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Trivelle e nomine: reggono alla luce del sole?

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Dev’essere sconfortante dover partecipare ad una delle riunioni convocate da Renzi: sentirsi dire, senza poter battere ciglio, che il corso della storia coincide con la sua agenda politica non può che portare sconforto a chiunque abbia contezza delle urgenze ambientali e sociali che ci stanno cadendo addosso.
Ad esempio, il Papa, Obama (vedi gli ultimi post su questo blog), un’alleanza delle 24 principali istituzioni scientifiche britanniche guidate da Nichola Stern, i sindaci di tutto il mondo riuniti a Roma il 15 luglio, i  movimenti popolari accorsi in Bolivia, hanno lanciato il loro grido di allarme contro il probabilissimo superamento di 2°C della temperatura della terra.

L’opinione pubblica mondiale, i media e la società civile sono ora molto più impegnati e vi è una maggiore attenzione e pressione sui governi a mettere da parte gli interessi nazionali egoistici e sta nascendo un solido consenso per un cambiamento del trattato sul clima, per mitigare l’estrema gravità del degrado del nostro pianeta come risultato delle attività umane. Questa crescita di consapevolezza politica ed etica dovrebbe portare i governi ad intervenire sulle strategie energetiche e sulla politica industriale con benefiche ricadute sull’occupazione, in coerenza con un cambio profondo del modello fin qui perseguito. Ne sentite mai parlare negli innumerevoli report televisivi sulle esternazioni e gli immancabili tweet del premier?

Dato che i sette Paesi più grandi particolarmente responsabili delle emissioni attuali (Cina, Usa, Ue, India, Russia, Giappone e Canada), devono affrontare questo problema e sono consapevoli del fatto che l’umanità non può accettare ancora una volta la loro incapacità di agire, perché non affrontare anche in Italia questo decisivo passaggio, con trasparenza e concretezza, invece di dedicarsi giornalmente alle nomine dei manager e dei dirigenti che sequestreranno anche le decisioni sul clima dentro le cerchie lobbistiche e lontano dall’opinione pubblica?

Ad esempio, come è possibile che per il Sud si mettano all’opera le trivelle di nascosto dalle popolazioni e si progetti un insensato aumento delle perforazioni in mare, anziché un investimento straordinario nel sole, così prodigo di irraggiamento in quelle regioni? Nel mondo cresce il ricorso alle energie naturali, mentre noi stiamo mettendo fuori gioco le professionalità e l’esperienza del nostro settore industriale nell’eolico, nel solare e nella geotermia, mentre piazziamo risorse sul piatto delle fonti fossili. Vediamo un po’, allora, qualche esempio fuori dai palazzi romani.

Anche prescindendo dalla solita Germania, il cambiamento è impressionante. Obama ha fortemente irritato l’industria carbonifera Usa con una rigorosa riduzione dei gas di scarico delle centrali, che diminuirà la domanda di carbone a 650 milioni di tonnellate rispetto alla media di 1 miliardo all’anno. Inoltre il suo programma intralcerà certamente la scommessa dello shale gas, visto che sarà incentivata la quota delle rinnovabili nel mix di produzione e che, di conseguenza, secondo la Bloomberg New Energy Finance Research, “La crescente competitività delle energie rinnovabili indebolisce le prospettive di generazione di gas: nel 2040 si arriverà solo a un aumento inferiore al 30% rispetto al 2015″. SunEdison, l’azienda americana leader mondiale del fotovoltaico, ha iniziato la costruzione di 110 MW di fattorie solari in Cile.

Dall’altra parte del continente, la Banca di sviluppo brasiliana BNDES ha annunciato che quest’anno aumenterà il finanziamento di progetti di energia eolica ad un ritmo che, sebbene inferiore rispetto al 2014, contempla pur sempre un aumento del 15% rispetto all’anno precedente.

King Abdulaziz, la città della scienza dell’Arabia Saudita, ha firmato un accordo interno per costruire una fattoria solare di 50 MW, eguagliando in un sol colpo la potenza finora in funzione nel paese che è il più grande esportatore di petrolio. Anche l’Iran sta cercando di sfruttare le sue buone risorse eoliche. Il governo prevede di incentivare e installare 5GW di capacità entro il 2020, nel tentativo di alimentare il fabbisogno elettrico della sua popolazione: il recente accordo apre alle aziende (cinesi ed Usa finora) un grande mercato, ma le aziende italiane sono tagliate fuori.

