alla produzione di rifiuti. L’obiettivo fondamentale della riduzione del consumo di energia deve essere perseguito mediante un aumento dell’efficienza energetica e, ancor più, con la creazione  di una cultura della parsimonia, principio di fondamentale importanza per vivere in un mondo che ha risorse limitate.

2) La fine dell’era dei combustibili fossili è inevitabile e ridurne l’uso è urgente per limitare l’inquinamento dell’ambiente e per contenere gli impatti dei cambiamenti climatici che potrebbero avere, in alcuni casi, conseguenze catastrofiche. Ridurre il consumo dei combustibili fossili, che importiamo per il 90%,  significa anche ridurre la dipendenza energetica del nostro paese da altre nazioni e migliorare la bilancia dei pagamenti.

3) E’ necessario promuovere, mediante scelte politiche appropriate, l’uso di fonti energetiche alternative che siano, per quanto possibile, abbondanti, inesauribili, distribuite su tutto il pianeta, non pericolose per l’uomo e per l’ambiente, capaci di sostenere il benessere economico, di colmare le disuguaglianze e di favorire la pace.

4) Allo stato attuale, le possibili fonti di energia alternative ai combustibili fossili sono l’energia nucleare e le energie rinnovabili.

5) L’energia nucleare non ha i requisiti elencati al punto 3 e, proprio per questo, il suo sviluppo incontra serie difficoltà di ordine economico, tecnico, sociale, sanitario e politico; tanto che su scala globale, dopo aver raggiunto un culmine di 635 Mtep (tep = tonnellate equivalenti di petrolio) nel 2006, il consumo di energia nucleare è diminuito a 563 Mtep nel 2013 e non c’è evidenza di un’inversione di tendenza.

6) Le energie rinnovabili non sono più una fonte marginale di energia, come molti vorrebbero far credere: oggi producono il 22% dell’energia elettrica su scala mondiale, il 40% in Italia. Per ottenere il restante 60% dell’energia elettrica che serve in Italia, basterebbe coprire con pannelli fotovoltaici lo 0.5% del territorio, molto meno dei 2000 km2 occupati dai tetti dei 700.000 capannoni industriali e dalle loro pertinenze. Su scala mondiale, il fotovoltaico fornisce energia pari a quella prodotta da 23 centrali, nucleari o a carbone, da 1000 MW e l’eolico pari a quella di 85 centrali; in Italia, l’energia elettrica prodotta dal fotovoltaico è pari a quella prodotta da due centrali da 1000 MW.

7) La transizione dai combustibili fossili e dal nucleare alle energie rinnovabili sta già avvenendo, sia pure con tempi diversi, in tutti i paesi del mondo. In particolare, l’Unione Europea (UE) ha già da tempo messo in atto una strategia basata sui punti sopra elencati (il Pacchetto Clima Energia 20 20 20, l’Energy Roadmap 2050).

L’Italia non ha carbone, ha pochissimo petrolio e gas, non ha uranio, ma ha tanto sole e le tecnologie solari altro non sono che industria manifatturiera. Quindi l’Italia – Paese povero di materie prime che storicamente ha basato sull’industria manifatturiera e sul commercio i suoi periodi di prosperità economica e prominenza internazionale – ha un’occasione straordinaria per trarre enorme vantaggio dalla transizione energetica in atto, uscendo dalla drammatica crisi economica in cui si è avvitata. E’ del tutto evidente che il futuro economico, industriale e occupazionale del nostro Paese deve essere basato sullo sviluppo delle energie rinnovabili e non su quello di risorse energetiche convenzionali che non possediamo in quantità significative.

