Oltre il referendum del 17 aprile

a cura di Mario Agostinelli

Siamo nel mezzo della crisi energetica più rilevante nella storia dell’umanità. Se per gioco volessimo rappresentare con una novantina di illustri individualità a nostra scelta – da Pitagora a Pericle a Cesare a Carlo Magno a Marco Polo a Napoleone a Einstein a Obama – le generazioni che succedendosi hanno “plasmato la memoria” su cui risiede la nostra civiltà occidentale (90 personalità x 25 anni a generazione =2250 anni di storia), quanti nuovi personaggi potremmo prevedere che possano salire d’ora in avanti su un palco siffatto? A detta del mondo scientifico più responsabile e accreditato non più di quattro o cinque, se si limiteranno a replicare il “business as usual” nelle politiche energetiche, sfasciando irrimediabilmente la ribalta in seguito agli effetti irreversibili di esse sul clima. Molti e molti di più, invece, se risulteranno dall’interpretazione di una svolta radicale rispetto all’odierno sistema fossile centralizzato e asseconderanno la cittadinanza globale nella consapevolezza della priorità delle ragioni della biosfera su quelle della geopolitica.

Occorre riconoscere che siamo in una fase nella quale le contraddizioni interne al sistema energetico dominante non possono più essere risolte ristrutturando il sistema tale e quale. Questa sarebbe la strada più facile da percorrere, ma pure la più irresponsabile, anche se parrebbe quella privilegiata da chi misura il futuro sulle scadenze elettorali (sono, verosimilmente, i casi recentissimi di Renzi con il boicottaggio del referendum, di Cameron con l’impegno a mantenere i 10.000 addetti britannici al carbone, dei premier di Polonia e Ungheria con le dichiarazioni di dar fondo senza alcun riguardo alle loro riserve di lignite).

Le soluzioni alternative che si fronteggiano e che hanno alle spalle culture di solide radici (quella ereditata dall’Illuminismo e dalla rivoluzione industriale e quella più recente definita “dell’ecologia integrale”) e non banali opportunismi, si caratterizzano per valutazioni che si situano in scale temporali e in un rapporto con la natura assai diversi.

C’è quella che si ostina a mantenere in vita il presente nella illusione che le previsioni sul cambiamento climatico non siano confermate e che il trascorrere del tempo venga sanato miracolosamente dal ritrovamento di soluzioni tecnologiche oggi non alle viste. Una ideologia dichiaratamente antropocentrica, prima che una proposta di rimedi provati, nata nella presunzione di risanare a valle la devastazione dei processi biologici e naturali compromessi per tempi incommensurabili dal ricorso a fonti di energia sempre più intense (il nucleare in primo luogo) e con effetti mascherati nell’immediato (il sequestro di CO2, la liberazione di metano per il petrolio nell’Artico, il confinamento delle scorie). In sintesi: crescita in economia e impiego di trasformazioni energetiche che prescindono dalla compatibilità con il sistema vivente.

C’è, dall’altra parte, l’opzione di trasformare su scala territoriale diffusa le fonti naturali, riducendo strutturalmente attraverso esse i tempi dell’intero ciclo di fornitura (trasporto e distribuzione in particolare), migliorandone costantemente l’efficienza, superandone gli svantaggi di intermittenza e compensazione con sistemi e reti digitali, considerandone l’eccezionale curva di apprendimento che ne abbassa continuamente i costi, rimarcandone la capacità di creare lavoro stabile anche in assenza di crescita e mettendo in rilievo infine la compatibilità dei processi che le utilizzano con l’estensione di un governo democratico dell’economia su base regionale e territoriale. Lo sfruttamento delle fonti rinnovabili – al contrario del percorso ipertecnologico per “rendere puliti” (?) i settori del fossile e del nucleare – si inserisce, agendo a monte, in una dimensione temporale in sincronia con la natura, i suoi cicli, la sua capacità di rigenerazione e si può sottoporre ad un esteso e efficace controllo sociale.

Se non ci si schiaccia sulla tattica politica del momento (e io non sono interessato a seguire il Presidente del Consiglio nella riduzione di temi di questo rilievo alle mene interne al PD) occorre essere già oggi fuori dalla difesa dell’esistente e non firmare con una mano a New York l’accordo Cop 21 e rilasciare con l’altra crediti alle corporation di gas e petrolio. Se, come indica l’intesa di Parigi, pur con le sue ambiguità e lacune, ci si vuole collocare dalla parte della seconda tra le opzioni descritte sopra, allora essa va praticata da subito in chiave sostitutiva ai fossili e andrebbe favorita e accelerata da processi di efficienza e riadeguamento su tutta la rete di distribuzione, accumulo e scambio, anziché osteggiata da misure tariffarie e incentivi alla rovescia. Quindi, i primi effetti sostitutivi vanno programmati laddove la questione ambientale è più drammaticamente urgente: le centrali a carbone e le trivelle in mare sono un esempio di questa priorità.

