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Il carbone di A2A, sporca fuori, pulita dentro

dal Blog di Mario Agostinelli

Diversi commenti all’ultimo mio post su A2A e il carbone nella centrale compartecipata in Montenegro criticano la mia “pretesa” di avanzare riserve di carattere ambientale su operazioni vantaggiose economicamente anche se “sporche”. Vorrei innanzitutto ricordare che ex municipalizzate – ora SpA – come A2A hanno come azionisti di maggioranza i comuni che le hanno fatte nascere per gli esclusivi interessi dei loro abitanti. Di conseguenza, nei loro casi, la redditività economica non può prescindere dalla salute, dai danni climatici, dai rischi finanziari – non solo attuali – cui possono essere esposti i cittadini (in questo caso di Brescia e Milano).

In questo quadro risulta allora istruttivo valutare il resoconto dell’assemblea annuale di A2A del 10 giugno scorso in cui si è preso in esame il coinvolgimento montenegrino dell’azienda, su richiesta esplicita di un azionista critico nei confronti dell’importazione di elettricità da carbone. Seguendo le piste della domanda avanzata a nome di un comitato locale e delle risposte del Presidente, scopriamo che:

a) Andrebbe superata la diffidenza verso una attività “colonizzatrice” da parte dell’azienda milanese-bresciana. Dal che si deduce che per il management è superato l’ambito territoriale vissuto come linea guida dell’attività e che il mercato è il campo aperto in cui si giudica la strategia aziendale. Che, nel caso, può essere quella di incorporare gradualmente le aziende a partecipazione comunale di tutta la Lombardia e rischiare avventure extraterritoriali discutibili sotto molti profili, purché immediatamente redditizie (nel caso del Montenegro l’affidabilità di quel governo non è certo indubbia).

b) Il negoziato con il governo del Montenegro per continuare l’avventura del carbone verrà sottoposto a verifiche di redditività e efficienza aziendale, senza cenno alcuno alle implicazioni ambientali locali e globali della combustione di quantità elevate di lignite. E inoltre, nel caso di rottura del tavolo, è previsto un “arbitrato internazionale a Washington” per salvaguardare e dare valore attuale all’investimento realizzato nel 2009. Ci sono aspetti da non minimizzare: per esaminare la convenienza effettiva dell’operazione, occorrerebbe spiegare come si importerebbe l’energia prodotta a basso costo, se non con un elettrodotto (quello “interadriatico” approvato contro i territori abruzzesi di approdo e finanziato pubblicamente?); inoltre, se si ricorre ad un arbitrato, dove comparirebbero gli interessi dei cittadini milanesi, bresciani e montenegrini? Non è forse una delle maggiori obiezioni al negoziato tra Europa e Stati Uniti (Ttip) quella della possibilità di sottoporre a decisione esterna di natura privata i conflitti tra governi o enti pubblici e imprese? Perché proprio A2A – società ancora a maggioranza pubblica – dovrebbe spingersi in questa direzione?

c) La paradossale inversione dei fini dell’operazione Montenegro, rende ancora più oscure le ragioni del perché siano i cittadini a doverla finanziare: importare energia gravida di CO2, non fa bene all’ambiente, allontana il rispetto dei nostri impegni sul clima e contrasta con ogni dichiarazione pubblica dei nostri governanti come quella al G7 in Germania, dove ci siamo impegnati a fare di tutto per mantenere l’aumento di temperatura globale sotto i 2°C. Se da questi impegni scaturisse – che so – una Carbon Tax, dove finirebbe la valutazione di mercato espressa nell’immediato e che da molti è ritenuta determinante ed esaustiva?

Con le tendenze sempre più accentuate al decentramento della produzione energetica e all’ottimizzazione su base territoriale dei cicli di acqua, energia, cibo e consumo di suolo, si sente il bisogno di interventi pubblici e partecipati, sottratti alla sola dimensione del mercato. La privatizzazione in corso delle municipalizzate dell’energia, l’estremizzazione dell’autonomia manageriale, lo scarso controllo su di essa dei comuni e dei cittadini, facilitano anziché contrastare l’ancoraggio al modello dei fossili. A2A dovrebbe rivolgere il suo futuro industriale e la sua strategia innovativa alla componente idroelettrica e rinnovabile assai più che a quella fossile-gas-inceneritori-teleriscaldamento. Alle giunte comunali nessun suggerimento per il dopo Expo dallo slogan “energia per la vita”?

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Montenegro, il carbone di A2A: importeremo energia inquinante?

dal Blog di Mario Agostinelli

L’11 giugno, i cittadini milanesi e bresciani, ancora – ma per poco – possessori di maggioranza con il 54,5% delle azioni della ex municipalizzata A2A potrebbero scoprire che le loro azioni – praticamente a loro insaputa – sono complici e decisive per la produzione di elettricità a carbone nella centrale di Pljevlja, nel Montenegro. Infatti è in quel giorno che si riunisce l’Assemblea di quella che oggi è una Società per Azioni, dove le decisioni sono sostanzialmente delegate ai manager e la politica industriale e finanziaria è solo sfiorata dai rappresentanti dei comuni e dei cittadini.

