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Tassonomia verde, il Parlamento Ue ha tradito il clima e i cittadini

Il 6 luglio 2022 il Parlamento Europeo si è prestato a una mistificazione che sa di scandalo: non respingendo l’atto delegato della Commissione presieduta da Ursula von der Leyen, nella sessione plenaria ha tradito il clima e i cittadini, approvando a maggioranza una serie di norme sulla finanza sostenibile che convoglieranno miliardi di euro in attività che, accelerando il cambiamento climatico, danneggeranno il pianeta e la vita delle nuove generazioni.

Grandi manifestazioni e centinaia di migliaia di firme in tutta Europa avevano esortato i loro europarlamentari a respingere un “greenwashing” coperto da aiuti pubblici e facilitazioni finanziarie.

L’inclusione del gas fossile nella tassonomia dell’Ue crea un serio pericolo di contrasto con altre leggi dell’Ue, in particolare con gli obblighi previsti dall’Accordo di Parigi, dalla Legge europea sul clima, dal Green New Deal malamente azzoppato.

Con questo atto delegato la direzione è ora segnata, benché l’inclusione di gas e nucleare sia limitata nel tempo e dipenda da condizioni specifiche e requisiti di trasparenza, che quasi sempre rimangono a discrezione delle aziende. Inceneritori, cogeneratori a gas per teleriscaldamento e teleraffreddamento, nuove centrali nucleari e un loro prolungamento del ciclo di vita sono ritornati prepotentemente in gioco e potranno quindi ricevere finanziamenti da parte degli investitori con grande soddisfazione delle lobby energetiche che operano alacremente a Bruxelles.

L’impegno dell’Europa per i cambiamenti climatici rimane invariato: è ancora obbligatorio ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento nel 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, in linea quindi con la legge europea sul clima… almeno sulla carta e con l’ipocrisia che caratterizza ogni contraddizione con gli obiettivi di ecologia integrale.

A votare contro l’inclusione delle due fonti energetiche in tassonomia sono stati 278 eurodeputati. La maggioranza necessaria per bloccare il progetto della Commissione guidata da Ursula von der Leyen era fissata a 353. Greenpeace ha annunciato che intraprenderà un’azione legale contro la Commissione europea. L’associazione ambientalista ha specificato che prima richiederà formalmente una revisione interna. Se il risultato di questa sarà ancora negativo, allora la causa verrà presentata davanti alla Corte di giustizia europea. Ora la discussione passa al Consiglio europeo. Se neanche il Consiglio respingerà la mozione, l’atto delegato sulla tassonomia entrerà in vigore il 1° gennaio 2023. Anche l’associazione “A Sud” ha promosso una campagna legale contro lo Stato italiano, intitolata Giudizio Universale, accusandolo di inazione nei confronti della crisi climatica in corso.

La maggioranza “Ursula” si è però spaccata a metà e anche quella che in Italia sostiene il governo Draghi è divisa. A votare per il rigetto dell’atto delegato sono stati Verdi, Sinistra e S&D. Per mantenere l’atto delegato hanno votato invece Ppe, Ecr, Id e la maggioranza del gruppo Renew. I voti in dissenso nel Ppe sono stati 36, quelli nei socialisti 21.Tra gli italiani Pd (compatto nel voto), M5S e Verdi hanno votato per il rigetto, FI, Fdi, Lega e Iv hanno invece votato a sostegno.

In assenza di una politica che sappia davvero ascoltare e dare seguito alle istanze ambientali, la strada giudiziaria è sempre più percorsa. Ma affinché la partita non sia chiusa occorre una volontà politica degli stati e dei governi, sorretta da una coscienza popolare e da un vasto movimento politico che non si rassegni a sopportare che profitti, capitale e riarmo soffochino le prospettive di vita e l’urgenza di cura del pianeta. Un folto gruppo di ragazze e ragazzi presidiava da due giorni il parlamento a Strasburgo. E’ ora che una adeguata mobilitazione calchi anche le vie e le piazze di un Paese dalle cui montagne si staccano inesorabilmente i ghiacciai.

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La guerra che rincorre i fossili, rallenta le rinnovabili e arricchisce Big Oil

Con il trascorrere dei giorni, la guerra in Ucraina non mostra soltanto lo spettro più atroce di enormi sofferenze ed i profitti odiosi dell’apparato militar-industriale, ma, nella follia che l’accompagna, rende evidenti enormi e calcolati interessi che stravolgono i mercati degli alimenti, dei combustibili e delle materie prime, mentre viene dilazionata in modo drammatico la conversione ecologica per combattere l’ingiustizia sociale e il cambiamento climatico. Su quest’ultimo aspetto e sulle politiche europee e nazionali al riguardo mi voglio qui soffermare.

