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Post referendum: la speranza che si riorganizza

Qualche pensiero su un referendum perso, su quelli da vincere, sulla speranza che si riorganizza

a cura di Daniele Barbieri

La pessima notizia è nota. Renzi e gli altri “unti” – di petrolio – hanno vinto. Una vittoria sulla specifica e piccola questione del referendum ma anche sulla simbologia del piccolo Davide popolare che, senza tv e giornali, aveva la presunzione di sconfiggere il grande Golia dei Palazzi. Brutta botta, inutile girarci intorno.

La notizia buonina però è sotto i nostri occhi. Comunque in tante/i non ci pieghiamo al “pensiero unico” . Non siamo i quattro gatti che lor signori vorrebbero. E con queste forze ripartiamo già oggi per vincere i prossimi referendum, soprattutto quello contro la “schiforma costituzionale” di Renzi-Boschi, ma anche per rafforzare, per organizzare, per far figliare quel gomitolo di lotte sociali, sindacali, politiche e culturali che sono più importanti di ogni consultazione referendaria.

Mentre ieri sera guardavo – senza per la verità eccessivi patemi – le percentuali, mi è arrivato un messaggio dal «Comitato referendum sociali» di Imola, del quale faccio parte: diceva che Giancarlo, Silvia e Teresita erano in riunione, che «ci sono due nuovi aderenti, Mario e Piero» e finiva così: «segnatevi ai turni di sabato e lunedì. Il lavoro è immane. Ce la possiamo fare solo se ci impegniamo tutte/i. Domani sera ne parliamo». Ce la possiamo fare. Domani è un altro giorno. Arrendersi è un’idea che neanche ci sfiora.

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Dopo il Referendum

a cura di Andrea Fontana

Paolo Pileri, docente del Politecnico di Milano ed editorialista per Altreconomia ha commentato i risultati del referendum scrivendo tra l’altro: “occorre al più presto immaginare come impostare una nuova narrazione ambientale decisamente diversa da ieri, perché quella non ha funzionato. Occorre trovare modo di spiegare che con ambiente e sostenibilità si lavora, si fa società, si cresce, si mitigano le disuguaglianze e si migliora. Ovviamente occorre investire molto, molto di più, in cultura ambientale”.

Sono perfettamente d’accordo, anche se l’ultima frase per me ha tre parole di troppo, le ultime.

Se è quasi sempre giusto non cambiare la squadra che vince, è sacrosanto riformare quelle perennemente sconfitte. Occorre analizzare con spietata obiettività quale sia stato il contributo di chi si è speso per cercare di raggiungere un quorum apparentemente impossibile all’ultimo referendum. Ho già avuto modo di dire che considero maldestra l’idea di aver voluto identificare con il movimento NoTriv la campagna referendaria. Intendiamoci, ai NoTriv va tutta la mia stima e la mia solidarietà, ma il quesito era un altro. Non si trattava di stabilire se autorizzare o no le trivellazioni. Quelle sono già state autorizzate, purtroppo anche oltre le 12 miglia e sulla terraferma. Il quesito era sulla durata delle concessioni, se fosse corretto regalare a compagnie, straniere o nazionali poco importa, la possibilità di svincolarsi all’infinito dall’impegno di ripristinare le condizioni ambientali dei siti dove hanno ottenuto le concessioni per installare trivelle e piattaforme. Se è logico, rispetto all’interesse comune, permettere che le compagnie petrolifere possano, in assoluta legalità grazie alla clausola della franchigia annua, evitare di pagare anche le pur minime royalties previste dallo Stato italiano.

Invece siamo finiti a parlare delle cozze, del pericolo di eventuali sversamenti di petrolio in mare quando il 90% delle piattaforme interessate estraggono gas. Ci siamo fatti trascinare in una diatriba da stadio tra tifosi di Renzi e oppositori, manco fosse la Juve. Eravamo anche stati fortunati. Un ministro del Governo guidato dal triunvirato dell’astensione (Napolitano, Renzi e Boschi) si è fatto beccare, al momento giusto, con le mani nella marmellata da intercettazioni imbarazzanti, come un Moggi qualsiasi.