Non c’è dibattito alcuno sui giornali milanesi in questi giorni. Ma ci sono tutte le probabilità che nell’assemblea di A2A si deciderà per il carbone, come si dice, zitti zitti… Noi siamo stati sollecitati ad occuparcene, tramite il WWF internazionale, da un comitato locale di Pljevlja, che si oppone agli scavi nella vicina miniera di lignite (il carbone a più elevata emissione di CO2) e al potenziamento dei gruppi della centrale, nota in tutto il Montenegro per il suo inquinamento.

A2A montenegro

Che c’entra, direte, A2A? Queste sono le sorprese delle privatizzazioni più o meno striscianti che trasformano prima le municipalizzate in SpA, per poi lasciare ai comuni un controllo che, se inizialmente è di stretta maggioranza, finisce per scendere a quote al di sotto del 51%, magari in nome della maggior trasparenza del mercato.  Un mercato come quello dell’energia, che invece le sue regole le discute in conventicoli sempre più ristretti, di cui sono all’oscuro perfino i sindaci e gli assessori e senza potere i delegati comunali nelle assemblee delle ex-municipalizzate.

Secondo le informazioni della Reuters il governo del Montenegro ha costruito una partnership con A2A al 42%, che ha dato vita all’utility EPCG. La decisione presa dal governo montenegrino è di affidare ad una società ceca del gruppo Skoda la costruzione di un secondo gruppo a carbone da 253 MW, che affiancherebbe quello già esistente. Il Montenegro non ha bisogno dell’energia di due gruppi (il primo già dispone di una potenza 210 MW di potenza e ci sono impianti idro per 657 MW di capacità). A2A garantirebbe un finanziamento alla costruzione attraverso Unicredit.

Visto l’allargamento del campo, noi temiamo che sotto questi interessi in terra straniera (ma non sarebbe meglio che le municipalizzate si occupassero di energia sostenibile nei loro territori di competenza?) ci possa essere l’esportazione verso l’Italia di energia inquinante a basso costo attraverso il progettato elettrodotto dell’Adriatico.

Il governo infatti insiste a realizzare un’opera, l’interconnessione elettrica fra l’Abruzzo e il Montenegro, dal costo di circa un miliardo di euro, che forse dovremmo accollarci come contribuenti. Rispetto a 10 anni fa, quando fu pensato, il progetto ormai non ha più alcun senso economico visto le mutate circostanze del nostro sistema energetico, molto più decentrato e sorretto da energia naturale e locale.

Ormai i grandi investitori rinunciano al carbone in tutto il mondo. Che dire allora di A2A e governo? E cosa hanno da dirci l’Assemblea di A2A dell’11 giugno e la Giunta e i Sindaci di Milano e Brescia? Negli stessi giorni in cui è in corso l’Expo con lo slogan “Energia per la vita”…

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TTIP: UN TRATTATO PER I FOSSILI E CONTRO IL CLIMA

di Mario Agostinelli, Qualenergia, Aprile 2015

Il cambiamento è già in atto

Hermann Scheer sosteneva che la sfida energetica del XXI secolo si sarebbe giocata tra atomo e sole, in un anticipo ridotto all’essenziale dello scenario entro cui la geopolitica deve far i conti con la sfida per la sopravvivenza della biosfera. Secondo l’ideatore del “conto energia” un mondo vivente, soffocato da protesi artificiali di cui l’uomo si è circondato e che ha industrialmente prodotto e accumulato a disprezzo dei cicli naturali, avrebbe cercato scampo nella fonte nucleare per rallentare il cambiamento climatico senza alterare il modello capitalistico di crescita illimitata della produzione e dei consumi e, insieme, di spreco imperdonabile di lavoro e natura.

Nel secondo decennio del nuovo millennio la realtà è assai più complessa di quanto Hermann presagiva e presenta già tutte le turbolenze di un cambiamento profondo del paradigma energetico. La sorpresa cui ci troviamo di fronte sta nel crescente successo delle fonti naturali accompagnate da una ostinata ricerca di efficienza. Risultato non più ascrivibile al solo progresso tecnologico e alla raggiunta convenienza economica, bensì alla consapevolezza che la stabilità e il futuro di un modello di produzione e consumo non debba più passare dall’accaparramento delle risorse fossili. Un possesso e, contemporaneamente, un esproprio, conseguito per via militare o per “accordi” asimmetrici imposti dalla disparità economica dei contraenti. La verità è che quello che i governi trascurano – la responsabilità di assicurare salute, riproduzione e conservazione della specie – sta prendendo piede in una coscienza diffusa di cui abbiamo quotidianamente riscontro e che desidera cooperazione politica, riorganizzazione sociale e convergenza di “stili di vita”. In una lenta ma a mio avviso inesorabile presa di distanza delle popolazioni dalla competizione che i governanti inseguono nell’arena globale del mercato, ne sta passando di acqua sotto i ponti…

Molte sono le avvisaglie di un processo difficilmente reversibile, a dispetto dei disegni che il prevalere dell’economia sulla vita cerca ancora di perseguire.