Il governo etiope ha firmato il primo contratto per l’elettricità prodotta da centrali geotermiche nel sito di Corbetti per 500 MW di potenza. Il progetto in fase di sviluppo è in carico a soggetti islandesi e fa ricorso al Fondo africano per l’energia rinnovabile. L’Indonesia sta attivando il più grande gasdotto geotermico, mentre Guatemala, Honduras e la Nuova Zelanda stanno facendo investimenti in un settore in cui l’Italia è sempre stata all’avanguardia. L’India sostenuta dal fondo monetario, sta avviando il più grande progetto finanziario per incentivare il risparmio energetico.

La breve rassegna qui esposta dice che nel mondo si va da tutt’altra parte e, tra l’altro, in settori in cui l’Italia vanta una posizione di primo piano. O meglio, vantava. I dati definitivi del settore elettrico, diffusi come di consueto da Terna a metà luglio, dicono che la grande crescita nelle rinnovabili è cessata nel 2014 e che la nuova potenza rinnovabile installata è di “soli” 676 MW.

La luce del sole, dati alla mano, dovrebbe abbacinare la frenesia delle nomine lottizzate e delle trivelle: infatti lo scorso anno le FER hanno generato 120.679 GWh, un bel 7,7% in più del 2013, una quantità di elettricità equivalente ai consumi totali di tre regioni energivore come Lombardia, Veneto e Piemonte o quasi equivalente al totale dei consumi dell’industria italiana (122,5 TWh)! Il loro peso è stato pari al 39% della domanda totale (che è stata pari a 310,5 TWh) e al 43% della produzione nazionale lorda (pari a 279,8 TWh). Nel 2015 invece la produzione da fonti rinnovabili ha segnato una flessione mentre la produzione da fonti fossili è in un aumento. Ben vengano allora le proteste e le manifestazioni di questi giorni.

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Cambiamenti climatici: la svolta di Obama

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Il conto alla rovescia per la XXI Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici (Cop 21), che si terrà a Parigi nel dicembre 2015, è già iniziata.  Da noi, con un governo impegnato allo stremo per le “riforme” non se ne parla proprio.  Dopo la pubblicazione della sua straordinaria enciclica Laudato Sì, il papa il 21 Luglio ha accolto sindaci e governatori delle principali città di tutto il mondo (comprese Milano, Roma, Napoli), che hanno firmato, assieme a Francesco, una dichiarazione che invita i governi di tutto il mondo ad adottare misure audaci alla Cop21 per limitare entro i 2°C l’aumento di temperatura, dato che la crescente preoccupazione per la salute del pianeta non accenna a diminuire.

In un nuovo rapporto sulla base di input da 413 scienziati provenienti da 58 paesi, la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) degli Stati Uniti ha concluso che il 2014 è stato l’anno più caldo mai registrato. Il direttore dei Centri nazionali di informazione ambientale NOAA Thomas Karl ha avvertito che il cambiamento climatico non solo si registra con la temperatura dell’aria, ma anche con quella sul fondo dell’oceano e dell’atmosfera più esterna. Come risultato di questa situazione ci sono stati 91 cicloni tropicali nel 2014, ben al di sopra della media di 82 tempeste che si sono verificate nel periodo 1981-2010, secondo le conclusioni della NOAA.

Ora tocca ai politici a mostrare la loro dimensione di statisti mondiali. Diplomatici e politici sarebbero responsabili di un fallimento a Parigi, dato che il fallimento non è un’opzione. In questo quadro Obama ha deciso di giocare la sua eredità, oltre che su un avanzamento del sistema sanitario fortemente combattuto dai conservatori su una battaglia efficace per il clima. In una nota del New York Times del 2 Agosto firmata da Coral Davenport e Gardiner Harris e in un video postato su Facebook a mezzanotte dallo stesso presidente, si comunica che gli Stati Uniti intraprenderanno la più forte azione mai presa per combattere le emissioni climalteranti.

