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Cop21: attenti al gioco delle tre carte

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Occorre non cadere ancora una volta nella trappola mediatica e concettuale di tutte le conferenze mondiali sul clima fin qui svolte. Anche perché al numero 21 non c’è più tempo. Ma, tra il dire e il fare, per i governi seduti al tavolo Onu conta soprattutto l’apparire. Qui di seguito tre esempi di irresponsabilità camuffata, come al gioco delle tre carte, che non sembra proprio bandito da Parigi.

1. Il Trade Policy Committee dell’Unione Europea, tra i cui membri è rappresentato anche il Ministero dello Sviluppo italiano, in un documento rivolto ai negoziatori della Cop21, intima che non si parli di attività soggette ai trattati internazionali sul commercio, dato che “ogni misura adottata per combattere il cambiamento climatico” non dovrebbe costituire un mezzo di “restrizione del commercio internazionale“. Quindi,”non si faccia nessuna menzione specifica su questioni inerenti al commercio e alla proprietà intellettuale” perché ogni risoluzione in tal senso non potrà essere accettata dall’Ue”. Mentre, difronte alla instabilità mondiale, movimenti e cittadini ribadiscono la richiesta che siano le Nazioni Unite a gestire le crisi globali, ancora una volta la logica del “business is business” viene a prevalere. Far prevalere le trattative semisegrete del Wto e del Ttip, significa attaccare alla radice il negoziato climatico e favorire gli interessi economici rispetto alla tutela della salute del pianeta. La visione neoliberista del mercato globale non si smentisce, ma chi ne paga le conseguenze sono i cittadini, tenuti all’oscuro dall’ipocrisia di chi governa.

2. Il petrolio da sabbie bituminose è tra i combustibili più inquinanti al mondo. Tenerlo sotto terra è indispensabile per il contenimento dell’aumento di temperatura entro i 2°C.  Nonostante le prove fornite dalla Stanford University sull’eccesso di quantità di Co2 liberata nell’atmosfera (107 grammi di Co2 equivalente per megajoule (Co2eq / MJ) contro gli 87.5g (Co2eq / MJ) del petrolio tradizionale), il Parlamento Europeo, su disposizione della Commissione, ha ratificato l’inserimento del combustibile ricavato da sabbie bituminose nella stessa classe di inquinamento della benzina e del diesel convenzionale. Ciò è avvenuto perché le compagnie petrolifere e le raffinerie hanno vinto sull’evidenza scientifica e hanno ottenuto nel Ttip, il trattato di libero scambio tra Ue e Usa, una clausola di trattamento privilegiato per il petrolio da sabbie bituminose. Nello stesso periodo in cui ci si preparava per la Cop21, le maggiori raffinerie europee si sono attrezzate per ricevere e trattare il greggio da sabbie bituminose. Potremmo quindi trovarcelo sotto casa, come segnalato da questa mappa, che mostra Busalla, Livorno, Ancona, Sannazzaro (Pv), Trecate (No), e molti siti in Sicilia e Sardegna.

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3. Le autorità degli Emirati Arabi vogliono mettere da subito a frutto i loro petrodollari prima che sia troppo tardi. A questo fine annunciano grandi investimenti nel solare, ma anche 20 miliardi per la costruzione di una grande centrale nucleare. Naturalmente non se ne parla a Parigi, dove, stranamente, le centrali nucleari in costruzione o quelle francesi in funzione sembrano scomparse. Il fatto è che, di fronte ad un mancato accordo sulle emissioni di Co2, come purtroppo prevedibile, si potrebbe invece legittimare un uso massiccio dell’energia nucleare in sostituzione dell’uso di petrolio e carbone, nonostante i rischi del militare, degli incidenti, dello smaltimento delle scorie. Ci sono settori dell’establishment mondiale che potrebbero pensare di rilanciare questo discorso e che non vanno sottovalutati. La questione messa in questi termini fornirebbe anche una ragione in più alle guerre in corso: non soltanto per determinare il predominio sulle fonti energetiche come petrolio e gas in progressivo esaurimento, ma anche per determinare nuovi equilibri politici adatti ad aprire una ipotetica nuova fase ancora nelle mani degli stessi. Alla Cop21 è presente una lobby nucleare di 140 soggetti, che “richiede un attento esame di tutte le possibili soluzioni e la prevenzione di tutte le decisioni ideologicamente o dottrinalmente guidate”. E manda un segnale ai negoziatori: “tutti i paesi devono avere il diritto di scegliere l’energia nucleare per ridurre le emissioni di gas serra e raggiungere i loro obiettivi nazionali di energia pulita. Tale scelta non deve essere limitata da convenzioni o protocolli firmati a livello internazionale”.