1) Nonostante i rischi della tecnologia nucleare vengano esorcizzati con la promessa di una sua riconversione innocua e pulita e con impegni massicci dei governi che ne apprezzano la ricaduta militare (l’industria nucleare americana sostiene che occorre aumentare del 20% i finanziamenti a fondo perduto per le industrie dell’atomo, mentre il Pentagono ne appoggia la richiesta, suonando l’allarme per le minacce alla sicurezza nazionale rappresentata dal cambiamento climatico), solo il piano cinese sembra uscire dallo stadio di progetto sulla carta. E si avvertono anche in Asia le resistenze dei movimenti antinucleari.

2) Nonostante la riduzione dei prezzi dei fossili non convenzionali abbia fatto gridare alla “rivoluzione dello shale gas, il prezzo del petrolio non si stabilizzerà al ribasso nel lungo periodo, dato che i vincoli alle emissioni ne ridurranno comunque la compatibilità. In compenso, cresce il rischio di bolle finanziarie, perché sempre più elevati sono i costi attuariali di estrazione, combustione e trasporto.

3) Le tecnologie rinnovabili decentrate (sole + vento + geo + idro + biomasse), invece, pur limitate da una relativa discontinuità, sono sfruttabili direttamente in pressoché ogni angolo del mondo e stanno raggiungendo la “grid parity” a ritmi fino a un decennio fa impensabili. Nei primi tre trimestri del 2014, la Cina ha speso 175 miliardi dollari in progetti di energia pulita, un salto del 16 per cento rispetto all’anno precedente. Stando in Europa, sono le imprese a valorizzare per prime la maggiore disponibilità di elettricità da FER, al punto di richiedere che sia il mercato ad adattarsi alle FER, estendendo la possibilità di accumulo e di ricorso a reti intelligenti. Anche Bloomberg – una origine insospettabile – da tempo indica nel solare la fonte più conveniente in quanto a stabilità per gli investimenti.

Un conflitto di così ampia portata, che riguarda nientemeno che la transizione da un sistema fossile e nucleare, fondato su concentrazione di capitale, finanza e infrastrutture proprietarie, ad un sistema di fonti naturali non proprietarie, diffuse e territorialmente governabili, non sfugge certo agli interessi dei governi e delle corporation che tengono il campo nell’economia, nel commercio, nel sistema finanziario globale. Ed è qui che entra in campo l’iniziativa che Stati Uniti ed Europa in particolare stanno assumendo sul fronte dei trattati commerciali che riguardano anche l’energia, di cui tratterò di seguito in dettaglio.

Il TTIP: tra “Washington consensus” e illusioni liberiste

Va qui ricordato che quando si tratta di esportazioni di GNL o shale gas, la legge statunitense concede l’approvazione automatica alle applicazioni per i terminali destinati a spedire il gas ai paesi che hanno sottoscritto accordi commerciali con Washington, mentre le richieste di terminali GNL per inviare il gas altrove, al contrario, devono passare-attraverso un processo di valutazione, che determina se tale commercio è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Questo è il nodo che gli Stati Uniti vogliono risolvere una volta per tutte a loro vantaggio e a vantaggio delle loro imprese, sia con l’UE che con i Paesi asiatici (Cina e India escluse) e dell’Oceania. Washington è attualmente impegnata in due importanti accordi commerciali multilaterali di negoziazione: il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP, con i 28 Paesi dell’UE) e la Trans-Pacific Partnership (TPP, con 11 Paesi nella regione Asia-Pacifico e Americhe). Di fronte ad una palese asimmetria che gli Stati Uniti vogliono rendere norma universale cogente, l’UE sta purtroppo rinunciando ai suoi obiettivi ed è giunta ad annacquare gli obiettivi di efficienza e rinnovabili che si era fin qui data.

Sono le maggiori imprese euro-americane che si sono mosse, formalmente per avviare negoziati per un accordo di libero scambio che aumentasse ulteriormente “la generazione di ricchezza monetaria legata al commercio”. Gli obiettivi non dichiarati esplicitamente stanno però altrove: non tanto rimuovere le barriere commerciali fra i due partner per facilitare la vendita di merci e servizi, quanto allineare al ribasso le norme ambientali e sul lavoro, consentire la privatizzazione dei beni comuni, affidare i contenziosi che si apriranno in tema di diritti ad un arbitrato di natura privata, in cui le multinazionali e i loro interessi avranno ruolo decisivo. Nel caso specifico dell’energia la cosiddetta “coerenza nei regolamenti” e una “più stretta cooperazione” minano alle fondamenta la cultura di cui l’Europa è stata a lungo leader nel mondo.

Business Europe – la più grande federazione di datori di lavoro europei, che rappresenta le maggiori multinazionali d’Europa – ha accusato la normativa ambientale europea di aver posto le imprese continentali in una situazione di svantaggio rispetto ai loro concorrenti globali, ed ha evidenziato la “necessità di ridurre il differenziale UE-USA”.