Il regolamento, che verrà imposto a tutti gli Stati federali, introdurrà una radicale trasformazione del settore elettrico degli Stati Uniti, favorendo uno spostamento “impetuoso” dall’energia elettrica prodotta con carbone alle energie rinnovabili. Per le centrali esistenti si ridurranno del 32 per cento entro il 2030 le emissioni conteggiate al 2005. La quota di fonti rinnovabili con capacità di generazione di energia nel 2030 sarà superiore del 28 per cento rispetto all’attuale.

Per favorire l’espansione sostitutiva di rinnovabili, l’amministrazione Obama ha anche cambiato la sua proiezione sulla quota del gas naturale nel mix di potenza degli Stati Uniti nel 2020, per evitare quella che sarebbe un “corsa veloce al gas” per allontanarsi dal carbone. Il piano spinge, prima del cambio di combustibile (da carbone a gas), a programmare riduzioni di consumi attraverso l’efficienza energetica e a compensi di potenza con energia naturale (sole, vento, acqua, biomasse). Il piano sarà fondamentale per il contributo degli Stati Uniti per un accordo delle Nazioni Unite per affrontare il cambiamento climatico, in cui l’amministrazione Obama ha annunciato di voler svolgere un ruolo di leadership.

Naturalmente occorrerà vedere la traduzione reale di queste decisioni, quanto ci sia di diplomatica propaganda in vista di Parigi e quanto verrà contrastato dalle lobby dell’energia fossile, già in movimento. Le associazioni del settore e alcuni legislatori di stati come Virginia e Maryland, che hanno contato da sempre su energia da carbone, hanno detto che si sfideranno nelle Corti e attraverso tutte le possibili manovre nel Congresso, accusando l’amministrazione di un assalto normativo che farà salire i prezzi dell’energia. Ma nel piano c’è già una prima risposta: “ridurre la bolletta energetica per le famiglie a basso reddito” di almeno 85 $ e abbattere i costi delle tecnologie energetiche rinnovabili, argomenti da anticipare per gli avversari che sosterranno che il piano sarà troppo costoso.

Il cambiamento climatico non è un problema per un’altra generazione, non più“, ha detto Obama nel video di sabato scorso. L’Enciclica papale rivolge la sua carica all’emergenza di fronte a cui siamo. Il dibattito si allarga con una presa di coscienza sempre più ampia. C’è solo da augurarsi che anche la nostra opinione pubblica non venga ulteriormente distratta (chi parla della Cop 21 a EXPO 2015?) e che una classe dirigente tutta intenta a contendersi e conservare il comando di un vascello alla deriva si accorga da dove provengono le tempeste.

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Il prezzo del petrolio tra Teheran e Parigi

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015E’ passato un anno dall’inatteso crollo delle quotazioni petrolifere che ha portato il prezzo del greggio dal valore di 116,7 dollari al barile di giugno 2014 a quello di 58 dollari di gennaio 2015. Si tratta di una questione fondamentale in una società ed una economia che si sviluppano su una piattaforma energetica in vigore da quasi 200 anni, dato che il capitalismo moderno poggia ancora sul petrolio.

Perché questo crollo? Diverse sono state le interpretazioni, ma due sono stati i fattori decisivi: l’intensità della cosiddetta shale revolution, ossia la rivoluzione dello shale oil americano, oggi in crisi di prospettiva sul medio termine e la decisione saudita, adottata dall’intera Opec, di non limitare le estrazioni ed, in tal modo, di non tentare alcuno sforzo per limitare la riduzione dei prezzi. La storia dei prezzi del greggio è sempre stata caratterizzata da questo problema: riducendo la questione all’osso o ce n’é troppo (prezzo basso) o ce n’è troppo poco (prezzi alti).

Oggi il mercato è caratterizzato da un eccesso di offerta quantificabile in 2 milioni di barili al giorno di troppo. Come conseguenza, i produttori nordamericani di shale sono andati in crisi e nel primo semestre il numero delle perforazioni ha registrato un calo costante, settimana dopo settimana. Va detto che le piccole aziende dello shale oil (parliamo di 13 mila imprese), hanno mostrato una capacità di reazione e di riduzione dei costi imprevista, stimolata dalla natura di questo tipo di attività che richiede continue perforazioni e quindi continui investimenti. I prezzi in caduta hanno certamente bloccato lo sviluppo dello shale oil fuori degli States, mentre all’interno hanno portato a un dimagrimento del settore, ma non ancora ad un crollo (anche se gli analisti del settore vedono nero nel medio-lungo periodo).