Insomma, tre notizie inquietanti, che non possono che richiedere quella attenzione e quella mobilitazione democratica che le azioni terroristiche cercano di tenere lontano, schiacciata dalla paura.

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Cop21: per combattere l’inquinamento il Pentagono è militesente

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Quando nel 1991 l’Onu diede legittimazione alla guerra aerea degli Stati Uniti in Iraq – “Tempesta nel deserto” – accompagnata più tardi dagli scarponi sul suolo iracheno – “Scudo nel deserto” – qualcuno di noi cominciò a fare i conti di quale fosse non solo la spaventosa devastazione in vite umane e abitazioni, ma anche il riflesso sulla natura e il clima in termini di emissioni di CO2. Ne deducemmo che nei primi due anni la guerra all’Iraq era costata circa 200 miliardi di dollari e che il petrolio pompato dai pozzi iracheni ne avrebbe fruttati circa 30. Di fatto per la guerra sono stati consumati 650 milioni di barili equivalenti (bombe comprese) all’immissione in atmosfera di 300 milioni di tonnellate di CO2, ben più dei gas climalteranti di tutta l’Africa subsahariana.

Alle soglie del nuovo millennio pochissimi facevano di questi conti, ma dopo decine di Cop inconcludenti, questa a Parigi nel 2015 entra in scena in un clima di terrorismo e guerra, che rischiano addirittura di oscurare l’urgenza del cambio climatico o di tenerlo separato dai due temi che allontanano il diritto della pace e, con esso, qualsiasi richiamo ad una ecologia integrale, responsabile e senza ipocrisie.

Il senatore Bernie Sanders, in un recente dibattito al Congresso degli Stati Uniti, ha suonato l’allarme perché “il cambiamento climatico è direttamente correlato alla crescita del terrorismo”. Citando uno studio della CIA, Sanders ha avvertito che i paesi di tutto il mondo stanno “andando a lottare su una quantità limitata di acqua, quantità limitate di terra per coltivare i loro raccolti e si stanno riconsiderando sotto questo profilo tutti i tipi di conflitto internazionale”. In parole povere: la guerra e il militarismo alimentano esse stesse il cambiamento climatico e ne sono alimentate.

Prendendo atto di una affermazione non sospetta e venendo a noi, ci dovrebbe preoccupare che uno dei maggiori contribuenti al riscaldamento globale non abbia alcuna intenzione di accettare di ridurre l’inquinamento anche in vista della scadenza parigina. Il problema in questo caso è il Pentagono, che occupa 6.000 basi negli Stati Uniti e più di 1.000 basi in più di 60 paesi stranieri. Secondo il “2010 Base Structure Report”, l’impero globale del Pentagono include più di 539.000 strutture in 5.000 siti che coprono più di 28 milioni di acri, bruciando 350.000 barili di petrolio al giorno (solo 35 paesi nel mondo consumano più) senza contare l’olio bruciato da appaltatori e fornitori di armi. La fornitura di carburante riguarda più di 28.000 veicoli blindati, migliaia di elicotteri, centinaia di aerei da combattimento e bombardieri e vaste flotte di navi militari.

L’Air Force rappresenta circa la metà del consumo di energia operativa del Pentagono, seguita dalla Marina Militare (33%) e dall’esercito (15%). Ironia della sorte, la maggior parte del petrolio del Pentagono viene consumato in operazioni dirette a proteggere l’accesso degli Stati Uniti al petrolio straniero e le rotte di navigazione marittima per trasportarlo. Si stima che la guerra in Iraq del Pentagono abbia generato più di tre milioni di tonnellate di inquinamento da CO2 al mese per la sola movimentazione di sistemi d’arma (aerei, carri, autoblindo, tank, aerei etc.).

In breve, il consumo di olio si incarica di consumare più petrolio. Questo non è un modello energetico sostenibile. Ma cosa può fare un trattato sotto egida Onu come quello che si apre a Parigi nel momento in cui il Pentagono ha insistito su una “norma di sicurezza nazionale” che avrebbe posto le sue operazioni al di là di ogni controllo globale, esentandolo anche dalla regolamentazione dell’inquinamento e facendone un inquinatore privilegiato? Un paradosso: l’apparato militare è militesente nella battaglia per il clima…