Per ottenere il sostegno dei socialisti e dei liberali, Ursula von der Leyen si è impegnata a ridurre le emissioni di gas serra dell’Ue al 55% entro il 2030. Ora, il Partito popolare europeo (PPE) sostiene che la guerra in Ucraina renderà più difficile l’obbiettivo previsto e che gli inquinatori industriali dovranno avere più libertà di azione. Così, il centro-destra sta minacciando di far naufragare una riforma cruciale del mercato del carbonio, rischiando di far deragliare le ambizioni climatiche dell’Ue. L’eurodeputato francese Pascal Canfin ha riferito ad Euractiv che “Se sommiamo tutti gli emendamenti del PPE sui quattro testi in esame al Parlamento, non raggiungiamo il 55%”.

Molti sospettano che il PPE ricada nelle vecchie abitudini e difenda gli interessi delle industrie inquinanti coperte dal sistema per lo scambio di quote di emissioni (ETS). Dietro questa posizione c’è la volontà di acquisire nuove quote di carbone e metano provenienti da Australia, Qatar e Stati Uniti dopo le sanzioni sulla Russia.

Di contro, undici ex commissari dell’Ue, tra cui Romano Prodi, hanno inviato una lettera congiunta alla Commissione europea, martedì 3 maggio, chiedendole “una profonda trasformazione del sistema (energetico) verso idrogeno e rinnovabili” e “di garantire che le azioni a breve termine per allontanare l’Ue dalla dipendenza dai combustibili fossili russi non finiscano col costringere l’Ue ad una rovinosa dipendenza dai combustibili fossili da altri paesi”. Inoltre, invitano la Commissione a ritirare il suo progetto di atto delegato complementare per includere il gas fossile nella tassonomia dell’Ue come attività transitoria”.

In questo quadro in cui le destre europee si ergono a difesa delle multinazionali del settore Big Oil, è in corso una inversione rilevante dovuta alla pressione crescente degli investitori (i grandi fondi istituzionali in particolare) verso la transizione a fonti energetiche meno dannose per l’ambiente e il clima globali, con una spinta particolare verso eolico, fotovoltaico e idrogeno verde.

La risposta delle imprese fossili per eccellenza – come spiega Nicola Borzi su il Fatto Quotidiano del 9 maggio – sta nell’aumentare il rendimento del capitale per mantenere l’appeal delle proprie azioni. E qui viene in soccorso la guerra, ovviamente non per tutti in egual misura. Il conflitto in Europa orientale per ora ha stabilizzato i costi del petrolio in una fascia che oscilla intorno ai 110 dollari al barile, con un rialzo del 60% nell’ultimo anno. A questi valori, le imprese del settore realizzano enormi utili industriali. Sette delle più grandi multinazionali del greggio in media hanno triplicato i profitti netti rispetto a un anno fa. L’Eni li ha aumentati addirittura di dieci volte, da 0,3 a 3,3 miliardi di dollari. La statunitense Chevron li ha più che quadruplicati a 6,3, la francese Total li ha triplicati a 9 miliardi.

Le armi trasferite all’Ucraina dai Paesi Nato, da Canada e soprattutto Stati Uniti consumano ingenti quantità di fossili e, mentre attaccano pesantemente il clima, mantengono alti i prezzi dei combustibili, a qualsiasi costo, da attribuirsi non solo all’estrazione, ma, in aggiunta, ai trasporti via nave, alla rigenerazione di vecchi metanodotti, al costo della liquefazione del gas e dell’allestimento di impianti di rigassificazione nuovi “di pacca” alle banchine dei porti europei.

Washington immetterà sul mercato in media un milione di barili in più al giorno, spesso di provenienza da gas di scisto, destinati, dopo liquefazione e trasporto transoceanico ai moli del Mediterraneo e del Baltico. Con la guerra in Ucraina il gas naturale liquefatto (Gnl), a oggi, è l’unica fonte disponibile in tempi rapidi (ma a prezzi molto più alti) per liberarsi dalla dipendenza verso Mosca. Così, l’import di Gnl è cresciuto del 28% su base annua da gennaio a fine aprile mentre il consumo di gas in Europa è diminuito del 6%.