Questa sembra oggi, delle due alternative quella indiscutibilmente più in linea con la salvaguardia della vita sul pianeta ed è il quesito vero, di profilo storico, che è stato posto il 17 Aprile. Per cui quella data referendaria andrà inquadrata come segnale, ancorché insufficiente, in un processo che è in corso, anche se i media nostrani e il Governo non sanno dare ad esso rilievo, presi come sono dallo spostamento quotidiano da una notizia all’altra, schiacciati in un eterno presente da cui non si esce mai, visto che viene conculcata la partecipazione e non richiesta alcuna corresponsabilità. Ci troviamo in un percorso di transizione già in atto, certamente da istruire e completare, ma sul quale un segnale inequivocabile è stato dato: decarbonizzare e, contemporaneamente, assumere soluzioni sostitutive alternative, imprimendo al sistema un orientamento che con il tempo si farà dominante. Oggi il sistema oscilla ancora in modo disordinato, spinto da logiche contraddittorie. Comunque sia, il risultato delle pressioni dei movimenti sociali delle nuove eco-imprese e delle comunità locali si fa sempre più coerente e non è poco. trovarsi già, pur essere stati derubati del tempo sufficiente all’informazione e al confronto, con il 30% sul totale degli aventi diritto al voto che auspica e vorrebbe veder svilupparsi un sistema energetico differente.

Una delle curiosità – tra le altre – è che il referendum, secondo Swg, ha richiamato il 16 per cento di chi non vota più per principio alle politiche e un terzo di chi si dice indeciso su chi votare. Inoltre, tra coloro che hanno usato internet come fonte di informazione per capire di più della consultazione sulle trivelle, la quota che si è recata al voto è del 44% rispetto al 29% di chi si è informato solo ai TG. E’ evidente come si stia formando, fuori dagli equilibri politici e economici, un’opinione avversa alla strategicità del fossile, perseguita da Bersani a Monti a Passera e a De Vincenti secondo l’immagine inquietante dell’Italia “hub del gas” e avvalorata da una strategia energetica nazionale (SEN) mai portata all’approvazione del Parlamento.

E, questa volta, non c’è da accampare per i risulati del referendum la scusa della “complicità emotiva” (come per Fukushima e Chernobyl), tanto più che siamo a condizioni rovesciate, visto che del disastro del petrolio nel Polcevera l’opinione pubblica votante è stata tenuta accuratamente all’oscuro. Anzi,si è fatto forza sull’idea che 2000 posti di lavoro fossero la questione. In questi mesi 50.000 lavoratori delle aziende del gas ex municipalizzate verranno riassunti col Job Act e ripagandosi la pensione, grazie allo scarso interesse del Governo per il lavoro.

Era dal 2011 (referendum acqua, nucleare e legittimo impedimento), che la politica e soprattutto la narcotizzata società italiana non veniva investita dal dibattito su un tema fondante per il futuro del Paese. Chiedere ai cittadini di disertare le urne e non far maturare un dibattito dopo la Laudato sì e la Cop 21 è delittuoso e dà l’idea della fragilità di una politica che punta solo a ritardare processi per salvaguardare poteri non legittimati dalla risorsa del confronto continuo. Tra l’altro, occorrerà prestare attenzione ad un aspetto sottovalutato finora: non essendo state abrogate da un referendum, le altre norme sulle trivelle cancellate dal governo prima di andare al vaglio della Corte Costituzionale, possono essere ripresentate in qualsiasi momento all’interno di un Consiglio dei Ministri che non ha dato alcuna garanzia di lealtà sugli impegni presi. Non sarà semplice né facile riportare la politica su queste linee a sguardo lungo nel tempo.