Purtroppo la Strategia Energetica Nazionale, che l’attuale governo ha ereditato da quelli precedenti e che apparentemente ha assunto, non sembra seguire questa strada. In particolare, il recente decreto Sblocca Italia agli articoli 36-38, oltre a promuovere la creazione di grandi infrastrutture per permettere il transito e l’accumulo di gas proveniente dall’estero, facilita e addirittura incoraggia le attività di estrazione  di petrolio e gas in tutto il territorio nazionale: in particolare, in aree densamente popolate come l’Emilia-Romagna, in zone dove sono presenti città di inestimabile importanza storica, culturale ed artistica come Venezia e Ravenna, in zone fragili e preziose come la laguna veneta e il delta del Po e lungo tutta la costa del mare Adriatico dal Veneto al Gargano, le regioni del centro-sud e gran parte della Sicilia (http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/cartografia/tavole/titoli/titoli.pdf)

Il decreto attribuisce un carattere strategico alle concessioni di ricerca e sfruttamento di idrocarburi, semplifica gli iter autorizzativi, toglie potere alle regioni e prolunga i tempi delle concessioni con proroghe che potrebbero arrivare fino a 50 anni. Tutto ciò in contrasto con le affermazioni di voler ridurre le emissioni di gas serra e, cosa ancor più grave, senza considerare che le attività di trivellazione ed estrazione ostacolano e, in caso di incidenti, potrebbero addirittura compromettere la nostra più importante fonte di ricchezza nazionale: il turismo. D’altra parte il decreto non prende in considerazione la necessità di creare una cultura del risparmio energetico e più in generale della sostenibilità ecologica e non semplifica le procedure che ostacolano lo sviluppo delle energie rinnovabili.

Mentre fonti governative parlano di un “mare di petrolio” che giace sotto l’Italia, secondo la BP Statistical Review del giugno 2014 le riserve di combustibili fossili sfruttabili nel nostro paese ammontano a 290 Mtep. Poiché il consumo di energia primaria annuale è di 159 Mtep, queste ipotetiche riserve corrispondono al consumo di meno di due anni. Spalmate su un periodo di 20 anni, ammontano a circa il 9% del consumo annuale di energia primaria. Si tratta quindi di una risorsa molto limitata, il cui sfruttamento potrebbe produrre danni molto più ingenti dei benefici che può apportare.

Il mancato apporto di questa risorsa marginale potrebbe essere facilmente compensato, senza il rischio di creare problemi, riducendo i consumi. Ad esempio, come accade nei Paesi del Nord Europa, mediante una più diffusa riqualificazione energetica degli edifici, la riduzione del limite di velocità sulle autostrade, incoraggiando i cittadini ad acquistare auto che consumino e inquinino meno, incentivando l’uso delle biciclette e dei mezzi pubblici, trasferendo gradualmente parte del trasporto merci dalla strada alla rotaia o a collegamenti marittimi e, soprattutto, mettendo in atto una campagna di informazione e formazione culturale, a partire dalle scuole, per mettere in luce i vantaggi della riduzione dei consumi individuali e collettivi e dello sviluppo delle fonti rinnovabili rispetto al consumo di combustibili fossili e ad una estesa trivellazione del territorio.

L’unica via percorribile per stimolare una reale innovazione nelle aziende, sostenere l’economia e l’occupazione, diminuire l’inquinamento, evitare futuri aumenti del costo dell’energia,  ridurre la dipendenza energetica dell’Italia da altri paesi, ottemperare alle direttive europee concernenti la produzione di gas serra e custodire l’incalcolabile valore paesaggistico delle nostre terre e dei nostri mari consiste nella rinuncia definitiva ad estrarre le nostre esigue riserve di combustibili fossili e in un intenso impegno verso efficienza, risparmio energetico, sviluppo delle energie rinnovabili e della green economy.

Condividi

Volkswagen in Usa: ‘Questo non è il diesel di tuo padre’

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015L’affare Volkswagen potrebbe sintetizzarsi nello slogan pubblicizzato in America dalla casa tedesca: “Questo non è il diesel di tuo padre”. Nonostante la stizzita ironia antigufi che da giorni inonda il Foglio di Giuliano Ferrara, è difficile riabilitare una delle truffe più ignobili della storia industriale e limitarsi alla preoccupazione per le perdite e l’eventuale declino del più grande produttore di auto al mondo.