In quanto al terrorismo, e ai fini circoscritti del tema di questa comunicazione, vorrei ricordare che Oliver Tickell su The Ecologist mette in guardia i leader politici dai rischi di un fallimento della COP21, ipotizzando un introito di circa 500 milioni di dollari all’anno dalle vendite del petrolio che in parte è nella disponibilità dei terroristi di Isis per finanziare le proprie attività criminali: un motivo in più per non fallire e ridurre la nostra dipendenza dal petrolio. Ma l’ottimismo per un accordo adeguato con gli attuali leaders mondiali non ha grandi speranze, a meno che i popoli in marcia…

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Volkswagen in Usa: ‘Questo non è il diesel di tuo padre’

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015L’affare Volkswagen potrebbe sintetizzarsi nello slogan pubblicizzato in America dalla casa tedesca: “Questo non è il diesel di tuo padre”. Nonostante la stizzita ironia antigufi che da giorni inonda il Foglio di Giuliano Ferrara, è difficile riabilitare una delle truffe più ignobili della storia industriale e limitarsi alla preoccupazione per le perdite e l’eventuale declino del più grande produttore di auto al mondo.

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Da troppo tempo il motore a combustione interna – diesel in particolare – è sotto accusa per i danni alla salute, per le emissioni nocive e per il consumo di suolo che le autovetture occupano in relazione al trasporto di persone assai spesso singole. La “bomba” esplosa dopo le prove fornite dall’International Council on Clean Transportation non è molto lontana a mio parere dall’effetto di Fukushima, con l’aggravante che nel caso delle emissioni i consumatori hanno un ruolo diretto e assai più stringente dei governi nello scegliere le alternative. A poco vale il ricatto su centinaia di migliaia di lavoratori occupati e il coinvolgimento dei “potenti sindacati” nel solito giochetto per cui sarebbero loro i più ostinati oppositori ad una riconversione ecologica. Che invece va avviata con urgenza, partendo dagli effetti spaventosi che il trucco ha già procurato e dai vantaggi occupazionali che si potrebbero trarre da una transizione governata alla mobilità sostenibile.

Secondo il Guardian lo smog è causa di quasi mezzo milione di morti premature ogni anno, e l’Unione europea sa che quasi il 40% delle emissioni di ossido di azoto dipendono dal trasporto. L’inganno perpetrato dalla casa automobilistica rischia di aver prodotto quasi un milione di tonnellate di emissioni di ossidi di azoto (NOx), grosso modo quanto ne producono tutte le centrali elettriche, le auto, le industrie e l’agricoltura del Regno Unito. La società tedesca ha ammesso che il dispositivo potrebbe essere stato montato su 11 milioni dei suoi veicoli in tutto il mondo, con conseguenze da 10 a 40 volte quelle stimate per gli Stati Uniti.

Certamente, come appare nella pubblicità, una “Passat” di oggi non richiama immediatamente il puzzolente pick-up dei film degli anni cinquanta. Ma non per questo si può tacere su questioni, come le quattro sotto riportate a cui si è data ancora poca attenzione.

1. La scelta intenzionale di Volkswagen ridefinisce drasticamente il concetto di malware. Siamo abituati a malware che ruba password, inietta pubblicità o altera il funzionamento dei computer o dei telefonini; non era ancora capitato che del malware inserito intenzionalmente dal costruttore consentisse di nascondere un inquinamento atmosferico su vasta scala. Siamo ad una forma di crimine occultata abilmente, ma non dissimile dall’impiego dell’amianto in edilizia.

2. La vicenda non si fermerà al dolo VW. E’ impossibile che una nota dei laboratori JRC alla commissione Ue, che denuncia come i test su strada evidenzino che solo 3 modelli su 23 rispettano davvero gli standard Euro6, sia potuta passare in silenzio. Quando non c’è vigilanza si commettono abusi, e quando si invoca la segretezza in nome della sicurezza, spesso la vera ragione è che si vuole carta bianca per commettere questi stessi abusi o per nasconderli. Se poi è vero che i software ingannevoli sono già stati vietati dal 2007 con il regolamento Euro 5 e 6, allora è improbabile che il dispositivo della Bosch sia stato utilizzato solo dalla fabbrica di Wolksburg. Teniamo conto che pubblicazioni prestigiose come il report di Transport&Environment,  “Don’t breathe here” (“Non respirare qui”) denunciano da mesi come in Europa ci siano sistemi e meccanismi di controllo meno rigorosi che negli USA.

3. Volkswagen ha assunto lo studio legale statunitense che difendeva BP dal disastro petrolifero della Deepwater Horizon per trattare le multe che verranno comminate. L’assunzione di Kirkland & Ellis è emersa quando il governo tedesco ha ammesso che sapeva già di “impianti di manipolazione” che potevano imbrogliare le prove di emissione. Oliver Krischer, il vice leader del partito dei Verdi, ha detto alla televisione di Berlino che questo evidenzia che il governo sapeva che i costruttori di automobili stavano cercando di manipolare le prove di emissione. Tuttavia, l’agenzia di categoria che rappresenta i produttori di automobili europei ha insistito in questi giorni sul fatto che non c’era “alcuna prova” che lo scandalo si fosse diffuso al di là di VW.