Sotto tiro ancora il protocollo di Kyoto, che in attesa della COP di Parigi entrerebbe in una nuova fase critica, dato che i grandi emettitori di CO2 avrebbero strada libera per aumentare l’inquinamento e, quindi, gli accordi sul clima troverebbero una sintonia di opposizioni sul fronte “atlantico”.

Il risultato del reciproco riconoscimento degli standard ambientali potrebbe essere il proliferare di tecnologie controverse come la fatturazione idraulica (fracking) per produrre il gas di scisto, con gravi danni alla salute e alla sicurezza delle persone e dell’ambiente. Il fracking, già bandito in Francia per rischi ambientali, potrebbe diventare una pratica tutelata dal diritto: le compagnie estrattive interessate ad operare in questo settore potrebbero – sulla base delle norme previste – chiedere risarcimenti agli Stati che ne impediscono l’utilizzo. Diverse imprese energetiche USA hanno posato gli occhi sui giacimenti europei di gas di scisto (specialmente in Polonia, Danimarca e Francia) e potrebbero avvalersi del TTIP per smantellare i divieti e le moratorie nazionali adottate per proteggere i cittadini europei. Nella sua attività di lobby BusinessEurope sollecita un capitolo energia che renda libero il flusso di petrolio e di shale gas dagli USA all’Europa. Ad oggi infatti non esiste export petrolifero dagli USA e per il gas si attende il 2016, ma esistono molte restrizioni legislative oltreoceano al riguardo. L’eliminazione di qualsiasi restrizione all’export di materie prime fossili in Europa è la richiesta di una industria europea che, consapevole dell’esaurimento delle risorse del vecchio continente (la produzione domestica di petrolio è stimata in calo del 57% al 2035 e quella del gas del 46%), ignora la possibilità della rivoluzione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza e rimane ancorata a carbone, gas e petrolio.

L’Unione, dal canto proprio, ha fatto di tutto nell’ultimo periodo per preparare il terreno delle importazioni di idrocarburi non convenzionali. Ha stracciato tutti i regolamenti che si era data per limitare l’inquinamento, come la direttiva sulla qualità dei carburanti e quella sulla qualità dell’aria. Un regalo all’industria automobilistica da una parte, alle multinazionali dell’energia fossile dall’altra. Si andrebbe così verso l’armonizzazione nella concessione delle licenze di estrazione: i Paesi contraenti sarebbero obbligati a rimuovere ogni ostacolo che inibisca la libera circolazione dei combustibili fossili (ogni comunità che reagisca alla costruzione di oleodotti, leggi Keystone XL, o a nuovi pozzi, leggi Basilicata, è avvertita).

Interessante in questo quadro è notare la predisposizione del nostro Governo a anticipare le avances americane e a offrirsi come l’approdo (hub) europeo del gas. Federica Mogherini, alto rappresentante Ue per gli affari esteri e certo non estranea alle posizioni italiane al riguardo, ha fatto pressioni a dicembre sul segretario di Stato americano John Kerry per inserire il capitolo sull’energia nel Trattato e, con esso, aprire un canale di importazione per lo shale gas americano. Mogherini ha sostenuto che un capitolo sull’energia nell’accordo di libero scambio potrebbe rappresentare “un punto di riferimento per il resto del mondo” in fatto di mercati energetici.

Per i biocombustibili, il TTIP, attraverso l’armonizzazione delle normative europee in ambito energetico, incentiverebbe l’importazione di biomasse americane che non rispettano i limiti di bilancio di emissione di gas a effetto serra e altri criteri di sostenibilità ambientale.

Per le rinnovabili si profila il divieto assoluto di “domestic content nelle energie alternative” (quindi addio ad ogni connessione tra sviluppo locale e green economy), con stretti limiti alla possibilità in uso in Europa di incentivare le fonti naturali. In particolare, l’articolo O della bozza al comma a) vieta ai Governi di far valere “requisiti relativi al contenuto locale” nei programmi per le energie rinnovabili. Tradotto dal burocratese, significa abolire la corsia preferenziale per favorire chi produce e consuma sul posto energia rinnovabile.

Nei carburanti da autotrazione sono differenti i limiti inquinanti e anche qui il rischio è un accordo al ribasso. Assai critica è la discussione che si è aperta sulla qualità dei carburanti, che impone in Europa di assicurare una riduzione delle emissioni dei gas serra nell’intero ciclo di vita dei combustibili impiegati nel settore dei trasporti. Fin dalla sua adozione Shell, BP, Exxon Mobil, Chevron e gli altri big del petrolio hanno fatto pressioni per annacquare i suoi effetti. L’UE sinora ha sostenuto un “peso CO2” diverso per ciascun carburante in base all’origine/metodo di estrazione della materia prima. E’ su queste basi che il petrolio non convenzionale (ad esempio quello estratto dalle sabbie bituminose in Canada), che in seguito al processo di estrazione emette più anidride carbonica di quello convenzionale, viene penalizzato e fin qui rifiutato.