E da noi? Si suppone che, data l’esposizione naturale dell’Italia, ci sia una rincorsa alle rinnovabili. Invece, per quel che si sa, Snam è alla ricerca dell’acquisto di due navi metaniere nuove, una delle quali per metanizzare la Sardegna!

Intanto, la Commissione europea ha pubblicato martedì 3 maggio un rapporto che mostra progressi contrastanti nell’attuazione della direttiva sulla pianificazione dello spazio marittimo, che richiede a 22 Stati membri costieri di produrre piani dello spazio marittimo entro il 31 marzo 2022. Sebbene la maggior parte degli Stati membri costieri abbia ora un piano di questo tipo, secondo il rapporto otto paesi (Estonia, Spagna e Bulgaria, Croazia, Cipro, Grecia, Italia e Romania) non hanno compiuto progressi sufficienti. (V,https://aeur.eu/f/1go(LC)

E allora, mi domando, l’OK all’eolico galleggiante a Civitavecchia, in quale corridoio ministeriale si è perso?

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Contro gas e nucleare faremo una mobilitazione nazionale. L’alternativa ai fossili c’è

C’è da chiedersi perché, fin dall’inizio, Roberto Cingolani abbia proposto come cardini di riferimento della transizione energetica due fonti non rinnovabili: gas e nucleare. Le uniche fonti, a ben vedere, non ancora poste in “phase out”, ma tuttora resistenti ad ogni principio di precauzione, in attesa di un “cambiamento di tecnologia” che le riporti in un ambito di “sostenibilità”. Cosa impossibile in rapporto ai tempi di una crisi climatica in brusca accelerazione.

In fondo c’è piena assonanza tra l’insistenza del ministro ed il risultato che le lobby energetiche hanno per ora spuntato sulla tassonomia europea: una coincidenza che rivela il segno di una cultura tecnocratica ancora prevalente nell’economia di mercato, in cui la rigenerazione della natura e il cambiamento irreversibile del clima non trovano ancora il posto dovuto. In fondo, è assai significativo come venga contrapposta la progettazione di complessi manufatti (si pensi ai reattori atomici di qualsiasi generazione o agli impianti di sequestro della CO2 o, anche, semplicemente, agli enormi consumi di acqua, elemento vitale per eccellenza, per immettere vapore nelle turbine alimentate da combustione) alla convivenza con le forze e le fonti naturali, che governano l’equilibrio del nostro pianeta e che non vanno ad esaurimento accumulando scorie ed effetti disastrosi.

Chiedersi perché non ci sia uno sforzo prodigioso verso le rinnovabili da parte di un’industria manifatturiera tuttora capace di mobilitarsi eccezionalmente soltanto per le forniture di armi per le guerre che insanguinano il pianeta, corrisponde a capire la nuova forma sotto cui si presenta il negazionismo climatico.

Direi che siamo alla terza fase: dapprima si negava l’evidenza; poi, l’affidabilità delle conferme e degli studi scientifici internazionali – come quelli dell’IPCC – ha suggerito di abbandonare al loro destino i più poveri e indifesi, contando sull’esenzione delle nazioni con maggiori risorse tecnologiche e organizzative dai danni più irreparabili; ora, pur di non abbandonare un concetto consunto e in contrasto anche con la giustizia sociale come quello della crescita, si punta alle riserve finanziarie pubbliche e alla garanzia di profitto per quelle private, pur di salvare il tenore di vita di una frazione “recintata” della popolazione umana. Quella che può meglio adattarsi ad un accrescimento inarrestabile della temperatura – ovvero dell’energia interna – del pianeta. In attesa dello sviluppo alienante di un’ingegneria climatica che ripari i guasti, simulando gemelli digitali e virtuali della Terra, della sua atmosfera, del suo rapporto con l’Universo a cui rimane, al di là delle pretese umane, interconnessa e, proprio per questo, adatta alla vita. E tutto per il rigetto di un approccio interdisciplinare e risolutivo come quello dell’ecologia integrale, che richiede democrazia prima che tecnocrazia.

Dobbiamo preoccuparci se non si ascolta il “gemito della Terra”. Nemmeno nell’agenda politica esposta da Mattarella, si è parlato di clima, mentre negli stessi giorni il Ministero del Tesoro italiano (non della Transizione energetica!), inviava una nota alla Commissione Ue per chiedere criteri addirittura più permissivi sulle emissioni di metano nella “tassonomia verde” in esame a Bruxelles.

