L’assedio delle trivelle ai nostri mari e le complicità del ministro Zanonato

Giulio Meneghello – qualenergia.it
06 settembre 2013

 

Parole, parole, parole: un bluff che lascia i mari italiani ostaggio dei petrolieri. Se si vanno a guardare i fatti, si potrebbero tranquillamente definire così le dichiarazioni del ministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato sul decreto di riordino delle zone marine da poco firmato (allegato in basso).

In un comunicato uscito l’altro ieri, il ministro annunciava che con il nuovo decreto del 9 agosto si determina un “quasi dimezzamento delle aree complessivamente aperte alle attività offshore, che passano da 255 a 139mila chilometri quadrati, spostando le nuove attività verso aree lontane dalle coste e comunque già interessate da ricerche di Paesi confinanti, nel rispetto dei vincoli ambientali e di sicurezza italiani ed europei”. In particolare, il decreto, spiegano dal MiSE, determina la chiusura a nuove attività delle aree tirreniche e di quelle entro le 12 miglia da tutte le coste e dalle aree marine protette, con la contestuale residua apertura di un’area marina nel mare delle Baleari, contigua ad aree di ricerca spagnole e francesi.

Finalmente, dunque, un provvedimento che difende i nostri mari e, come recita la nota ministeriale, “coniuga sviluppo e ambiente”? Niente affatto: “Zanonato fa il furbo etace sulla riapertura per le trivellazioni che, comprese tra le 5 miglia e le 12, erano state vietate da Prestigiacomo e che furono riammesse da Passera. Lui parla solo del futuro, che non era in discussione”, commenta Francesco Ferrante, vicepresidente del Kyoto Club.

Per capire occorre fare un passo indietro. Nel 2010, all’indomani del disastro del Golfo del Messico, seguito all’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon della BP, l’allora ministro dell’Ambiente Stafania Prestigiacomo, con il “correttivo ambientale” (decreto legislativo n.128 del 29 giugno 2010) aveva innalzato da 5 a 12 miglia marine(19 km) il limite entro il quale autorizzare prospezioni e ricerca di idrocarburi in prossimità di aree protette marine.
Uno sgarro ai petrolieri cui però si è prontamente rimediato: nel 2012 l’allora ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera con il cosiddetto decreto “Crescita” (Legge 22 giugno 2012, n. 83 convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, all’articolo 35) se da una parte ha confermato il limite delle 12 miglia, in quell’occasione esteso anche a tutte le coste, dall’altra ha condonato di fatto le richieste già in atto, specificando che dalle restrizioni sono fatti salvi i procedimenti concessori che erano in corso alla data di entrata in vigore del cosiddetto ‘correttivo ambientale’ del 2010.

Un condono che non viene minimamente scalfito dal nuovo decreto emanato da Zanonato il 9 agosto. Unica restrizione che il nuovo provvedimento aggiunge è la chiusura a nuove attività delle aree tirreniche. “Peccato che nessuno abbia mai pensato di andare a trivellare lì dato che di petrolio non ce n’è. Sarebbe come vietare di attingere acqua dal Sahara”, sottolinea ironico Ferrante.

“Le aree alle quali il decreto limita le ricerche sono quelle con maggiori prospettive, quelle che elimina sono invece quasi sempre state fuori dalle mire petrolifere”, gli fa eco Pietro Dommarco, autore del libro “Trivelle d’Italia”.

Risultato? Con il dimezzamento delle aree complessivamente aperte alle attività offshore e la conferma del limite delle 12 miglia sbandierate da Zanonato non cambia assolutamente nulla: i nostri mari continuano a essere assediati da chi li vorrebbe trivellare. Per rendersene conto basta confrontare la mappa con cui il ministero mostra le aree cui il nuovo decreto limita prospezioni e trivellazioni (a destra) con quella tratta dal dossier di Legambiente “Per un pugno di taniche”, nella quale si individuano le aree per le quali i petrolieri hanno manifestato interesse.

Al momento, mostra il dossier, ci sono 7 richieste per la coltivazione di nuovi giacimenti per un totale di 732 kmq individuati (ovvero dove le ricerche sono andate a buon fine), che andrebbero a sommarsi ai 1.786 kmq su cui già insistono le piattaforme attive; ci sono 14 i permessi di ricerca attivi per un totale di 6.371 kmq. Infine ci sono 32 richieste non ancora autorizzate per un totale di 15.574 kmq: in totale l’area di mare in cui si trivella o si vorrrebbe trivellare è di 24mila kmq, grande come la Sardegna. E’ in atto un vero assalto al mare italiano, in particolare all’Adriatico centro meridionale, allo Jonio e al Canale di Sicilia dove, oltre a quelle già attive, potrebbero presto sorgere decine di altre piattaforme. E il nuovo decreto emanato da Zanonato non farà nulla per fermarlo.

Tutto ciò come ricordano gli autori del dossier Legambiente “nonostante i numeri dimostrino l’assoluta insensatezza di continuare a puntare sul petrolio: il mare italiano, secondo le ultime stime del ministero dello Sviluppo economico, conserva come riserve certe, circa 10 milioni di tonnellate di greggio che, stando ai consumi attualidurerebbero in teoria per appena due mesi.

Così, alla trasformazione energetica che negli ultimi dieci anni ha portato ad una quasi completa uscita del petrolio dal settore elettrico, si risponde con un attacco senza precedenti alle risorse paesaggistiche e marine italiane, che favorirebbe soltanto l’interesse di pochi e sempre degli stessi: le compagnie petrolifere. Le realtà locali restano succubi di queste scelte scellerate: Regioni, Province e Comuni sono, infatti, ormai tagliate fuori dal tavolo decisionale. Il futuro, la bellezza, l’economia del nostro Paese viene svenduto ‘per un pugno di taniche’”.

Il decreto ministeriale del 9 agosto 2013

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