Nell’economia delle miniere non è tutto oro quel che luccica

di Daniela Patrucco

Le popolazioni amazzoniche indigene proteggono e conservano le foreste. Il forte legame tra un popolo indigeno e il suo territorio e il rispetto fondamentale che le comunità indigene hanno verso gli ecosistemi da cui dipendono sono fattori chiave per mantenere la ricchezza ecologica delle terre indigene. L’America Latina è la più grande riserva di minerali metallici in tutto il mondo. I più ambiti sono oro e argento ma tantissime sono le risorse del sottosuolo la cui estrazione mette a repentaglio enormi aree, che garantiscono la sopravvivenza stessa del Pianeta. La resistenza delle popolazioni locali e indigene alle violazioni ambientali è causa della delocalizzazione forzosa di intere comunità, di violenze di ogni genere nei confronti dei giovani e delle donne, di crimini e persecuzioni ai danni degli attori sociali. Nonostante tutto, c’è una resistenza determinata e vitale, nonviolenta, creativa e propositiva, che si alimenta di sempre nuove energie. Una resistenza che riflette sull’inopportunità di depredare e svendere le risorse naturali del sottosuolo e si chiede cosa succederà quando queste risorse saranno esaurite?

 

COP20 di Lima: un fondo territoriale indigeno per il clima

 
Dove ci sono territori indigeni si ha 7 volte meno deforestazione (0,2%) che nelle aree protette (1,4%). I popoli indigeni dei nove paesi amazzonici proteggono 210 milioni di ettari di foreste che forniscono una serie di servizi per l’umanità. Il WWF ha dichiarato che l’80% delle più ricche “ecoregioni” del mondo è abitato da comunità indigene. La tutela della grande quantità di carbonio delle foreste in territori indigeni e aree protette – che è il 55% del carbonio di tutta regione amazzonica – è cruciale per la stabilità del clima globale, per l’identità culturale degli abitanti della foresta e per la salute degli ecosistemi in cui essi vivono.
Le foreste affidate ai popoli indigeni catturano ogni anno 26.250 milioni di tonnellate di carbonio e 96, 075 mila tonnellate di CO2. Questi numeri equivalgono a tutte le emissioni di CO2 a livello mondiale del 2010, 2011 e 2012 sommati tra loro.

 

Nel quadro della COP20 di Lima le popolazioni indigene  – organizzate in una rete di 5.000 comunità  – hanno chiesto di essere titolari di 20 milioni di ettari in Amazzonia e 400 milioni nel resto del mondo. Per la prima volta nella storia le organizzazioni indigene e comunitarie dell’Africa, Asia e America Latina – territori che rappresentano l’85% delle foreste tropicali del mondo – si sono unite per richiedere la creazione di un fondo territoriale indigeno per il clima. L’obiettivo è il rafforzamento dei diritti dei popoli indigeni e il loro sostegno nella protezione delle foreste tropicali nel mondo, prima che deforestazione e degrado avanzino ulteriormente.

 

Il prezzo pagato dalle comunità e dai popoli indigeni dell’America latina: le miniere

 

Nello stato di Minas Gerais (Brasile) c’è una piccola comunità, Bean Creek, recentemente minacciata da una nuova società mineraria, la “Green Metals” che vuole installarsi sul suo territorio. La semplicità della vita quotidiana di questa comunità (i fagioli, le radici e la cultura popolare) è minacciata dall’ignoto – estraneo e incomprensibile – che arriva senza permesso e senza che alcuno sia stato consultato, spesso per conto di grandi aziende come la Vale SA, una multinazionale che domina tutta la regione.  E’ soltanto un esempio microscopico di ciò che sta accadendo in tutta l’America Latina e nel resto del mondo.

 