L’articolo D al punto 2, stabilisce che i Governi, in materia di energia, abbiano la possibilità di mantenere obblighi relativi all’erogazione dei servizi pubblici solo finchè la loro politica non è più onerosa del necessario. Diventerebbe quindi praticamente impossibile accordare ai più poveri e ai più deboli una “tariffa sociale” ribassata del gas o dell’energia elettrica. Prezzo di mercato per tutti, senza se e senza ma! (ma Renzi ci ha già pensato e la tariffa di maggior tutela per gas e elettricità cesserà per decreto tra un anno e mezzo).

Qualche riflessione conclusiva

In nome della competitività, dunque, si calpestano le capacità fisiche del pianeta, si ignorano le disastrose conseguenze sul clima, si ipoteca il futuro per un immediato piatto di lenticchie. Strano come questa enorme partita ancora non susciti allarme e reazione nell’opinione pubblica.

La rivoluzione Shale è sopravvalutata e potrebbe nel medio periodo rivelarsi strategicamente non solo poco risolutiva, ma addirittura perniciosa, dato che i vincoli climatici e finanziari di lungo periodo potrebbero risultare per questa tecnologia esiziali. In quanto rivaluta le riserve energetiche degli Stati Uniti precedentemente in grave crisi, fornendo ad essi una posizione di rilievo assoluto in un mercato tuttavia molto complesso, risulta ovvio che i produttori americani cerchino mercati di sbocco. Ma quale interesse può avere l’Europa – e il mondo intero – per un calcolo senza senso, se si parte dal bilancio energetico e dall’obiettivo di produrre sempre più elettricità consumando sempre meno risorse naturali, emettendo sempre meno anidride carbonica ed altri inquinanti. Questo dovrebbe essere l’obiettivo della politica energetica, preda ancora della retorica di una insuperabile contesa fra rinnovabili e fossili. E’ un discorso che in Italia, in una paradossale insicurezza energetica, dovrebbe rappresentare il nerbo di una politica industriale per sfruttare al massimo le proprie risorse naturali rinnovabili in un orizzonte che unisca lavoro, ambiente, clima e politica estera.

Non sembra che la classe dirigente mondiale – e italiana in particolare – sia all’altezza di una simile sfida. Basta ricordare che un esperto stimato come Alberto Clò, in una intervista ad un quotidiano nazionale, accusa l’Europa di “aver inseguito le farfalle delle rinnovabili”, “promuovendo una strategia illusoria di de-carbonizzazione delle fonti di riscaldamento e finendo per riversare su gas ed elettricità oneri non di mercato, legati agli incentivi per le “energie pulite”. Mentre, a suo dire – e delle sue fonti di ispirazione – “è certificato che nel lungo termine la crescita delle richieste energetiche potrà essere soddisfatta per l’80-85 per cento solo dai combustibili fossili”. Un po’ il contrario di quanto abbiamo provato qui a sostenere e documentare. Ma tant’è, perché se, a giudizio di Panebianco, l’obiettivo della politica energetica è quello di “spingere Teheran e Mosca a più miti consigli”, allora le grandi questioni dell’uguaglianza sociale e climatica, dell’accesso non dissipativo alle risorse naturali, del diritto alla pace come premessa ad una vita dignitosa, della democrazia come risorsa e potere di decisione saranno sempre fuori portata.

Ma al di là di tutto deve essere chiaro un vizio d’origine dei negoziati al centro della nostra riflessione. Il TTIP ripercorre la strada del NAFTA, del WTO, di decenni di Washington Consensus, di globalizzazione al servizio delle multi nazionali, riproponendo una ricetta ormai obsoleta. La libertà intesa come possibilità di fare ciò che economicamente risulta più conveniente, così da favorire solo gli oligopoli della ricchezza e danneggiare chi purtroppo non ha reddito sufficiente per difendere i propri diritti elementari. L’astrazione del mercato è un danno per il pianeta, l’economia deve rientrare nell’ecosistema perché le leggi della fisica non sono negoziabili. Questo andrebbe ricordato ai negoziatori del TTIP. E’ urgente sempre più un trattato sulla biosfera, che gli ultimi sussulti della geopolitica imperniata sulla guerra (militare, economica, sociale) vorrebbero allontanare nel tempo. L’appuntamento di Parigi a Dicembre potrebbe dare una chance a questo percorso nuovo, socialmente ed ambientalmente desiderabile, ma forse impraticabile se da qui ad allora si concludessero TTIP e TTP, due trattati che rappresenterebbero un nefasto canto del cigno di un liberismo che stiamo già ora pagando duramente.

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Corso di formazione “Energia del futuro e sviluppo sostenibile”

Il corso si prefigge di fornire le informazioni di base necessarie per capire e affrontare il tema delle fonti di energia e del suo legame con lo sviluppo e la sostenibilità. Durante il corso verranno descritte le modalità di produzione attuali (principalmente da fonti fossili) e la prospettiva della produzione futura da fonti rinnovabili (acqua, sole, vento, biomasse) sufficienti per rispondere al fabbisogno energetico dell’Umanità se unita ad un uso consapevole basato sul risparmio e l’eliminazione degli sprechi.

