La rivoluzione delle rinnovabili non si ferma con una modifica della Costituzione

di Giovanni Carrosio

Molto è già stato scritto sulla Strategia Energetica Nazionale. Si vedano l’intervento di Agostinelli su Pubblico e l’editoriale di Silvestrini sul numero di settembre/ottobre della rivista Qualenergia, che mettono in luce le criticità di una strategia improntata principalmente sul gas e sull’intensificazione di estrazioni petrolifere nel nostro paese. Condividendo nel merito gli interventi citati, preme fare qualche considerazione sulla parte del documento che intende intervenire sugli aspetti di governance, nel quale si paventa una modifica della Costituzione per ri-centralizzare la programmazione energetica nelle mani dei ministeri competenti, al fine di ridurre il potere delle autonomie locali sia nelle fasi di programmazione, che di intervento nelle procedure di valutazione ambientale delle infrastrutture energetiche.

La “modernizzazione del sistema di governance” prevede una serie di interventi importanti: la modifica del titolo V della Costituzione; l’adozione di procedure di coinvolgimento degli enti locali; l’introduzione di procedure autorizzative semplificate per le infrastrutture energetiche strategiche e l’accorciamento degli iter autorizzativi in generale.

Intanto un dato politico che denota una involuzione della capacità della classe dirigente di intervenire in termini di programmazione con una visione di lungo periodo: dopo anni di retorica sull’integrazione europea, sull’Europa delle regioni e delle autonomie locali, con la modifica dell’articolo V della Costituzione si ritorna all’interesse Nazionale, che deve prevalere sui sistemi territoriali locali e sulle dinamiche transfrontaliere. In secondo luogo, nel documento si afferma come sulla modifica della Costituzione vi sia un largo e trasversale consenso in parlamento. Sarebbe bene capire che cosa ne pensano le forze politiche e a questo punto che il dibattito sulla SEN entri con forza nelle primarie di entrambi gli schieramenti.

 

Bisogna cogliere la filosofia generale della revisione dei meccanismi di regolazione  e dei livelli di governo del comparto energetico: la strategia energetica nazionale individua nell’accentramento il sistema di governance migliore per depotenziare la diffusione delle rinnovabili e salvaguardare il tradizionale oligopolio legato alle fonti convenzionali. Ai territori non spetta più la facoltà di programmare, ma soltanto un potere consultivo, perché il piano Passera ha sostanzialmente due obiettivi: combattere il decentramento energetico in atto, che vede interi territori diventare energeticamente autonomi e sovrani grazie alla straordinaria diffusione delle rinnovabili, ed evitare che le autonomie locali intralcino lo sviluppo delle grandi infrastrutture energetiche. Si prevede un passaggio da una governance prevalentemente orizzontale ad un sistema di governo gerarchico, dove il centro decide e le periferie si adeguano.

 

Il ruolo dei territori diverrebbe così marginale: essi andrebbero coinvolti soltanto al fine di ratificare le scelte prese ai piani alti dei ministeri, attraverso strumenti capaci di prevenire proteste a priori dovute ad una “cattiva informazione”. Si cita persino uno strumento partecipativo, il “dibattito pubblico informativo” (ben diverso dal dibattito pubblico alla francese), come marchingegno di governo funzionale a favorire l’inserimento delle grandi infrastrutture energetiche (metanodotti, rigassificatori, trivelle, impianti di raffinazione) nel territorio. Dopo anni di studi sui fenomeni partecipativi e sui movimenti territoriali, francamente stupisce una visione così grezza della partecipazione, banalizzata nell’adozione di strumenti di coinvolgimento volti a superare “la mancanza di informazioni affidabili e concrete”.  Come se i movimenti di protesta fossero mossi da ignoranza e non da approfondita conoscenza. Come se bastasse indottrinare, e non coinvolgere realmente nella formazione delle politiche.

 

Del resto la filosofia che emerge dalla lettura del documento è questa: il centro progetta grandi infrastrutture energetiche, individua i territori destinati ad ospitarle, tenta di inserirli sui territori in modo consensuale, illustrando i benefici per le popolazioni locali, e “in caso di mancata intesa della Regione, la decisione sia rimessa al Consiglio dei Ministri”.

 

Siamo di fronte ad una vera e propria offensiva, che vede le procedure autorizzative e le autonomie locali come intralci alla modernizzazione del paese. Francamente non si capisce se vi sia della cattiva fede o una mancata percezione dei fenomeni realmente in atto: calano i consumi di energia, diminuisce progressivamente l’intensità dei picchi di domanda, crescono le energie rinnovabili e decresce il ruolo strategico delle centrali convenzionali. Migliaia di piccole imprese e cittadini diventano produttori di energia, grazie alla installazione diffusa di piccoli dispositivi energetici. Si diffondono progetti di integrazione territoriale delle energie rinnovabili, con l’obiettivo di conquistare spazi di sovranità energetica. Nuove imprese investono in ricerca e sviluppo, creando lavoro e conquistando importanti quote di mercato anche all’estero. È certo che questa esplosione delle rinnovabili fa paura alle grandi lobby dell’energia, delle quali il ministro Passera si presenta come uno strenuo garante. Ma non sono proprio i riformisti di ogni colore ad averci ribadito in questi anni che i processi vanno accompagnati? E sull’energia cosa facciamo, tentiamo di congelare il corso della storia con una modifica delle Costituzione? Per fortuna la costruzione dell’alternativa energetica è un processo che è partito dal basso, che è radicato nei territori e si sta diffondendo a macchia di leopardo formando tanti presidi di democrazia reale – perché produrre energia sui territori significa accrescere la democrazia locale distribuendo il potere economico – che poco badano alle macchinazioni ministeriali.

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