4. Dopo la firma del contratto sui cambiamenti climatici (Protocollo di Kyoto) nel 1997, la maggior parte dei Paesi ricchi sono stati obbligati per legge a ridurre le emissioni di CO2 in media dell’8% in 15 anni. Quello del Diesel era stato un mercato di nicchia in Europa fino alla metà degli anni 1990, costituendo meno del 10% del parco auto. (I diesel producono il 15% in meno di CO2 rispetto alla benzina, ma emettono quattro volte più inquinamento di biossido di azoto e 22 volte più particolati, le minuscole particelle che penetrano polmoni, cervello e cuore). Sotto la pressione Ue per ridurre le emissioni di anidride carbonica, il diesel, dall’essere una scelta stravagante, è diventato il propulsore principale in Europa. La sua quota di mercato nel Regno Unito è salita da meno del 10% nel 1995 a oltre il 50% nel 2012.

Le case automobilistiche giapponesi e americane hanno invece sostenuto ricerche di auto ibride ed elettriche, quando la Commissione europea era fortemente spinta dalle grandi case automobilistiche tedesche Bmw, Volkswagen e Daimler, ad incentivare il diesel. Il trade-off tra la riduzione delle emissioni climalteranti e l’aumento dei problemi di salute non è stato ampiamente dibattuto e le case automobilistiche di conseguenza hanno adottato la soluzione facile di ingannare il sistema attraverso i malware informatici.

Il clamore della questione qui riportata accelererà riflessioni profonde sul trasporto, a partire dalla necessità di ridurre non solo le emissioni, ma anche il traffico e la potenza per unità di peso trasportato. Nell’immediato la mobilità elettrica sembra destinata a svolgere un ruolo centrale nello scenario climatico che prevede drastiche riduzioni delle emissioni al 2050. Con le fonti rinnovabili che alla fine del prossimo decennio garantiranno la metà della domanda elettrica in Europa e che sono in forte espansione in tutto il mondo, questa tecnologia contribuirà significativamente a decarbonizzare il settore dei trasporti. In più, la presenza di un rilevante numero di auto elettriche con batteria rappresenterà un formidabile sistema di accumulo diffuso, prezioso nella gestione delle elevate quote di elettricità intermittente come quella solare ed eolica, con la connessione alla rete elettrica dei veicoli per la ricarica.

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Per il futuro: rinnovabili a buon mercato o petrolio drogato?

di Mario Agostinelli

Siamo costantemente messi di fronte all’esaurimento delle fonti fossili e al drammatico deterioramento del clima e dell’ambiente. Ma l’una e l’altro sono sovrastati da un chiassoso dibattito sul “benefico” crollo del prezzo del petrolio (ma i mercati scommettono che quel prezzo tornerà a 90 $ al barile entro un paio di anni…) e sull’acclamata opportunità di una estrazione di gas e olio con percorsi che si rivelano pazzeschi (permafrost, Artico, sabbie bituminose, fracking di scisti), sia dal lato del bilancio energetico sia da quello del danno ambientale. Una leadership mondiale che non sa come uscire dalla crisi da lei stessa prodotta e che fissa “road map” di rientro dal debito finanziario ad ogni incontro dei big (quanti sono e quanta CO2 per questi inutili e incessanti meeting?), mette in conto perfino la guerra perché non vuole uscire dal vincolo di un sistema energetico centralizzato e non si preoccupa del debito contratto verso la natura. Banalmente spera che tutto si appiani con uno sconto provvisorio sul barile.

La vita moderna si basa sull’uso onnipresente di combustibili fossili, tutti con rilevanti svantaggi non solo per gli effetti climatici. Il carbone, il più economico e più abbondante, è stata ed è la fonte più sporca, che contribuisce massicciamente all’inquinamento, non solo termico. Le forniture di petrolio sono vulnerabili agli shock geopolitici e a collusioni sui prezzi da parte dei produttori. Il gas naturale ha bisogno di lunghissime e vulnerabili pipeline, che limitano l’autonomia energetica e marcano le dipendenze da giacimenti fuori controllo, come nel caso dell’Europa dalla Russia. L’energia nucleare è afflitta da esposizioni finanziarie e da complicazioni politiche, intensificate dagli allarmi dell’opinione pubblica dopo gli incidenti di Chernobyl e Fukushima. Al contrario, le fonti rinnovabili come l’eolico e il solare comportano un basso impatto, ma sono ostacolate e mantenute in un ruolo marginale, nonostante un consenso crescente e saldo nei loro confronti.