Ho l’impressione che anche l’insistenza di molti commentatori a sinistra nel trovare connessioni tra l’esito referendario del 17 Aprile e le previsioni per quello autunnale sulle riforme istituzionali sia fuorviante, a meno che si inquadri la questione costituzionale come una priorità del futuro e non una reiterazione del passato, seppure glorioso. Il futuro della sinistra è quello di applicarsi alla sociologia delle emergenze, interpretando le tendenze che possono essere determinanti per affrontarle. Su questa base stanno intervenendo tendenze di riunificazione nell’area della sinistra e nelle componenti religiose: esse però vengono messe in difficoltà dallo spostamento al centro di forze che hanno ereditato l’organizzazione dei movimenti operai del dopoguerra e oggi giocano nel campo avverso. E’ il caso, sempre più netto del PD renziano in e questo schiacciamento sul presente e oscuramento del futuro è un danno enorme per la politica e per la conquista ad essa delle nuove generazioni. Il neoliberismo è un’immensa macchina di produzione di aspettative negative, in modo che le persone non possano conoscere i motivi reali della loro sofferenza, accontentandosi di quel poco ancora che hanno, paralizzati dalla paura di perdere. La riunificazione di sinistra e forze religiose serve ad attenuare la paura e a propiziare il ritorno di qualche speranza. (ed è quanto era accaduto a Milano con Pisapia ma, forse, non è stato da lui stesso abbastanza compreso). La speranza è un concetto aperto e attiguo alla partecipazione. Proprio perciò la tenuta e la chiarezza sulla questione costituzionale diventa determinante per il futuro, così come attuare un sistema elettorale più rappresentativo e più trasparente e rafforzare la democrazia partecipativa. Una democrazia finalizzata ad una interpretazione del mondo e della vita altamente condivisi e inverati nel patto sociale che non può che avanzare, altro che arretrare!

Concludo queste considerazioni sul quadro nazionale trasferendole nel contesto in cui la transizione energetica rimescola le carte della supremazia del neoliberismo sul piano globale. Dopo l’Enciclica papale (impossibile non considerarla per i suoi effetti vistosi in America e in Africa) e le conclusioni a Dicembre e le firme ad Aprile dell’accordo di Parigi, l’impermeabilità al forte messaggio di trasformazione è un lusso che in politica deve avere un costo. Italia, Inghilterra, Polonia e Ungheria guidano – e non da ora – il fronte della staticità del sistema fossile in Europa, addirittura con implicazioni sullo svolgimento della trattativa sul TTIP per la liberalizzazione del gas e del petrolio da scisto proveniente da America e Canada. Non è che le politiche di Obama, Merkel, Xi Jinping siano esenti da contraddizioni: pensiamo alle problematiche ambientali statunitensi del fracking, all’uso della lignite tedesca, all’inquinamento delle città cinesi. Ma quelli sono leaders che danno l’impressione di avere una visione che li ha portati ad avviare una profonda trasformazione dei sistemi energetici. Le primarie negli Usa vedono il climate change, la costruzione di oleodotti, i vincoli sulle emissioni dei veicoli come discriminante tra democratici e repubblicani. E la piena occupazione dei giovani e il minimo salariale sotenute come priorità da Bernie Sanders vengono osteggiati esplicitamente e con durezza dalle corporation del petrolio e del gas e dai grandi consumatori di fossili come la Walmart con i suoi 4000 centri commerciali e oltre 7500 TIR. In ogni caso gli investimenti mondiali sulle rinnovabili nel 2015 sono stati del 60% più elevati della somma di quelli delle nuove centrali elettriche a carbone, a gas e nucleari: c’è quindi una politica industriale e una riconversione ecologica delle produzioni con dinamiche occupazionali assai interessanti che sono in attesa.

Va tenuto aperto il dibattito pubblico sul tema del modello di sviluppo che l’Italia vuole perseguire alla luce degli accordi sulla riduzione dei gas climalteranti, mettendo in luce al contempo l’incompatibilità della compromissione della politica con gli interessi economici delle multinazionali del petrolio e i poteri forti.  Altro che ridurre tutto alle dinamiche interne al PD!  Sono assai ridotti i sostenitori di un’economia fossile in grado di presentarsi ai cittadini con trend economici positivi e capacità di rispondere alle esigenze di abbattimento dei costi ambientali. Perciò i15 milioni di cittadini alle urne dimostrano quanto sia necessario creare continuità tra linguaggi delle piazze e strumenti di partecipazione di massa. Se guardiamo al referendum come ad un passaggio intermedio di una battaglia di lungo periodo e connessa a tematiche che vanno ben oltre il tema dell’estrazione di idrocarburi offshore, la prospettiva è tutt’altro che a tinte fosche, e possiamo considerare questo come l’inizio di un ancora lungo lavoro di articolazione sociale che persegue un modello produttivo e di consumo frutto di una forte richiesta di partecipazione. Se ci muoviamo progressivamente in questa direzione, anche in occasione e in preparazione delle prossime scadenze elettorali, eviteremo di entrare nel gioco condotto da Renzi di riservarsi il prossimo gradino da cui rendere più agevole il balzo verso quella che Boaventura Sousa De Santos chiama “democrazia ad intensità molto bassa”.

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