L’America Latina è la più grande riserva di minerali metallici in tutto il mondo – i più ambiti sono oro e argento – e poiché circa il 90% delle miniere sono a cielo aperto, la loro estrazione causa la contaminazione delle acque di superficie e sotterranee, nonché del suolo e dell’aria. Il caso dell’oro è paradossale: “solo il 10% di quello estratto viene utilizzato nella tecnologia, mentre il 40% diventa gioielleria e il rimanente 50% investimento finanziario. Esce dal sottosuolo dei territori e degli ecosistemi vivi per andare a finire nel sottosuolo dei territori finanziari: le banche” (Sursiendo http://sursiendo.com/blog/2014/01/repensar-el-uso-de-metales-frente-al-modelo-extractivista/).
L’ossessione del mondo per i minerali è in crescita. Ciò è dovuto principalmente all’avanzare di una nuova classe media globale, principalmente in Asia, che si ispira ai modelli di consumo dei paesi industrializzati. Si prevede che in 20 anni i soli BRIICS (Brasile, Russia, India, Indonesia, Cina e Sud Africa) raddoppieranno il loro prelievo complessivo di minerali metalliferi (2,2 miliardi di tonnellate nel 2002- 4,4 nel 2020). Se questa resterà la velocità di estrazione, le riserve mondiali di minerale di ferro saranno esaurite in 41 anni, in 48 quelle di alluminio, rispettivamente in 18 e 16 rame e zinco. Il meccanismo è perverso perché la crescita della domanda mondiale, la riduzione delle migliori riserve di minerali e la possibile scarsità di alcuni minerali a medio termine determinano un generale aumento dei prezzi. Ciò causerà probabilmente una rapida espansione delle miniere esistenti e l’intensificazione della ricerca di nuovi giacimenti. Dopo la colonizzazione e il saccheggio delle miniere e altri beni comuni per arricchire le casse delle metropoli nazionali, ancora una volta il Brasile accoglie il modello di esportazione delle commodities come una soluzione pronta per la generazione di facile rendita.

 

Una realtà perversa, anche nei paesi in cui l’intensificazione dell’estrazione di minerali e idrocarburi è giustificata con gli investimenti da parte dello Stato in programmi contro le povertà sociali. Il modello economico estrattivo si basa su profonde ingiustizie ambientali: “società diseguali dal punto di vista economico e sociale caricano il maggior peso del danno ambientale dovuto allo sviluppo alle popolazioni a basso reddito, gruppi razziali discriminati, comunità etniche, tradizionali quartieri della classe operaia, emarginati e popolazioni vulnerabili” (Acselrad H. et al., “O que é injustiça ambiental”, Garamond, 2008)“. Secondo la teoria dell’”ecologismo dei poveri”, la maggior parte degli attuali conflitti sociali in America Latina è causata dalle minacce e dagli impatti ecologici: i poveri cercano di mantenere il controllo delle risorse ambientali di cui hanno bisogno per vivere, con la minaccia che queste diventino proprietà dello Stato o proprietà privata capitalista.
La reazione a catena dei numerosi singoli progetti. L’impatto dell’industria mineraria non si limita alle zone immediatamente circostanti le miniere. Nella maggior parte dei casi l’impatto locale è solo uno degli esiti di un modello economico che ha forti influenze sulle decisioni politiche degli stati, e che pertanto incide sugli equilibri e i destini di intere società. Inoltre, tutti i grandi progetti minerari hanno bisogno di una solida infrastruttura di supporto per la generazione e la fornitura di energia, per l’accumulo della grande quantità di acqua necessaria, per trasportare il minerale attraverso condutture, strade, ferrovie e porti.
In Brasile, ad esempio, il treno più lungo del mondo ha 330 vetture che si snodano lungo 900 km di ferrovia: si tratta di una concessione a favore della Vale SA per esportare il minerale di ferro amazzonico del Carajás in Cina, Giappone ed Europa. Una ferrovia delle stesse dimensioni è stata costruita dalla stessa azienda tra il Mozambico e il Malawi per il trasporto del carbone.

In Perù, il tanto contestato gasdotto di Camisea è principalmente destinato ad alimentare i grandi progetti minerari nel sud del Brasile. Sempre in Perù, mano nella mano con il famigerato progetto minerario “Conga”, che ha mobilitato migliaia di persone in manifestazioni sorprendenti (http://www.yanacocha.com.pe/proyecto-conga/) cammina anche il progetto idroelettrico Chadin (http://minacorrupta.wordpress.com/tag/chadin-2/), della società di costruzioni brasiliana Odebrecht, con un’enorme diga che ostacola il rio Marañón, uno dei più grandi affluenti del Rio delle Amazzoni. Sono molte e diverse le persone e le comunità che si ritengono colpite dall’estrazione mineraria, con diverse conseguenze. Alcune tra le principali offrono qualche spunto di riflessione.
Gli impatti ambientali più evidenti delle attività estrattive sono la deforestazione (Carajás, Brasile), le enormi quantità di rifiuti residui (Lake Sandy Pond in Canada, che scomparirà a causa del materiale di scarto in esso smaltito), l’inquinamento prodotto dalle industrie che compongono la catena estrattiva (La Oroya – Perù, Piquiá de Baixo e Santa Cruz, Brasile) e l’enorme consumo di acqua (le grandi miniere del Cile possono consumare 13 metri cubi di acqua al secondo, corrispondente al consumo di acqua medio per secondo di oltre 6 milioni di persone). Il progetto minerario Pascua Lama (Cile-Argentina) dimostra quanto sia impattante l’estrazione dell’oro: per ottenere un grammo d’oro è necessario rimuovere 4 tonnellate di roccia, consumando 380 litri di acqua, 1 kg di esplosivo e quasi la stessa quantità di cianuro. L’energia richiesta per separare 1 g di oro può essere paragonata a quella consumata mediamente in una settimana da una famiglia argentina. Il fenomeno di drenaggio acido, per la presenza della pirite che degenera in acido solforico, influenza la falda dei territori dove avviene l’estrazione mineraria. Le conseguenze perdurano per migliaia di anni e sono particolarmente acute quando le miniere sono poste vicino alle sorgenti a causa della contaminazione delle acque dell’intero bacino.
Gli spostamenti forzosi delle popolazioni. Per fare spazio ai progetti minerari e alle infrastrutture connesse molto spesso famiglie o intere comunità sono espulse dai loro territori. Le comunità rurali e urbane sono reinsediate in condizioni e contesti in molti casi peggiori di quelli in cui sono vissuti. Per far posto alle miniere di carbone sono state reinsediate le comunità di Cateme e 25 de Setembro in Mozambico e El Hatillo, Piano Bonito e Boqueron in Colombia; la comunità di Piquiá de Baixo, in Brasile, è un raro caso in cui è la comunità stessa a chiedere il reinsediamento a causa delle disperate condizioni di inquinamento cui è condannata.