Sono già state raccolte oltre 161.000 firme contro gas e nucleare considerate fonti “rinnovabili” nel primo passaggio del percorso europeo sul finanziamento pubblico delle fonti energetiche, mentre si continua a restare all’oscuro di come venga cambiato il PNIEC per rimanere almeno entro i dettami fissati dal Next Generation UE.

In sostanza è come se ci preparassimo a due sfide di un unico “campionato”: 1) raggiungere in Italia almeno il 55% di riduzione di climalteranti entro il 2030, ma partendo decisamente da subito; 2) ottenere che la maggioranza degli eurodeputati respinga la qualifica “verde” ai nuovi impianti di metano e al nucleare. Apriamo una partita ragionando e progettando come se si fosse in phase out da tutti i fossili e dall’atomo, perché la soluzione c’è: nelle rinnovabili, in buona occupazione, nelle comunità energetiche, nell’elettrificazione, nel cambio dei modelli di produzione e consumo e in una predisposizione alla cura dell’intero mondo del lavoro, dello studio, della ricerca. Una prospettiva di futuro che ci potrebbe essere negata.

I conflitti territoriali già in corso, pur soffocati dal silenzio dei media, possono e devono necessariamente riferirsi al quadro globale del “campionato” – così definito per voluta allusione ad inizio paragrafo – per portare avanti, su basi di “partite” fatte di concretezza, obiettivi di validità generale. Le mobilitazioni locali, l’informazione, le proposte alternative necessarie, l’impegno del mondo studentesco e di quello del lavoro devono inevitabilmente intervenire sulla riscrittura del PNIEC e sull’impostazione della tassonomia europea.

Molte associazioni si stanno preparando ad una mobilitazione su gas e nucleare per sabato 12 febbraio. Intanto, cinque ex primi ministri del Giappone si sono pronunciati contro l’atomo ed è stato annunciato da FFF lo sciopero mondiale degli studenti. Purtroppo piovono anche notizie tutt’altro che rassicuranti: Sogin rimanda ad un futuro indefinito la scelta del sito nazionale per le scorie radioattive, mentre i programmi scolastici che si dovrebbero inserire in una riforma epocale dell’organizzazione degli studi (licei quadriennali a vocazione ecologica e digitale) vengono affidati, con il compiacimento del Ministero per l’Educazione, ad Elis un consorzio privato di 100 grandi imprese.

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Tassonomia verde, contro gas e nucleare si mobilita anche la società civile europea

Grande consenso – i sottoscrittori sono attualmente 146.922 e aumentano di minuto in minuto – sta riscuotendo la petizione contro la proposta della Commissione Europea, che ne discuterà nei prossimi giorni, di inserire nucleare e gas fossile nell’elenco europeo delle energie verdi: il che in sostanza significa usare i soldi del Next Generation Eu (in Italia Pnrr) per queste fonti pericolose e inquinanti.

Andrebbe peraltro ricordato dai nostri rappresentanti in Europa e dallo stesso Governo italiano che il nucleare è già stato bocciato in Italia da ben due referendum popolari (1987 e 2011) mentre l’Europa deve sviluppare fonti di energia veramente rinnovabili come eolico, fotovoltaico, geotermico, idraulico. Nucleare e gas fossile non lo sono.

L’inaccettabile posizione della Commissione Europea in particolare per il nucleare è un cedimento alle pressioni della lobby nuclearista, che ha nella Francia la capofila. La Francia ha infatti bisogno di una quantità spropositata di miliardi di euro (si parla di 400) per mettere in sicurezza le vecchie centrali e per costruirne di nuove, nonché per completare i costosissimi depositi per le scorie radioattive. Ma i costi proibitivi del nucleare civile vengono nascosti e scaricati sulle finanze pubbliche. Per questo la Francia insiste per scaricare i costi del suo nucleare su tutta l’Europa e altri paesi sperano di fare altrettanto. L’Italia pensa forse di accodarsi per gli interessi che intende mantenere e procrastinare nel settore del metano a danno delle rinnovabili?

Contro questa proposta della Commissione si sta mobilitando la società civile europea e proprio in data 19 gennaio i presidenti della commissione per i problemi economici e monetari (Econ) del Parlamento europeo, Irene Tinagli (S&D, Italia) e la commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare (Envi), Pascal Canfin (Renew Europe, Francia), hanno espresso preoccupazione per la procedura seguita dall’istituzione in merito al progetto di atto delegato complementare sulla tassonomia dell’Unione europea.