Si mostrerà l’importanza sociale, economica, energetica ed anche occupazionale del settore delle fonti rinnovabili e l’alternativa tra “energia di guerra” (nucleare+fossili) ed “energia di pace” (rinnovabili). Si forniranno utili indicazioni sui principali aspetti legali e fiscali che disciplinano il settore energetico. Alcuni esempi di impianti e di esperienze già realizzate oltre all’illustrazione di alcune soluzioni tecnologiche futuribili completeranno il corso.

Organizzazione: Carolina Balladares (Terra Nuestra)
Direttore: Alfonso Navarra (Energia Felice)
Periodo di svolgimento: marzo/aprile 2015
Sede: sala conferenze, via Marsala 8 – Milano
Incontri: n. 4 da 2 ore

Il corso è gratuito ed è necessaria l’iscrizione congiunta alle associazioni “Terra Nuestra” ed “Energia Felice”

PROGRAMMA (in formato PDF)

1° incontro 26 marzo 2015
Ore 18.30 – 20.30
Alfonso Navarra c/o Carmen Gargiulo c/o Maurizio Colleoni

  • Presentazione del corso
  • La sostenibilità dal quartiere all’edificio
  • Costo del riscaldamento e isolamento termico
  • Pompe di calore e pannelli termico solari
  • Risparmio energetico nel quadro normativo nazionale

2° incontro 2 aprile 2015
Ore 18.30 – 20.30
Giuseppe Farinella c/o Rinaldo Zorzi

  • La produzione di energia elettrica in Italia e nel mondo
  • Nozioni generali sulla tecnologia fotovoltaica ed eolica
  • Riferimenti legislativi e incentivazione delle fonti rinnovabili
  • Tecnologie per la misura e il risparmio dell’energia in ambito domestico

3° incontro 9 aprile 2015
Ore 18.30 – 20.30
Roberto Meregalli c/o Fabio Strazzeri

  • La fabbrica del cibo: quanta energia, quanto inquinamento e quante emissioni climalteranti produce il sistema agroalimentare
  • Come si legge la bolletta
  • Contenziosi con i fornitori di energia

4° incontro 16 aprile 2015
Ore 18.30 – 20.30
Mario Agostinelli c/o Alfonso Navarra

  • Concetto generale di energia: energia e vita, energia e sviluppo
  • Energie rinnovabili e salvaguardia del pianeta
  • Energia nel futuro: rinnovabili, fissione, fusione
  • Piano energetico nazionale
  • Conclusioni

 

Supporti didattici:

  • Testo: “Cercare il sole dopo Fukushima” Aut. Mario Agostinelli, Roberto Meregalli, Pierattilio Tronconi;
  • Testo: “CIBO NON CIBO” Aut. Roberto Meregalli;
  • Testo: “Esigete! Il disarmo nucleare totale” Aut. Stéphane HESSEL e Albert Jacquard;
  • book: “ABB quaderno 10: Impianti fotovoltaici“ Ed. ABB;
  • book: “L’energia fotovoltaica op.22” Ed. ENEA;
  • Testo: “Energia per tutti” Manuale ARCI
  • Dispense dei relatori;
  • Slide “Energia Felice”

 

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Per il futuro: rinnovabili a buon mercato o petrolio drogato?

di Mario Agostinelli

Siamo costantemente messi di fronte all’esaurimento delle fonti fossili e al drammatico deterioramento del clima e dell’ambiente. Ma l’una e l’altro sono sovrastati da un chiassoso dibattito sul “benefico” crollo del prezzo del petrolio (ma i mercati scommettono che quel prezzo tornerà a 90 $ al barile entro un paio di anni…) e sull’acclamata opportunità di una estrazione di gas e olio con percorsi che si rivelano pazzeschi (permafrost, Artico, sabbie bituminose, fracking di scisti), sia dal lato del bilancio energetico sia da quello del danno ambientale. Una leadership mondiale che non sa come uscire dalla crisi da lei stessa prodotta e che fissa “road map” di rientro dal debito finanziario ad ogni incontro dei big (quanti sono e quanta CO2 per questi inutili e incessanti meeting?), mette in conto perfino la guerra perché non vuole uscire dal vincolo di un sistema energetico centralizzato e non si preoccupa del debito contratto verso la natura. Banalmente spera che tutto si appiani con uno sconto provvisorio sul barile.

La vita moderna si basa sull’uso onnipresente di combustibili fossili, tutti con rilevanti svantaggi non solo per gli effetti climatici. Il carbone, il più economico e più abbondante, è stata ed è la fonte più sporca, che contribuisce massicciamente all’inquinamento, non solo termico. Le forniture di petrolio sono vulnerabili agli shock geopolitici e a collusioni sui prezzi da parte dei produttori. Il gas naturale ha bisogno di lunghissime e vulnerabili pipeline, che limitano l’autonomia energetica e marcano le dipendenze da giacimenti fuori controllo, come nel caso dell’Europa dalla Russia. L’energia nucleare è afflitta da esposizioni finanziarie e da complicazioni politiche, intensificate dagli allarmi dell’opinione pubblica dopo gli incidenti di Chernobyl e Fukushima. Al contrario, le fonti rinnovabili come l’eolico e il solare comportano un basso impatto, ma sono ostacolate e mantenute in un ruolo marginale, nonostante un consenso crescente e saldo nei loro confronti.