Sebbene la Convenzione n. 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro raccomandi di consultare e ottenere il consenso delle comunità indigene e tradizionali prima dell’avvio di qualsiasi tipo di attività produttiva nel loro territorio, nella maggior parte dei paesi il processo di consultazione è spesso inesistente, estremamente precario e volutamente inefficace. In questo modo le comunità indigene subiscono gli effetti della deforestazione, la fuga degli animali da cacciare, la perdita di controllo dei territori e la riduzione delle loro dimensioni. È il caso, ad esempio, del popolo Shuar in Ecuador o Awa-Guajá in Brasile.
La negazione del futuro e la violenza sui più giovani. L’industria mineraria stabilisce vere e proprie economie di enclave nei territori in cui decide di operare. Che significa che la maggior parte delle iniziative locali rientrano nel settore minerario, che diventa una prospettiva economica quasi esclusiva. Questo processo – che garantisce gli interessi di alcune minoranze influenti a livello economico e politico, nazionale e internazionale – molto raramente permette agli attori economici locali e alle comunità di pianificare e diversificare i propri investimenti, scegliendo attività alternative come l’agricoltura familiare o la micro-impresa in altri settori produttivi. Poiché le politiche di sviluppo regionale sono fondate sul diritto alla partecipazione da parte di chi abita il territorio, queste tendono a promuovere incentivi fiscali e finanziamenti per i progetti del settore minerario, boicottando altri punti di vista e prospettive. La mancanza di alternative gioca a favore delle miniere: genera manodopera a basso costo che si concentra, geograficamente ed economicamente, e si vincola permanentemente alla filiera estrattiva. Si tratta a volte di vere e proprie migrazioni verso il moderno “Eldorado”, che in contesti di povertà e con il fallimento del ruolo dello Stato inducono l’idea di sviluppo. Si tratta invece di un falso sviluppo, con una crescita incontrollata che provoca caos e violenza. Marabà e Parauapebas – le città dello Stato del Pará (Brasile) più vicine al Carajás, la più grande miniera di ferro del mondo –  sono tra le città più violente del Brasile: in queste città la probabilità di un giovane uomo di essere ucciso da un’arma da fuoco o da taglio, è del 25% superiore a quella dell’Iraq, un paese con uno dei più alti tassi di mortalità da conflitti armati.