In questo scenario, l’impressione che l’enfatizzazione del calo temporaneo del prezzo del petrolio faccia parte della volontà di dilazionare i tempi del cambiamento, non è solo giustificata, ma va analizzata in tutte le sue implicazioni, in particolare per quanto riguarda il modello sociale e economico che si vorrebbe procrastinare. Non si deve sottovalutare quanto il rilancio oggi del petrolio, a pochi mesi da un decisivo vertice sul clima, sia un elemento diabolicamente razionale e sapientemente ricattatorio, che le corporation e i grandi produttori dell’energia hanno messo in campo in una crisi economica per cui il liberismo non ammette alternative.

Nel 2013 nel mondo ben 550 miliardi dollari sono stati spesi per sovvenzionare i combustibili fossili, favorendo le multinazionali, distorcendo le economie e aggravando l’inquinamento. Per le rinnovabili gli investimenti (non i sussidi!) hanno registrato una media di 260 miliardi di dollari all’anno nel corso degli ultimi cinque anni. La IEA, l’organizzazione intergovernativa per l’energia, certamente di ispirazioni conservatrici, dice che il mondo dovrà sborsare circa 23.000 miliardi dollari nei prossimi 20 anni per finanziare l’estrazione di gas, petrolio e carbone, sempre meno accessibili. E, inoltre, stima che gli investimenti necessari oggi per la “decarbonizzazione” della sola produzione di energia elettrica si aggirano sui 44.000 miliardi dollari.

Proviamo allora a chiederci non tanto quello che il calo dei prezzi del petrolio significhi per l’energia pulita, ma quello che significherà la prospettiva di energia pulita e di efficienza energetica per il prezzo del petrolio.

Proviamo allora ad allargare lo sguardo. E’ addirittura l’edizione online di metà Febbraio di Bloomberg Energy ad affermare che vale la pena di investire nelle rinnovabili, data la conferma di un andamento costantemente positivo del settore.  Cioè, uno dei guru più prestigiosi del sistema finanziario e bancario mondiale sostiene la possibilità di ricorrere ad energia pulita per sopravvivere oltre la temporanea caduta del prezzo del petrolio. Da metà ottobre, mentre il greggio è sceso di quasi 30 dollari al barile, non ci sono stati cambiamenti nelle quotazioni dell’energia da fonti naturali, come misurato dal NEX (New Energy Global Innovation Index). E questo perché godono ormai di fatto di un sostegno politico e sociale generale, anche se contrastato nei media e disdegnato da Governi alla giornata come il nostro.

Una presa d’atto, quella del mondo degli affari più avvertito, che prevede stabilità oltre la tempesta. In pratica, la valutazione dei rischi da parte delle agenzie di credito all’esportazione risulta più vantaggiosa per investimenti nelle rinnovabili che non per opere di estrazione e trasporto dei fossili. Di conseguenza, si sono aperti mercati all’estero per le imprese “green” tedesche, danesi, coreane e statunitensi, sostenute dalle azioni dei loro governi.

Di fatto, i costi nell’eolico offshore sono sempre più ridotti, dopo che è stata raggiunta competitività nei due settori principali (vento onshore e PV). E la parity grid è stata ormai raggiunta anche senza particolari incentivi. Secondo il National Renewable Energy Laboratory (NREL), il costo di pannelli solari su una tipica casa americana è sceso di circa il 70 per cento negli ultimi dieci anni e mezzo. In Europa la convenienza è ormai accertata e migliorerà con investimenti in reti intelligenti e accumuli appropriati. I dati di produzione, poi, sono illuminanti: nel 2014 l’energia “pulita” nel mondo è volata ancora in alto, superando le aspettative (v. Ansa del 9 Gen 2015), con una crescita del 16% – pari a 310 miliardi di $ in investimenti – con un balzo record in Cina (+32%) e con crescite assai maggiori rispetto ai settori tradizionali anche in USA (+8%), Giappone (+12%), Canada (+26%), India (+14%), mentre da noi gli investimenti sono calati del 60% rispetto al 2013.

Il mondo cambia più rapidamente di quanto gli esperti sappiano immaginare e non è sufficiente studiare il passato per prevedere il futuro. La fame di energia dell’Asia e del Sud del mondo non è infinita e il loro sviluppo non sarà la fotocopia del nostro, perché rinnovabili ed efficienza sono ad uno step evolutivo ben diverso rispetto a quelli dei tempi della nostra crescita.