Non siamo stati capaci di sfruttare neppure il contributo del pontefice, che pure gode di grande influenza e con l’enciclica Laudato sì ha sostenuto con chiarezza e profonda capacità di analisi quasi tutte le tesi che ci stanno a cuore.

Inoltre, non credo che i temi dell’ambiente e della sostenibilità non interessino il grande pubblico, potrebbero avere, al contrario un grande fascino. Sono anche convinto che almeno l’ottanta per cento degli italiani, con una frequenza scolastica elementare, sappia perfettamente quanto siano scarse le nostre materie prime e che l’unico convinto si possa competere con oligarchi russi e sceicchi nel gioco di chi ha il pozzo più grosso sia Corrado Passera, l’ex ministro dello sviluppo economico autore della Strategia Energetica Nazionale in vigore dai tempi del governo Monti.

Insomma, mi pare evidente che ci siano stati errori tattici e strategici rilevanti. Occorrerebbe però sapere su quali forze si può realmente contare per una svolta dai contenuti radicali che, se vengono continuamente sfumati, non risultano discriminanti per andare a votare.

Sinceramente mi sento di ringraziare Greenpeace e pochi altri per l’impegno profuso. In particolare Andrea Boraschi ha svolto un gran lavoro confrontandosi in modo pacato e intelligente ogni volta che gli è stata data l’opportunità di dire la sua in un dibattito. Grazie alle strategie non convenzionali di marketing e comunicazione di Grennpeace, spesso quest’opportunità se l’è creata dal nulla. Forte è stato il tentativo di approfondire oltre il 17 Aprile la posta in gioco, come nel caso dell’e-book promosso da Angelo Consoli. Di più avrebbero potuto fare, secondo me, WWF e Legambiente, le maggiori associazioni ambientaliste sul territorio. Probabilmente ha fatto poco anche la Chiesa. Non so quanti fedeli abbiamo accolto l’appello dei vescovi che hanno invitato a informarsi e ad andare a votare. Non so quanti parroci abbiano letto l’enciclica e quanti ne abbiano preso spunto per tradurne il messaggio in una azione diffusa.

Dopo aver dispensato le mie perle di saggezza (almeno l’autoironia è rimasta) vorrei porre una domanda a chi ha avuto la pazienza di arrivare fino a qui: come pensiamo di avviare una nuova narrazione dei temi legati all’ambiente, all’etica, all’ecologia, all’energia e all’economia se i comunicatori restano sempre gli stessi che, per chiudere con un’altra metafora calcistica, sarebbero già stati da un pezzo messi in panchina e perlomeno affiancati, se non sostituiti, dalle promesse delle leve giovanili?

Il dibattito è aperto.

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Risultati del Referendum

Il risultato del referendum è così sconsolatamente rilevante per l’impegno profuso a molti livelli – e tra questi anche quello della nostra Associazione Energia Felice – da richiedere una attenta valutazione anche a più voci, critiche, realisticamente propositive, ma non banalmente oscillanti tra il riconoscimento tardivo (e servile) dell’astuzia di Renzi e la accettazione di una partecipazione  irreversibilmente meno attiva dei cittadini ad una democrazia da tempo in svuotamento. Pubblicheremo più interventi e diverse opinioni.

RISULTATI

Tutta Italia (estero compreso)
Abitanti / Elettori: 64.741.677 / 50.675.406

Affluenza: 31,2 %

AFFLUENZA REGIONE PER REGIONE
(grafica a cura di repubblica.it)

affluenza e risultati Referendum 17 aprile 2016

RISULTATI REGIONE PER REGIONE
(grafica a cura di repubblica.it)

affluenza e risultati Referendum 17 aprile 2016

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Referendum: le trivelle in mare vengono da lontano

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Nel gennaio del 1988, il manifesto pubblicava un articolo scritto da Attilio Tronconi, ricercatore della Asea Brown Boveri e dal sottoscritto, allora segretario della Cgil Lombardia contro un progetto dell’Enel per costruire una centrale off-shore da 2500 MW al largo delle coste emiliane nell’Adriatico. Questa storia delle trivelle in mare, per cui andremo a votare il 17 aprile, ha alle spalle antenati ben irresponsabili, politicamente e economicamente egemoni prima dei referendum sul nucleare e la cui eredità perdura nei governi attuali, nonostante le formali adesioni di premier e ministri agli obiettivi della recente conferenza di Parigi.