carmakers-failure-infographic-630x315

Da troppo tempo il motore a combustione interna – diesel in particolare – è sotto accusa per i danni alla salute, per le emissioni nocive e per il consumo di suolo che le autovetture occupano in relazione al trasporto di persone assai spesso singole. La “bomba” esplosa dopo le prove fornite dall’International Council on Clean Transportation non è molto lontana a mio parere dall’effetto di Fukushima, con l’aggravante che nel caso delle emissioni i consumatori hanno un ruolo diretto e assai più stringente dei governi nello scegliere le alternative. A poco vale il ricatto su centinaia di migliaia di lavoratori occupati e il coinvolgimento dei “potenti sindacati” nel solito giochetto per cui sarebbero loro i più ostinati oppositori ad una riconversione ecologica. Che invece va avviata con urgenza, partendo dagli effetti spaventosi che il trucco ha già procurato e dai vantaggi occupazionali che si potrebbero trarre da una transizione governata alla mobilità sostenibile.

Secondo il Guardian lo smog è causa di quasi mezzo milione di morti premature ogni anno, e l’Unione europea sa che quasi il 40% delle emissioni di ossido di azoto dipendono dal trasporto. L’inganno perpetrato dalla casa automobilistica rischia di aver prodotto quasi un milione di tonnellate di emissioni di ossidi di azoto (NOx), grosso modo quanto ne producono tutte le centrali elettriche, le auto, le industrie e l’agricoltura del Regno Unito. La società tedesca ha ammesso che il dispositivo potrebbe essere stato montato su 11 milioni dei suoi veicoli in tutto il mondo, con conseguenze da 10 a 40 volte quelle stimate per gli Stati Uniti.

Certamente, come appare nella pubblicità, una “Passat” di oggi non richiama immediatamente il puzzolente pick-up dei film degli anni cinquanta. Ma non per questo si può tacere su questioni, come le quattro sotto riportate a cui si è data ancora poca attenzione.

1. La scelta intenzionale di Volkswagen ridefinisce drasticamente il concetto di malware. Siamo abituati a malware che ruba password, inietta pubblicità o altera il funzionamento dei computer o dei telefonini; non era ancora capitato che del malware inserito intenzionalmente dal costruttore consentisse di nascondere un inquinamento atmosferico su vasta scala. Siamo ad una forma di crimine occultata abilmente, ma non dissimile dall’impiego dell’amianto in edilizia.

2. La vicenda non si fermerà al dolo VW. E’ impossibile che una nota dei laboratori JRC alla commissione Ue, che denuncia come i test su strada evidenzino che solo 3 modelli su 23 rispettano davvero gli standard Euro6, sia potuta passare in silenzio. Quando non c’è vigilanza si commettono abusi, e quando si invoca la segretezza in nome della sicurezza, spesso la vera ragione è che si vuole carta bianca per commettere questi stessi abusi o per nasconderli. Se poi è vero che i software ingannevoli sono già stati vietati dal 2007 con il regolamento Euro 5 e 6, allora è improbabile che il dispositivo della Bosch sia stato utilizzato solo dalla fabbrica di Wolksburg. Teniamo conto che pubblicazioni prestigiose come il report di Transport&Environment,  “Don’t breathe here” (“Non respirare qui”) denunciano da mesi come in Europa ci siano sistemi e meccanismi di controllo meno rigorosi che negli USA.

3. Volkswagen ha assunto lo studio legale statunitense che difendeva BP dal disastro petrolifero della Deepwater Horizon per trattare le multe che verranno comminate. L’assunzione di Kirkland & Ellis è emersa quando il governo tedesco ha ammesso che sapeva già di “impianti di manipolazione” che potevano imbrogliare le prove di emissione. Oliver Krischer, il vice leader del partito dei Verdi, ha detto alla televisione di Berlino che questo evidenzia che il governo sapeva che i costruttori di automobili stavano cercando di manipolare le prove di emissione. Tuttavia, l’agenzia di categoria che rappresenta i produttori di automobili europei ha insistito in questi giorni sul fatto che non c’era “alcuna prova” che lo scandalo si fosse diffuso al di là di VW.