In Italia il consumo largamente prevalente del petrolio è nell’autotrazione, perché nella generazione elettrica è residuale (nel 2014 ha assorbito 1,5 milioni di t. sul totale di 57,6). Per gli automobilisti, quindi, non si preannuncia alcun ritorno a nuovi rialzi, ma neppure sono da attendersi significativi ribassi, poiché sui carburanti è applicato un carico fiscale enorme e la materia prima nel 2014 ha contato solo il 30% del prezzo finale del carburante ed è su questa quota residuale che ha effetto il calo delle quotazioni del greggio.

L’accordo sul nucleare con l’Iran, fortemente voluto da Obama per ragioni geopolitiche prima che economiche, rafforza la previsione di una prosecuzione del periodo di ribasso dei prezzi. Infatti, l’aumento dei consumi previsto sarà ampiamente compensato dall’offerta di greggio iraniano che nei prossimi mesi tornerà sul mercato. Teheran ha infatti annunciato l’intenzione di aumentare l’export di 500 mila barili al giorno, per arrivare dopo sei mesi a raddoppiare.

La morale della favola è che in un mondo che ha una capacità produttiva di greggio pari al 13% in più del consumo la rinascita iraniana produrrà un nuovo ribasso, nel contesto di una lotta senza quartiere fra i diversi produttori che continuano a spingere sull’acceleratore delle estrazioni per sopravvivere al calo delle entrate (Iraq ed Arabia saudita stanno producendo a livelli record).

Ma il petrolio a basso costo è un bene? In una economia basata su questa fonte (e sulle “sorelle” fossili) sì, ovviamente, dal punto di vista del denaro e della finanza. E purtroppo il mondo di oggi, nonostante tanto parlare di “energie pulite”, rimane un mondo dove si scava, si estrae e si brucia quello che madre natura ha preparato nel corso dei millenni.

Ma in un mondo meno dipendente dalla combustione l’aria sarebbe diversa, nel vero senso della parola e a questo mondo cerca di volgere lo sguardo la prossima conferenza di Parigi sul clima (COP 21), tentando un accordo per limitare l’aumento medio della temperatura a due gradi, per non rischiare di star male come accade quando la temperatura corporea supera i 39 gradi, come nella stagione attuale anche qui da noi.

L’obiettivo di Parigi è possibile solo se ci si impegnerà a bruciare meno fonti fossili, petrolio e gas in particolare, lasciandole sottoterra o in qualsiasi altro posto si trovino. Quindi il petrolio a basso costo non aiuta a rivoluzionare il settore dei trasporti, dove regna sovrano, e la leva economica non favorirà buone scelte nel campo energetico in generale. Occorre maggior impegno politico (nel senso buono del termine, visto che ormai la sua connotazione risulta negativa) per prendere sul serio la sfida del clima.

L’enciclica del Papa e la battaglia per evitare il disastro climatico hanno quindi un avversario molto potente sul piano dei costi attuariali e delle convenienze a breve termine.
La difficoltà a prendere sul serio questa sfida è legata ad un deterioramento etico e culturale, che accompagna quello ecologico. L’uomo e la donna del mondo postmoderno corrono il rischio permanente di diventare profondamente individualisti, e molti problemi sociali attuali sono da porre in relazione con la ricerca egoistica della soddisfazione immediata, con le crisi dei legami familiari e sociali, con le difficoltà a riconoscere l’altro”.

Ma c’è un momento nella vita di ciascuno di noi, in cui ci si rende conto di avere una responsabilità verso noi stessi e le facce che ci stanno intorno. In quel momento capiamo anche che solo accettando questa responsabilità troveremo un senso alla nostra vita. E’ tempo che collettivamente emerga questa consapevolezza e che quindi all’oro nero sia tolta la sua corona.

a cura di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

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21-22 Luglio: Nuove Rigenerazioni Urbane a Milano

Milano fa i conti con l’abitare sostenibile. Dibattito Pubblico

Informi per stimolare cambiamenti concreti nei comportamenti.
Il ruolo della stampa. Comunicare le buone pratiche fa notizia?
Milano – Triennale 21/22 Luglio 2015

Il ruolo della Stampa nell’informazione

Un mondo dell’informazione in forte contraddizione: da un lato stiamo assistendo all’aumento “esponenziale” dei lettori di giornali online “classici” e dall’altro al declino della carta stampata e delle notizie generaliste.