Alla luce di un esame attento, petrolio e gas di scisto non hanno inaugurato una nuova stagione dell’abbondanza: hanno solo reso accessibili risorse già conosciute e recuperabili grazie al prezzo elevato tenuto dal greggio fino a qualche tempo fa e solo a tale prezzo avranno ancora chance. E qui aggiungo: se glielo permetteranno lo sviluppo prevedibile delle fonti naturali diffuse e il risparmio praticabile negli edifici. I prodotti “shale” sono oggetto di aumentate preoccupazioni e perdita di consenso, con probabili effetti sul loro prezzo in futuro, come è già avvenuto per il nucleare.

A riprova, le preoccupazioni in USA e Canada per i rischi per l’acqua e il suolo, dato che il boom di estrazione da scisto richiede cambiamenti dirompenti nella gestione delle falde e dei terreni, ha indotto le comunità locali a chiedere garanzie con investimenti onerosi nella depurazione e nelle compensazioni ambientali, nonché nella sicurezza dei sistemi di tubazione e in quelli ferroviari di trasporto. Per di più, le nuove riserve energetiche si trovano in aree che non sono ben collegate ai porti o alle raffinerie già sviluppate nel secolo precedente e le imprese del settore energetico sono impegnate a costruire infrastrutture per abbinare la mutata geografia alla nuova offerta.

Un esempio delle riserve nell’opinione pubblica sulla tecnologie di estrazione non convenzionali viene anche dalla Germania, che, ha in queste settimane presentato un progetto di legge che ha cambiato le carte in tavola, anticipando al 2019 il permesso per estrarre gas da scisto. Quando il Ministro dell’Ambiente Barbara Hendricks ha detto che saranno applicate “le regole più severe che siano mai esistite nel settore del fracking”, ha freudianamente aggiunto che le perforazioni “saranno consentite solo con il massimo rispetto per l’ambiente e l’acqua potabile”.

Con un sapore da umorismo noir, la ministra prevede che il fracking sia vietato in tutte le aree di approvvigionamento idrico pubblico e consentito solo con criteri chiari per la gestione dell’acqua del serbatoio in cui finiscono i fluidi dell’operazione, suscitando un po’ di sconsolata ilarità e l’allarme dell’Associazione di Municipal Utilities (VKU), che fornisce circa l’80% di acqua potabile ai tedeschi.  Vincoli e normative rigide e sempre da migliorare per le popolazioni: costi in ascesa, quindi, o non se ne fa niente.

Intanto la Cina, il maggior consumatore in prospettiva, prevede l’autosufficienza energetica e la riduzione radicale delle emissioni di carbonio. Il presidente Xi Jinping annuncia sul South China Morning Post del 7 Febbraio di puntare ad abbassare il picco delle emissioni di anidride carbonica prima del 2030, con un ricorso al nucleare, ma, soprattutto, con una crescita impressionante delle rinnovabili. E aggiunge, significativamente, che “il cambiamento in atto nel mix energetico del Paese si basa su una minore dipendenza da carbone, lignite e petrolio e sull’aumento del consumo di energia pulita, cui seguirà il riequilibrio economico della nazione con un marcato rallentamento della crescita delle industrie manifatturiere ad alta intensità energetica e una rapida espansione del benessere e delle attività dei servizi”.

Per raggiungere gli obiettivi programmati, il “continente” ha bisogno di creare ex novo entro il 2030 da 800 a 1.000 GW di capacità di produzione di energia elettrica con zero emissioni. Il dettaglio presentato mette all’ultimo posto il ricorso al nucleare: 275 GW di capacità eolica, 385 GW di capacità solare e 120 GW di capacità idroelettrica, contro 85 GW di capacità nucleare. Suscettibili oltretutto di contenimento, per le riserve che si manifestano dopo l’incidente di Fukushima. L’esplosione degli impianti rinnovabili sulla scala macro del territorio cinese comporterà una drastica caduta del prezzo del kwh prodotto da pale, pannelli, digestori etc., con tecnologie di facile esportazione e adattamento anche nei paesi poveri.

Si ridurrà di conseguenza l’offerta eccedente di petrolio e gas da cui dipende in parte l’attuale caduta dei prezzi, pronti a risalire per l’impiego nei settori della mobilità, dei derivati post cracking e in quelli che richiedono la più alta densità energetica.