Referendum: le trivelle in mare vengono da lontano

Risottolineo oggi, con quell’articolo sottomano – e rileggendo la ripresa scandalizzata della notizia di una centrale in mare in un numero monografico de “il Mondo” del 20 febbraio del 1988 e in un servizio di Panorama del 31 gennaio 1988 – la mancanza di cura, se non la temerarietà, con cui la classe dirigente trattava l’ambiente prospiciente le spiagge allora inquinate per l’eutrofizzazione.

copertina il mondo - centrale off shore

L’allora ministro Battaglia, punto nel vivo dalla vittoria dei Sì al referendum per la cessazione del nucleare, a colpi di fiducia in Parlamento e con il placet del Cipe e del consiglio di amministrazione dell’Enel, aveva dato il via libera:
a) alla riconversione dell’impianto nucleare in costruzione a Montalto di Castro in un polo termoelettrico da ben 3300 MW,
b) alla proroga del sovrapprezzo termico sulle tariffe dell’elettricità, al fine di trasferire all’Enel alcune centinaia di miliardi di lire a titolo di risarcimento per il blocco nucleare,
c) alla riserva di ulteriori 3000 MW per nuovi impianti e ripotenziamenti di quelli esistenti.

In spregio alla partecipazione democratica e al diritto all’informazione, le decisioni sulla politica energetica venivano assunte in organismi ristretti, per rassicurare gli interessi intaccati da un referendum popolare. Non a caso, il mese prima l’Enel aveva approvato il finanziamento per 33 miliardi di lire della progettazione esecutiva di una centrale off-shore da 2500 MW al largo delle coste emiliane. La realizzazione di una centrale termoelettrica su un’isola artificiale era indicata tra le ipotesi del Piano Energetico come una soluzione da prendere in considerazione, ma solo dopo il 1995. Per il potente ministro dell’Industria c’era bisogno di “andare a mare” al più presto, ponendo la localizzazione dell’isola artificiale “nel mare Adriatico in una zona compresa fra i 10 e 30 Km, in cui possibilmente risulti presente nel corso dell’anno una foschia così da renderla invisibile dalla spiaggia”. Veniva altresì suggerita la preferenza di localizzare l’isola e il porto di rifornimento fuori dalle acque territoriali in modo da non pagare le imposte sui combustibili, l’Iva e l’imposta di fabbricazione.

Evidentemente si dava già allora per auspicabile la strada (o l’autostrada) di proliferazione di impianti di estrazione e trattamento di gas e petrolio al di là delle implicazioni che riguardano la sicurezza militare, i vincoli di spostamento dei lavoratori addetti, l’impatto ambientale, la pesca, il turismo, lontani dal controllo sociale e in grado di minimizzare (almeno alla vista) l’impatto ambientale, con controlli delegati alle sole istituzioni centrali esautorando le Regioni e le autonomie locali. Quel disegno è stato contrastato dalla coscienza popolare cresciuta durante la campagna referendaria sul nucleare, che oggi, nel caso dei fossili il governo ha voluto eludere. Sarebbe stato magari messo in cantiere, al prezzo di un restringimento della democrazia e di un accentramento dei poteri di decisione ogni volta che si profila un cambiamento della portata dell’abbandono del nucleare e, oggi, del passaggio alle rinnovabili.

Scrivemmo in quell’articolo del 1988: “Non si dà riconversione ecologica dell’economia senza più democrazia. Gli obiettivi della politica energetica vanno attuati con il concorso e il consenso della popolazione, con il contributo delle forze sociali e con il più vasto apporto delle forze intellettuali”. Quel vizio di fondo di considerare l’ambiente – e quello marino in particolare – un aspetto residuale è rimasto quasi intatto dopo quasi 30 anni in una ristretta cerchia delle classi dirigenti e il referendum di domenica ne riscopre gli enormi limiti in una prospettiva temporale che si fa sempre più stringente.

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