La criminalizzazione degli attori sociali. Chi critica la grande industria mineraria è esposto a persecuzione giudiziaria, minacce, diffamazione, spionaggio, omicidio. La banca dati sui conflitti minerari in America Latina descrive in dettaglio 198 casi ancora aperti di conflitto nel continente, conflitto che interessa 297 comunità. L’attacco ai movimenti sociali e alle comunità è palese e a volte istituzionale. Nel 2010 l’allora presidente del Perù Alan Garcia definì “nemici dello sviluppo” gli ambientalisti e gli attivisti per i diritti delle popolazioni indigene: secondo il Presidente costoro erano affetti dalla sindrome Nimby. Non cambia molto tra i cosiddetti governi progressisti. Nel 2007 il presidente dell’Ecuador Rafael Correa, dichiarò “E’ finita l’anarchia. Tutti coloro che si oppongono ai progressi del paese sono terroristi. Chi farà manifestazioni con blocchi stradali sarà punito nella misura massima consentita dalla legge. Non sono le comunità che protestano, ma un piccolo gruppo di terroristi. Gli ambientalisti romantici e gli ecologisti infantili sono quelli che vogliono destabilizzare il governo”.
In molti casi, si crea strategicamente un falso dilemma tra l’interesse collettivo e la tutela dei diritti umani e della natura. Recentemente i coordinamenti dei movimenti sociali che in Brasile si oppongono ai grandi progetti minerari sono stati spiati con l’infiltrazione di agenti segreti delle forze pubbliche e private di sicurezza. Dallo spionaggio alla persecuzione fisica e alla violenza il passo è breve. Lo dimostrano alcuni dei peggiori massacri: il Bagua, in Perù nel 2009, con decine di indigeni dispersi e 28 poliziotti uccisi; il ponte ferroviario di Marabà, in Brasile nel 1987, con la morte di diversi minatori; l’Eldorado dos Carajás, in Brasile nel 1996, a opera della polizia militare brasiliana con il sostegno apparente della società Vale SA e la morte di 21 lavoratori rurali del MST.
La violenza contro le donne. Raramente percepita come violenza di genere, l’estrazione mineraria su larga scala ha una dimensione che riguarda intensamente la vita delle donne a causa degli impatti già descritti. La sottrazione della terra è una violenza soprattutto contro le donne, che in molti casi sono responsabili della salute e della sicurezza alimentare della casa.  Spesso hanno inoltre subito l’uccisione o il rapimento dei loro mariti e sono minacciate affinché vendano le loro terre alle compagnie minerarie. Nelle aree minerarie in cui si realizzano grandi progetti si sono intensificate le aggressioni fisiche ed è aumentato lo sfruttamento sessuale. Infine, i grandi progetti tendono (spesso deliberatamente) a smantellare il tessuto sociale delle comunità: si perde un ambiente di sicurezza e protezione, nonché la possibilità di partecipazione. Anche in questo caso, le principali vittime sono donne.

La Resistenza. Il conflitto racchiude anche vitalità, creatività, fermezza e fiducia nella lotta intrapresa e nelle alternative proposte dalle comunità. Diversi i referenti di quella che è una vera e propria forma di resistenza: all’Observatorio de Conflictos Mineros in America Latina (OCMAL), al Movimiento Mesoamericano contra el Modelo extractivo Minero (M4) e al Coordinamento Internazionale delle Vittime della Vale, sì è aggiunta più di recente Justica Nos Trilhos, la rete dei religiosi e dei legali in lotta contro l’estrazione mineraria del continente.

 

“In tutti questi spazi di resistenza – ci dicono Padre Dario Bossi e Danilo Chammas di Justica Nos Trilhos  – la questione non è se siamo a favore o contrari all’industria estrattiva. Il fatto è che in un tempo molto prossimo dovremo saper vivere senza miniere, perché le risorse saranno esaurite. Cosa fare nel frattempo? Aspettare quel giorno per risolvere il problema, o trasformare rapidamente e radicalmente il modello estrattivo del nostro continente?”

 

Tre le principali linee di azione della Rete:

– il rifiuto di un’economia basata sull’estrazione mineraria, attraverso proteste contro nuovi progetti di grandi dimensioni di miniere e infrastrutture collegate; il riconoscimento dell’illegittimità di alcuni progetti, con azioni legali e manifestazioni, e la richiesta di leggi che proibiscano l’attività mineraria, inquinante e incontrollata; campagne internazionali, come “L’acqua vale più dell’oro” che ha ricevuto anche il sostegno di Papa Francesco;

– la garanzia dei diritti individuali e collettivi dove ci sono già impianti consolidati, con appelli alle istituzioni per la mitigazione e la piena riparazione delle violazioni dei diritti umani, il rallentamento dell’espansione degli impianti e la ricerca di altre attività socio-economiche da combinare con l’attività mineraria;

– la promozione di diversi stili di vita e alternative economiche in vista della dismissione delle miniere, con dibattiti e azioni di lungo termine nelle regioni e nei paesi minerari.

 

Fonti e articoli originali:

– Nem tudo que reluz é ouro – Os impactos da mineração sobre os direitos humanos – Por Pe. Dário Bossi e Danilo Chammas (in portoghese, inviato dagli autori)

– Donde hay territorios indígenas hay 7 veces menos deforestación que en las áreas protegidas

http://www.cop20.pe/ck/donde-hay-territorios-indigenas-hay-7-veces-menos-deforestacion-que-en-las-areas-protegidas/

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