4. Dopo la firma del contratto sui cambiamenti climatici (Protocollo di Kyoto) nel 1997, la maggior parte dei Paesi ricchi sono stati obbligati per legge a ridurre le emissioni di CO2 in media dell’8% in 15 anni. Quello del Diesel era stato un mercato di nicchia in Europa fino alla metà degli anni 1990, costituendo meno del 10% del parco auto. (I diesel producono il 15% in meno di CO2 rispetto alla benzina, ma emettono quattro volte più inquinamento di biossido di azoto e 22 volte più particolati, le minuscole particelle che penetrano polmoni, cervello e cuore). Sotto la pressione Ue per ridurre le emissioni di anidride carbonica, il diesel, dall’essere una scelta stravagante, è diventato il propulsore principale in Europa. La sua quota di mercato nel Regno Unito è salita da meno del 10% nel 1995 a oltre il 50% nel 2012.

Le case automobilistiche giapponesi e americane hanno invece sostenuto ricerche di auto ibride ed elettriche, quando la Commissione europea era fortemente spinta dalle grandi case automobilistiche tedesche Bmw, Volkswagen e Daimler, ad incentivare il diesel. Il trade-off tra la riduzione delle emissioni climalteranti e l’aumento dei problemi di salute non è stato ampiamente dibattuto e le case automobilistiche di conseguenza hanno adottato la soluzione facile di ingannare il sistema attraverso i malware informatici.

Il clamore della questione qui riportata accelererà riflessioni profonde sul trasporto, a partire dalla necessità di ridurre non solo le emissioni, ma anche il traffico e la potenza per unità di peso trasportato. Nell’immediato la mobilità elettrica sembra destinata a svolgere un ruolo centrale nello scenario climatico che prevede drastiche riduzioni delle emissioni al 2050. Con le fonti rinnovabili che alla fine del prossimo decennio garantiranno la metà della domanda elettrica in Europa e che sono in forte espansione in tutto il mondo, questa tecnologia contribuirà significativamente a decarbonizzare il settore dei trasporti. In più, la presenza di un rilevante numero di auto elettriche con batteria rappresenterà un formidabile sistema di accumulo diffuso, prezioso nella gestione delle elevate quote di elettricità intermittente come quella solare ed eolica, con la connessione alla rete elettrica dei veicoli per la ricarica.

Condividi

Il prezzo del petrolio tra Teheran e Parigi

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015E’ passato un anno dall’inatteso crollo delle quotazioni petrolifere che ha portato il prezzo del greggio dal valore di 116,7 dollari al barile di giugno 2014 a quello di 58 dollari di gennaio 2015. Si tratta di una questione fondamentale in una società ed una economia che si sviluppano su una piattaforma energetica in vigore da quasi 200 anni, dato che il capitalismo moderno poggia ancora sul petrolio.

Perché questo crollo? Diverse sono state le interpretazioni, ma due sono stati i fattori decisivi: l’intensità della cosiddetta shale revolution, ossia la rivoluzione dello shale oil americano, oggi in crisi di prospettiva sul medio termine e la decisione saudita, adottata dall’intera Opec, di non limitare le estrazioni ed, in tal modo, di non tentare alcuno sforzo per limitare la riduzione dei prezzi. La storia dei prezzi del greggio è sempre stata caratterizzata da questo problema: riducendo la questione all’osso o ce n’é troppo (prezzo basso) o ce n’è troppo poco (prezzi alti).

Oggi il mercato è caratterizzato da un eccesso di offerta quantificabile in 2 milioni di barili al giorno di troppo. Come conseguenza, i produttori nordamericani di shale sono andati in crisi e nel primo semestre il numero delle perforazioni ha registrato un calo costante, settimana dopo settimana. Va detto che le piccole aziende dello shale oil (parliamo di 13 mila imprese), hanno mostrato una capacità di reazione e di riduzione dei costi imprevista, stimolata dalla natura di questo tipo di attività che richiede continue perforazioni e quindi continui investimenti. I prezzi in caduta hanno certamente bloccato lo sviluppo dello shale oil fuori degli States, mentre all’interno hanno portato a un dimagrimento del settore, ma non ancora ad un crollo (anche se gli analisti del settore vedono nero nel medio-lungo periodo).