Se queste sono le condizioni nel medio periodo, meglio non adagiarsi sul prezzo attuale del greggio, ma prendere il tempo per le corna e accelerare il cambio di paradigma energetico che le energie naturali e rinnovabili – incardinate in stili di vita sostenibili – possono già innescare. Deve farsi strada la consapevolezza, fra chi governa e i cittadini, che essere sullo stesso pianeta e alimentarsi delle stesse risorse impone una politica globale di collaborazione, quando si ha come obiettivo la sicurezza, la guerra alla povertà, la difesa del clima e una vita e un lavoro decente per tutti. E questa è, forse, la chance vincente per decidere di superare rapidamente il sistema fossile e nucleare.

Di tutto questo non si è accorta l’organizzazione di EXPO 2015, che ha ridotto l’occasione di un appuntamento mondiale nel nostro Paese al solo capitolo alimentazione, privilegiando implicazioni prevalentemente commerciali rispetto alla sfida che quel binomio “energia-vita” –  originalmente presente all’avvio, ma praticamente cancellato dalla manifestazione che si aprirà – avrebbe comportato per un ripensamento  della sostenibilità a partire dalla Lombardia e dalla città di Milano.

 

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Nuove trivelle in Lombardia?

Questo articolo è tratto da www.salviamoilpaesaggio.it

Il preoccupante interesse per l’oro nero, insostenibile ed insensato, non si limita al Canale di Sicilia ma sbarca anche nella pianura lombarda, già martoriata da cemento e nuove autostrade. Un’analisi delle zone interessate con un approfondimento per la situazione nella zona est della Provincia di Milano.

PETROLIO LOMBARDO, MINACCIA OSCURA

La notizia pubblicata su Corriere Ambiente lo scorso 4 Ottobre porta all’attenzione di tutti il fatto che anche la Lombardia è a rischio trivelle. Riaffiorano interessi per petrolio e gas nelle stesse aree già sondate qualche decennio fa. Siti operativi già attivi in passato e nuove richieste in fase di valutazione: si allunga l’ombra di una minaccia oscura che interessa numerose provincie e spaventa anche oltre confine, in Svizzera.

Perché è ripresa la “corsa al petrolio”? Qual è la situazione?
Cosa sanno i cittadini? Quali sono i rischi?

I NUMERI E LE PROVINCIE INTERESSATE

L’articolo sopracitato ricorda che su tutto il territorio lombardo sono ben 25 i nuovi sitisotto esame da parte del Ministero dello Sviluppo Economico, da ovest ad est, che si aggiungono alle 17 concessioni vigenti per la coltivazione di idrocarburi e 7 per lo stoccaggio di gas.
Una dettagliata planimetria colloca sul territorio lombardo siti attivi, permessi di ricerca già concessi e nuove richieste in esame.

Al momento sembrano “salve” solo le provincie di Lecco e Sondrio, anche se va ricordato che è di pochi anni fa l’assalto provato e respinto a Montevecchia (LC) dove la società australiana Po Valley era intenzionata ad effettuare pericolose ricerche in un area di grande valenza paesaggistica del Parco del Curone.

Le nuove istanze che interessano le provincie di Como e Varese spaventano oltreconfine. Nel Canton Ticino infatti non solo le associazioni ambientaliste, ma anche gli enti istituzionali, manifestano preoccupazione per una scelta, quella di puntare ancora sulle fonti fossili, che genera problemi ambientali locali e non risolve, anzi peggiora, i problemi climatici globali. I comuni svizzeri potrebbero anche attivarsi per presentare osservazioni ufficiali nelle istanze in corso.

Lo scenario complessivo sembra quello di una regione che prova a togliere alla Basilicata il titolo di “Texas d’Italia”.

L’EST MILANESE E LA SUA STORIA PETROLIFERA

Analizzando le informazioni riportate sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico in merito alle istanze in corso e il dettagliato archivio storico si scopre che:

– per la “ricerca di idrocarburi” figura un lungo elenco storico dei pozzi dal 1895 al 2011. Nelle provincie di Milano e Monza e Brianza sono ben 264 di cui uno rispettivamente a Monza, Lissone, Burago e Carugate e ben 31 nel solo comune di Brugherio dove risulta anche una concessione per lo stoccaggio di gas.

– per la “coltivazione di idrocarburi” sono elencate 17 concessioni, tra cui una riferita al comune di Pessano con Bornago, ambito d’interesse di ENI già da qualche anno. Una concessione che copre però un’area molto ampia che giunge fino al Vimercatese (Burago Molgora, Agrate Brianza e Caponago).