In questo scenario, l’impressione che l’enfatizzazione del calo temporaneo del prezzo del petrolio faccia parte della volontà di dilazionare i tempi del cambiamento, non è solo giustificata, ma va analizzata in tutte le sue implicazioni, in particolare per quanto riguarda il modello sociale e economico che si vorrebbe procrastinare. Non si deve sottovalutare quanto il rilancio oggi del petrolio, a pochi mesi da un decisivo vertice sul clima, sia un elemento diabolicamente razionale e sapientemente ricattatorio, che le corporation e i grandi produttori dell’energia hanno messo in campo in una crisi economica per cui il liberismo non ammette alternative.

Nel 2013 nel mondo ben 550 miliardi dollari sono stati spesi per sovvenzionare i combustibili fossili, favorendo le multinazionali, distorcendo le economie e aggravando l’inquinamento. Per le rinnovabili gli investimenti (non i sussidi!) hanno registrato una media di 260 miliardi di dollari all’anno nel corso degli ultimi cinque anni. La IEA, l’organizzazione intergovernativa per l’energia, certamente di ispirazioni conservatrici, dice che il mondo dovrà sborsare circa 23.000 miliardi dollari nei prossimi 20 anni per finanziare l’estrazione di gas, petrolio e carbone, sempre meno accessibili. E, inoltre, stima che gli investimenti necessari oggi per la “decarbonizzazione” della sola produzione di energia elettrica si aggirano sui 44.000 miliardi dollari.

Proviamo allora a chiederci non tanto quello che il calo dei prezzi del petrolio significhi per l’energia pulita, ma quello che significherà la prospettiva di energia pulita e di efficienza energetica per il prezzo del petrolio.

Proviamo allora ad allargare lo sguardo. E’ addirittura l’edizione online di metà Febbraio di Bloomberg Energy ad affermare che vale la pena di investire nelle rinnovabili, data la conferma di un andamento costantemente positivo del settore.  Cioè, uno dei guru più prestigiosi del sistema finanziario e bancario mondiale sostiene la possibilità di ricorrere ad energia pulita per sopravvivere oltre la temporanea caduta del prezzo del petrolio. Da metà ottobre, mentre il greggio è sceso di quasi 30 dollari al barile, non ci sono stati cambiamenti nelle quotazioni dell’energia da fonti naturali, come misurato dal NEX (New Energy Global Innovation Index). E questo perché godono ormai di fatto di un sostegno politico e sociale generale, anche se contrastato nei media e disdegnato da Governi alla giornata come il nostro.

Una presa d’atto, quella del mondo degli affari più avvertito, che prevede stabilità oltre la tempesta. In pratica, la valutazione dei rischi da parte delle agenzie di credito all’esportazione risulta più vantaggiosa per investimenti nelle rinnovabili che non per opere di estrazione e trasporto dei fossili. Di conseguenza, si sono aperti mercati all’estero per le imprese “green” tedesche, danesi, coreane e statunitensi, sostenute dalle azioni dei loro governi.

Di fatto, i costi nell’eolico offshore sono sempre più ridotti, dopo che è stata raggiunta competitività nei due settori principali (vento onshore e PV). E la parity grid è stata ormai raggiunta anche senza particolari incentivi. Secondo il National Renewable Energy Laboratory (NREL), il costo di pannelli solari su una tipica casa americana è sceso di circa il 70 per cento negli ultimi dieci anni e mezzo. In Europa la convenienza è ormai accertata e migliorerà con investimenti in reti intelligenti e accumuli appropriati. I dati di produzione, poi, sono illuminanti: nel 2014 l’energia “pulita” nel mondo è volata ancora in alto, superando le aspettative (v. Ansa del 9 Gen 2015), con una crescita del 16% – pari a 310 miliardi di $ in investimenti – con un balzo record in Cina (+32%) e con crescite assai maggiori rispetto ai settori tradizionali anche in USA (+8%), Giappone (+12%), Canada (+26%), India (+14%), mentre da noi gli investimenti sono calati del 60% rispetto al 2013.

Il mondo cambia più rapidamente di quanto gli esperti sappiano immaginare e non è sufficiente studiare il passato per prevedere il futuro. La fame di energia dell’Asia e del Sud del mondo non è infinita e il loro sviluppo non sarà la fotocopia del nostro, perché rinnovabili ed efficienza sono ad uno step evolutivo ben diverso rispetto a quelli dei tempi della nostra crescita.

Alla luce di un esame attento, petrolio e gas di scisto non hanno inaugurato una nuova stagione dell’abbondanza: hanno solo reso accessibili risorse già conosciute e recuperabili grazie al prezzo elevato tenuto dal greggio fino a qualche tempo fa e solo a tale prezzo avranno ancora chance. E qui aggiungo: se glielo permetteranno lo sviluppo prevedibile delle fonti naturali diffuse e il risparmio praticabile negli edifici. I prodotti “shale” sono oggetto di aumentate preoccupazioni e perdita di consenso, con probabili effetti sul loro prezzo in futuro, come è già avvenuto per il nucleare.