In Italia il consumo largamente prevalente del petrolio è nell’autotrazione, perché nella generazione elettrica è residuale (nel 2014 ha assorbito 1,5 milioni di t. sul totale di 57,6). Per gli automobilisti, quindi, non si preannuncia alcun ritorno a nuovi rialzi, ma neppure sono da attendersi significativi ribassi, poiché sui carburanti è applicato un carico fiscale enorme e la materia prima nel 2014 ha contato solo il 30% del prezzo finale del carburante ed è su questa quota residuale che ha effetto il calo delle quotazioni del greggio.

L’accordo sul nucleare con l’Iran, fortemente voluto da Obama per ragioni geopolitiche prima che economiche, rafforza la previsione di una prosecuzione del periodo di ribasso dei prezzi. Infatti, l’aumento dei consumi previsto sarà ampiamente compensato dall’offerta di greggio iraniano che nei prossimi mesi tornerà sul mercato. Teheran ha infatti annunciato l’intenzione di aumentare l’export di 500 mila barili al giorno, per arrivare dopo sei mesi a raddoppiare.

La morale della favola è che in un mondo che ha una capacità produttiva di greggio pari al 13% in più del consumo la rinascita iraniana produrrà un nuovo ribasso, nel contesto di una lotta senza quartiere fra i diversi produttori che continuano a spingere sull’acceleratore delle estrazioni per sopravvivere al calo delle entrate (Iraq ed Arabia saudita stanno producendo a livelli record).

Ma il petrolio a basso costo è un bene? In una economia basata su questa fonte (e sulle “sorelle” fossili) sì, ovviamente, dal punto di vista del denaro e della finanza. E purtroppo il mondo di oggi, nonostante tanto parlare di “energie pulite”, rimane un mondo dove si scava, si estrae e si brucia quello che madre natura ha preparato nel corso dei millenni.

Ma in un mondo meno dipendente dalla combustione l’aria sarebbe diversa, nel vero senso della parola e a questo mondo cerca di volgere lo sguardo la prossima conferenza di Parigi sul clima (COP 21), tentando un accordo per limitare l’aumento medio della temperatura a due gradi, per non rischiare di star male come accade quando la temperatura corporea supera i 39 gradi, come nella stagione attuale anche qui da noi.

L’obiettivo di Parigi è possibile solo se ci si impegnerà a bruciare meno fonti fossili, petrolio e gas in particolare, lasciandole sottoterra o in qualsiasi altro posto si trovino. Quindi il petrolio a basso costo non aiuta a rivoluzionare il settore dei trasporti, dove regna sovrano, e la leva economica non favorirà buone scelte nel campo energetico in generale. Occorre maggior impegno politico (nel senso buono del termine, visto che ormai la sua connotazione risulta negativa) per prendere sul serio la sfida del clima.

L’enciclica del Papa e la battaglia per evitare il disastro climatico hanno quindi un avversario molto potente sul piano dei costi attuariali e delle convenienze a breve termine.
La difficoltà a prendere sul serio questa sfida è legata ad un deterioramento etico e culturale, che accompagna quello ecologico. L’uomo e la donna del mondo postmoderno corrono il rischio permanente di diventare profondamente individualisti, e molti problemi sociali attuali sono da porre in relazione con la ricerca egoistica della soddisfazione immediata, con le crisi dei legami familiari e sociali, con le difficoltà a riconoscere l’altro”.

Ma c’è un momento nella vita di ciascuno di noi, in cui ci si rende conto di avere una responsabilità verso noi stessi e le facce che ci stanno intorno. In quel momento capiamo anche che solo accettando questa responsabilità troveremo un senso alla nostra vita. E’ tempo che collettivamente emerga questa consapevolezza e che quindi all’oro nero sia tolta la sua corona.

a cura di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

Condividi

Shale gas: dalla rivoluzione ai necrologi

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015“Nonostante tutta la propaganda di petrolieri, investitori, banche e politici lo shale gas non sarà la soluzione di nessuno dei nostri problemi energetici o occupazionali”. Lo affermava nel suo blog Maria Rita D’Orsogna più di un anno fa e io stesso sono più volte intervenuto su questo blog per sfatarne le virtù salvifiche, che ogni ad che si rispetti delle corporation energetiche italiane andava proclamando in tutti i convegni in cui si auspicava un approdo delle tecniche da scisto in Europa.