Intervenendo a nome della “maggioranza dei coordinatori Econ ed Envi, Tinagli e Canfin hanno deplorato la mancanza di consultazione sulla bozza di testo e la mancanza di una valutazione d’impatto. Hanno quindi chiesto alla Commissione di avviare una consultazione pubblica, come è stato fatto per il primo atto delegato sulla tassonomia e di concedere “tempo sufficiente per le reazioni delle parti interessate”.

La classificazione Ue delle attività economiche che possono essere considerate sostenibili a lungo termine dal punto di vista ambientale, in sostanza la cosiddetta tassonomia “verde”, dovrebbe rappresentare uno strumento discriminante, il più possibile mirato e costrittivo ai fini di una rapidissima riconversione verso il 55% di riduzione di emissioni climalteranti. La nuova proposta della Commissione europea, al contrario, altera sostanzialmente l’uso futuro e l’impatto del quadro tassonomico della Ue.

Inserire tout court gas e nucleare alla stessa stregua delle rinnovabili per ricevere finanziamenti significa offrire uno strumento che vincola la trasformazione dell’economia, ponendo queste fonti nelle stesse condizioni di quelle pulite e ostacolando il cambiamento. È come fornire incautamente a interessati e malevoli lobbisti una bacchetta magica senza libretto di istruzioni.

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Nucleare: se la Terra piange, le borse e i governi interessati se la ridono

Riprendo i temi del post precedente introducendo un’ulteriore considerazione. Raramente ci rendiamo conto che ogni particella di materia ed energia – che ha a che fare con gli oggetti con cui ci circondiamo, le guance che accarezziamo, gli alberi che vediamo crescere, l’acqua che facciamo bollire – in qualunque forma si presentino, provengono da una unica storia di onde e particelle che, da un certo punto e momento in poi, si sono separate, ricomposte e organizzate o in ammassi e corpi inerti e caotici nell’Universo o, dopo miliardi di anni, successivamente in tempi più recenti, si sono ordinati in organismi dotati di auto-organizzazione e di vita, in grado di riprodursi, di nascere e morire, assumendo energia dall’ambiente esterno.

Energia purché compatibile con una crescita di ordine interno, con la specializzazione di proprie funzioni, con l’adattamento e l’evoluzione delle specie, fino alla formazione di istinto, memoria e autocoscienza. Non tutti gli ordini di energia sono predisposti al compito di alimentare una vita così concepita: ad esempio la combustione non lo è, sia per la distruzione immediata dei legami chimici nei tessuti, che per le emissioni in atmosfera che, alla lunga, possono mutare l’energia dell’ambiente vitale e il clima del nostro pianeta.

Dopo le considerazioni fin qui esposte – comprese quelle del post precedente – veniamo ora al significato della apertura Ue alla “tassonomia verde di metano e nucleare” contro cui si stanno sollevando avversioni e forti critiche non solo dal mondo ambientalista. Per quanto riguarda il metano verde (?!) si danno spesso solo dati vaghi: a parità di flusso termico, esso produce una quantità di anidride carbonica pari al 48% del carbone: ma, come avverte l’ultimo rapporto dell’Ipcc, la maggior preoccupazione viene dalle perdite dirette di CH4 nelle fasi di estrazione, lungo i gasdotti e nelle centrali, con effetti di 80 volte superiori a quello della CO2 nei primi vent’anni dopo le fughe in atmosfera. Si tratta di un dato sconcertante, che non era stato in precedenza preso abbastanza in considerazione e che ora allarma le stesse agenzie energetiche internazionali, che hanno fatto pressioni sulle banche per scoraggiare nuovi interventi sull’intera filiera del gas naturale.

Ma, se la Terra piange, le borse e i governi interessati se la ridono e, dopo una forte resistenza sull’applicazione del carbon pricing e una continua polemica sui sussidi alle rinnovabili, è scattata una resa dei conti internazionale per salvare l’economia del gas naturale. La Russia si sta attrezzando per mandare più gas alla Cina limitando le quote per fornire a sufficienza l’Europa e facendo lievitare i prezzi. In compenso, data la competizione in corso per il mercato Ue, gli americani stanno cercando di contrastare i produttori russi e di inviare navi metaniere dall’Atlantico. Ma, poiché il gas dagli Usa costa molto più caro per via del trasporto via mare, bisognerebbe convincere gli Europei a investire in una massiccia infrastruttura di impianti di rigassificazione ai porti e ad accettare di consumare shale gas, meno caro ma con disastrosi impatti ambientali.