A riprova, le preoccupazioni in USA e Canada per i rischi per l’acqua e il suolo, dato che il boom di estrazione da scisto richiede cambiamenti dirompenti nella gestione delle falde e dei terreni, ha indotto le comunità locali a chiedere garanzie con investimenti onerosi nella depurazione e nelle compensazioni ambientali, nonché nella sicurezza dei sistemi di tubazione e in quelli ferroviari di trasporto. Per di più, le nuove riserve energetiche si trovano in aree che non sono ben collegate ai porti o alle raffinerie già sviluppate nel secolo precedente e le imprese del settore energetico sono impegnate a costruire infrastrutture per abbinare la mutata geografia alla nuova offerta.

Un esempio delle riserve nell’opinione pubblica sulla tecnologie di estrazione non convenzionali viene anche dalla Germania, che, ha in queste settimane presentato un progetto di legge che ha cambiato le carte in tavola, anticipando al 2019 il permesso per estrarre gas da scisto. Quando il Ministro dell’Ambiente Barbara Hendricks ha detto che saranno applicate “le regole più severe che siano mai esistite nel settore del fracking”, ha freudianamente aggiunto che le perforazioni “saranno consentite solo con il massimo rispetto per l’ambiente e l’acqua potabile”.

Con un sapore da umorismo noir, la ministra prevede che il fracking sia vietato in tutte le aree di approvvigionamento idrico pubblico e consentito solo con criteri chiari per la gestione dell’acqua del serbatoio in cui finiscono i fluidi dell’operazione, suscitando un po’ di sconsolata ilarità e l’allarme dell’Associazione di Municipal Utilities (VKU), che fornisce circa l’80% di acqua potabile ai tedeschi.  Vincoli e normative rigide e sempre da migliorare per le popolazioni: costi in ascesa, quindi, o non se ne fa niente.

Intanto la Cina, il maggior consumatore in prospettiva, prevede l’autosufficienza energetica e la riduzione radicale delle emissioni di carbonio. Il presidente Xi Jinping annuncia sul South China Morning Post del 7 Febbraio di puntare ad abbassare il picco delle emissioni di anidride carbonica prima del 2030, con un ricorso al nucleare, ma, soprattutto, con una crescita impressionante delle rinnovabili. E aggiunge, significativamente, che “il cambiamento in atto nel mix energetico del Paese si basa su una minore dipendenza da carbone, lignite e petrolio e sull’aumento del consumo di energia pulita, cui seguirà il riequilibrio economico della nazione con un marcato rallentamento della crescita delle industrie manifatturiere ad alta intensità energetica e una rapida espansione del benessere e delle attività dei servizi”.

Per raggiungere gli obiettivi programmati, il “continente” ha bisogno di creare ex novo entro il 2030 da 800 a 1.000 GW di capacità di produzione di energia elettrica con zero emissioni. Il dettaglio presentato mette all’ultimo posto il ricorso al nucleare: 275 GW di capacità eolica, 385 GW di capacità solare e 120 GW di capacità idroelettrica, contro 85 GW di capacità nucleare. Suscettibili oltretutto di contenimento, per le riserve che si manifestano dopo l’incidente di Fukushima. L’esplosione degli impianti rinnovabili sulla scala macro del territorio cinese comporterà una drastica caduta del prezzo del kwh prodotto da pale, pannelli, digestori etc., con tecnologie di facile esportazione e adattamento anche nei paesi poveri.

Si ridurrà di conseguenza l’offerta eccedente di petrolio e gas da cui dipende in parte l’attuale caduta dei prezzi, pronti a risalire per l’impiego nei settori della mobilità, dei derivati post cracking e in quelli che richiedono la più alta densità energetica.

Se queste sono le condizioni nel medio periodo, meglio non adagiarsi sul prezzo attuale del greggio, ma prendere il tempo per le corna e accelerare il cambio di paradigma energetico che le energie naturali e rinnovabili – incardinate in stili di vita sostenibili – possono già innescare. Deve farsi strada la consapevolezza, fra chi governa e i cittadini, che essere sullo stesso pianeta e alimentarsi delle stesse risorse impone una politica globale di collaborazione, quando si ha come obiettivo la sicurezza, la guerra alla povertà, la difesa del clima e una vita e un lavoro decente per tutti. E questa è, forse, la chance vincente per decidere di superare rapidamente il sistema fossile e nucleare.

Di tutto questo non si è accorta l’organizzazione di EXPO 2015, che ha ridotto l’occasione di un appuntamento mondiale nel nostro Paese al solo capitolo alimentazione, privilegiando implicazioni prevalentemente commerciali rispetto alla sfida che quel binomio “energia-vita” –  originalmente presente all’avvio, ma praticamente cancellato dalla manifestazione che si aprirà – avrebbe comportato per un ripensamento  della sostenibilità a partire dalla Lombardia e dalla città di Milano.

 

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