Interi dossier sono stati curati per disegnare il primato che gli Usa avrebbero conservato a lungo nel settore dell’energia, stroncando sul campo Russi, Arabi, Iraniani e l’Opec tutta. Invece due fattori – uno di natura geopolitica (l’abbassamento del prezzo del petrolio da parte dell’Arabia saudita) e l’altro di natura locale (la crescente opposizione dei movimenti locali negli Usa) – hanno capovolto le previsioni. Sono in atto opposizioni per ragioni ambientali in più parti del mondo,dalla California, al Sussex, in Bulgaria, in Algeria, nel Queensland.

Sara Stefanini e KalinaOroschakoff in un recente articolo sulla rivista Politico hanno documentato le difficoltà enormi che il metodo di fratturazione idraulica sta incontrando in Europa ancor prima di essere sperimentato su larga scala. Il film Gasland ha aperto gli occhi a molti attivisti, dando luogo a proteste organizzate per impedire l’inizio delle perforazioni. Una previsione dell’Us Energy Information Administration valutava in 18 miliardi di metri cubi il gas recuperabile in Europa, in particolare in Polonia, con il 29%, e in Francia, con il 28%. Ma in Polonia, ConocoPhillips è ormai l’ultima compagnia internazionale che ha lasciato le prospezioni e nel Regno Unito un consiglio locale di contea ha bloccato in questi mesi un progetto sostenuto a forza dal governo inglese.

Molte cose in Europa hanno preso una brutta piega per lo shale. La Russia con una campagna di informazione si è impegnata attivamente con le organizzazioni non governative e le organizzazioni ambientaliste con il doppio scopo di frenare l’espansione della tecnica e mantenere la dipendenza europea dal gas importato attraverso i gasdotti. Le preoccupazioni locali sui processi, il rumore, l’inquinamento delle acque e i terremoti, hanno preso il sopravvento, uscendo dall’irrazionalità e creando una vastissima documentazione scientifica sui danni e rischi del fracking e mettendo a nudo l’imprevidenza delle autorità nazionali, concentrate sull’energia potenziale e i benefici economici, ma non sugli effetti ambientali.

L’incertezza normativa ha fatto la sua parte: nessun Paese nel continente ha la stessa normativa e le raccomandazioni della Commissione europea per gestire i potenziali rischi ambientali non sono vincolanti e aprono la porta a varie interpretazioni. Così Bulgaria e Francia hanno vietato il fracking, mentre la Germania si interroga su quali regole stabiliscano standard ambientali difficilmente garantibili. Inoltre, non tutte le rocce di scisto sono le stesse e la geologia sul posto smentisce le previsioni di abbondanza: Conoco, Chevron ed Eni tutto abbandonato le loro licenze di esplorazione in Polonia dopo non essere riuscite a trovare quantità commerciali di gas.

Anche i costi si stanno rilevando poco attraenti. Le economie di scala devono ancora entrare in vigore in Europa. Negli Stati Uniti, la perforazione costa da 3 a10 milioni di dollari per pozzo. In Polonia, i 70 pozzi trivellati finora hanno un costo da 15 a 28 milioni di $ ciascuno. Ciò significa che i produttori di scisto avrebbero bisogno di un prezzo del gas ancora più elevato (circa il doppio di quello convenzionale) per giustificare il loro investimento. Infine, mentre negli Usa i proprietari terrieri hanno guadagnato molto dalle “royalties di scisto”, nella maggior parte dei paesi europei le licenze per un pozzo sono poco remunerate.

In conclusione, lo shale gas non è una priorità nemmeno per l’industria europea. E questa è una buona notizia, non solo per gli ambientalisti, ma per chi non vuole pagare con la distruzione della natura e con l’irreversibilità del cambiamento climatico uno sviluppo dissennato e una ricerca di competitività a tutti i costi, che portano alla dissoluzione dei legami di solidarietà tra i popoli e verso le future generazioni.

Condividi