Le pressioni, cui si sommano anche quelle da Egitto e Turchia, spingono i governi europei ad aprirsi a un’operazione di sostegno con danari pubblici alla struttura metaniera: un’operazione scandalosa sotto il profilo ambientale, occupazionale, geopolitico e finanziario, che allontanerebbe la soluzione delle rinnovabili a portata di mano. Lo stesso movimento operaio continentale deve prendere una posizione chiara e scartare soluzioni settoriali di ispirazione corporativa, come avvenuto nel caso dei sindacati elettrici nazionali.

Per la prospettiva di un ritorno al nucleare, le motivazioni contrarie non sono solo dovute al vincolo insormontabile di ben due referendum, ma al contrasto invalicabile di tutte le argomentazioni esposte sul rapporto vita-energia. Già in premessa il documento Ue di “apertura” all’atomo nega la sua praticabilità: “Ogni progetto deve prevedere un piano per stoccare in sicurezza i rifiuti radioattivi, piano che deve comprendere il sito di stoccaggio e i fondi necessari”. Un autentico ossimoro ormai convalidato in tutto il mondo. Lo stesso ministro Cingolani, che ha più volte espresso una sua condiscendenza per il ritorno all’atomo, in audizione alle Commissioni riunite afferma che “non si può fare, non ci sono né i reattori modulari né quelli a fusione e io non mi rifarei a una prima e seconda generazione”.

Esaminiamo allora i fatti: per i reattori oggi in funzione (anche l’ultimissimo arrivato in Finlandia, di cosiddetta “terza generazione”) è nota la presenza di isotopi radioattivi nelle scorie nucleari, derivate dalla fissione dell’uranio nel reattore, che emettono calore e possono restare pericolosi per migliaia di anni. Meno noto è che nel caso di fusione del reattore, le stesse reazioni possono continuare nonostante la distruzione dell’impianto, come è avvenuto e sta avvenendo ancor oggi a Chernobyl, nonostante “il sarcofago” di tonnellate di cemento sabbia e boro nel tentativo di neutralizzare la miscela di uranio, acciaio, cemento e grafite, fusa dal calore e infiltratasi nel terreno sottostante.

Per Fukushima, le cose non stanno meglio. La catastrofe è nota: i tre noccioli del reattore si fusero, liberando gas di idrogeno e rilasciando nell’ambiente grandi quantità di materiale radioattivo. I valori di radioattività ancor oggi rilevati sarebbero così alti che se un lavoratore lavorasse lì per otto ore al giorno durante un intero anno, potrebbe ricevere una dose equivalente a più di cento radiografie del torace. Ci sarebbero enormi accumuli di materiale radioattivo, in particolare il cesio, intrappolati nelle sabbie e nelle acque sotterranee fino a 96 chilometri circa di distanza dalle coste giapponesi.

Si dice però che si potrebbe puntare alla fusione nucleare, che richiederebbe una temperatura dell’ordine di un miliardo di gradi dopo una compressione del plasma di idrogeno da parte di un sistema di Laser di potenza. L’edificio di contenimento non sarebbe inferiore a 8 mila metri cubi e i tempi di realizzazione imprevedibili. D’altronde c’è chi sogna piccoli reattori modulari a fissione dell’ordine di 300-400 MW, ma l’implementazione di nuovi progetti è troppo lontana per avere un impatto climatico tempestivo o benefico. Il problema delle scorie, infine, sarebbe ancora più preoccupante, vista la notevole disseminazione di impianti sull’intero territorio.

Dopo 60 anni, l’industria dell’energia nucleare rimane fortemente dipendente dai sussidi, affronta sfide costose e irrisolte di smaltimento dei rifiuti e lascia una lunga scia di responsabilità ambientali in corso. Nel frattempo, le alternative come l’energia eolica e solare, i guadagni di efficienza e lo stoccaggio delle batterie sono ora più economiche della generazione nucleare. Ma, soprattutto, più vicine a un’idea di sostenibilità che la pandemia e la crisi climatica ci suggeriscono di affrontare da specie vivente, non da incessanti creatori di superflui manufatti.

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