Tra le nuove istanze di “permesso di ricerca in terraferma” ce n’è una, arrivata alla fase di conferenza dei servizi, che fa riferimento al comune di Melzo, il cosiddetto “Progetto Melzo” della società italo-americana Mac Oil. L’istanza interessa, anche in questo caso, una serie di comuni della zona (Bellusco, Busnago, Cambiago, Cavenago di Brianza, Ornago e il già citato comune di Pessano con Bornago) e coinvolge anche alcuni comuni della provincia di Bergamo.

PESSANO CON BORNAGO: CORSI E RICORSI

Giuseppe Moretti del Circolo Legambiente “Il Molgora” di Pessano con Bornago ci racconta che l’Eni fece un carotaggio in quella zona già negli anni 70. La campagna fu poi abbandonata e il pozzo fu chiuso e sigillato.
Dopo anni, nel 2001, arrivò una proposta di riattivazione, finalizzata all’estrazione di gas che prevedeva inoltre la realizzazione di un’annessa centrale.

Ci fu l’opposizione dei cittadini e numerose proteste: furono convocate assemblee pubbliche in cui partecipò anche Eni. L’impianto proposto era troppo vicino alle abitazioni ed era inoltre nell’area del Parco del Molgora. L’impatto sarebbe stato devastante: oltre al traffico degli automezzi generato, il paesaggio sarebbe stato sconvolto da una torcia continuamente accesa come quella che si vede nella classica immagine dei pozzi petroliferi del medio oriente. La società fortunatamente rinunciò.

Ora le associazioni locali, alla luce anche delle notizie attuali, continuano a seguire con attenzione le vicende e non abbassano la guardia.

POCA INFORMAZIONE, TANTA PREOCCUPAZIONE

Sono poche le informazioni sull’argomento reperibili dalla stampa locale e dai comuni interessati, che abbiamo interpellato direttamente per conoscere l’avanzamento dei procedimenti in corso e le posizioni delle Amministrazioni Locali senza avere però alcun riscontro.

Per la zona del Vimercatese un recente articolo de “Il Cittadino”, conferma che il permesso di ricerca per Melzo ha ottenuto il via libera del Ministero. Sfruttando studi già fatti, saranno nuovamente oggetto di indagine le stratificazioni in cui potrebbero essere contenuti idrocarburi, confidando in risultati migliori della campagne di ricerca dei decenni scorsi.

Nella bassa bergamasca, interessata dal “Progetto Melzo”, cresce in rete la preoccupazione e la protesta: anche qui in diversi comuni (Arzago, Casirate, Fara Gera d’Adda, Treviglio e Calvenzano) riaffiorano situazioni che sembravano, dopo anni di silenzio, definitivamente accantonate.

GEOLOGIA ED ECONOMIA

La Pianura Padana ha geologicamente le caratteristiche per contenere idrocarburi, ma è tutta da valutare la quantità estraibile, su cui ovviamente vige il riservo da parte delle compagnie. Nei decenni scorsi sono state fatte numerose indagini e l’area è stata anche sfruttata. Ora però i residui ancora estraibili potrebbero trovarsi ad elevate profondità con forte possibilità di insuccesso.

Ma il prezzo del petrolio così alto e le discutibili agevolazioni dovute alle scelte governative italiane (bassi oneri di estrazioni rispetto ad altri paesi ed esigui obblighi di compensazione ambientale, le royalties) spingono comunque le compagnie, anche e soprattutto straniere, ad investire nuovamente.

La strategia energetica nazione proposta dal Governo ed in particolare dal ministro Passera è nuova sulla carta ma di vecchia concezione: prospetta infatti uno scenario futuro basato ancora principalmente sulle fonti fossili e non sulle rinnovabili. Una scelta esclusivamente economica, che mira a far cassa.

Ma per i territorio le previsioni non sono buone: più che una pioggia di soldi, il rischio è di una pioggia nera ed inquinante come quella che nel 1994 colpì Trecate (NO) dopo l’esplosione di un pozzo di trivellazione dell’AGIP.

PERICOLOSO MIRAGGIO

Le società petrolifere credono nel miraggio ed investono miliardi di euro, e promettono nuovi posti di lavoro, nuove entrate per lo Stato e risparmi in bolletta.

Ma se tutto questo sarà realizzato quale sarà il prezzo in termini di salute, inquinamento e sfruttamento del territorio?

Ogni compensazione economica sarebbe comunque insufficiente a giustificare il definitivo colpo di grazia per un territorio già devastato dalla cementificazione e inquinamento: occupare infatti le esigue aree agricole e libere con i nuovi pozzi, i relativi cantieri e gli impianti altamente inquinanti necessari ad estrazione, stoccaggio e trasporto di petrolio e gas, sarebbe insostenibile.

 

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