Se nel passato recente il giornalista si occupava di costruire e confezionare l’informazione facendo da tramite tra la sfera pubblica e i cittadini, oggi tale ruolo sembra venire meno: “tutta colpa” dell’accesso facile al web che ha portato a sua volta alla concorrenza della stampa gratuita, dei siti aggregatori di contenuti come Google News o Yahoo! Notizie e dei social network.

I mezzi di comunicazione di massa, accessibili a un pubblico indefinito, hanno ormai portato a regime il “giornalismo partecipato”: il “citizenreporters”, informatore dal potere aumentato dalle possibilità date dalla Rete, è ormai un collaboratore fisso delle testate giornalistiche (alla faccia di precari e free lance sottopagati). Sono gli stessi “media dominanti”, a chiedere costantemente agli internauti di postare foto, video e commenti su avvenimenti di cui sono testimoni. Perché questo è il modo “più veloce” per rispondere alla “dittatura dell’urgenza” di questo millennio.

Infatti, pare proprio che l’opinione della gente comune abbia iniziato ad avere un certo valore per la comunità, al contrario del passato in cui il sapere era custodito da una cerchia ristretta di professori, professionisti ed esperti. E così l’attenzione dell’opinione pubblica verso il giornalista, prima unico incaricato di riportare i fatti alla luce, in qualche modo si è allentata a favore di una partecipazione attiva al dibattito pubblico.

Nel giornalismo di oggi, c’è una discrasia tra la domanda e l’offerta: meno del 15% di ciò che i giornali pubblicano interessa davvero ai loro lettori. Il crollo della credibilità dei giornali è una delle cause della loro crisi, la loro perdita di centralità nella formazione dell’opinione pubblica. La gente non acquista più i giornali per informarsi. Li acquistano per capire, per mettere a confronto, per analizzare, per esaminare il dritto e il rovescio della realtà.

I lettori continuano a reclamare il loro diritto a una informazione affidabile e di qualità. Ma non si dimentichi l’essenziale: amano leggere delle storie. Il giornalismo non consiste solamente nel fornire delle statistiche, delle cifre e dei fatti, ma nell’elaborare e costruire, a partire da questa materia prima, una narrazione ricca di tutti gli ingredienti – lessicali, retorici, grammatici – delle grandi storie di sempre.

Cosa fa notizia oggi, e tu cosa scegli?

Le Buone pratiche fanno notizia?
Se si vuole si può fare, o far fare, per esempio, un passo avanti lasciando intorno a noi la scia pulita dell’altruismo e della solidarietà. Raccontando anche di una bella Italia, in questo caso di una bella Milano, capace di remare anche controcorrente, spina dorsale di quella società che vuole ricostruire i ponti per una migliore convivenza, senza rassegnarsi alla decadenza di quelli che chiamiamo ancora, senza vergognarcene, valori.

Fare i conti con l’abitare sostenibile a Milano

Vuole rappresentare un modello di diffusione delle idee non governato dalla commercializzazione; si può definire come “un contenuto, una conoscenza prodotta e/o acquisita e messa in condivisione all’interno della comunità non per fini di profitto ma con lo scopo di renderlo disponibile a ulteriori miglioramenti, distribuzione e confronti da parte di altri”. Abitare sostenibile è un tema trasversale di interesse collettivo che facilita il rapporto di comunità tra i cittadini.

Triennale – 21 luglio 2015 ore 14,30/18,30
Dibattito pubblico con i Media Ambientali

Se ne discute con:
Andrea Poggio Vicedirettore generale Legambiente
Andrea Lavorato Vicedirettore Assimpredil Ance
AgimeGerbetiRegulatory Affairs Unit GSE (Gestore Servizi Energetici)
Serena Rugiero Direttore scientifico osservatorio Energia e Innovazione Ires
Gianni Silvestrini Direttore scientifico Quale Energia?
Sergio Ferraris Direttore QualeEnergia, giornalista scientifico
Marco Moro Direttore editoriale di Edizioni Ambiente
Roberto Rizzo Giornalista scientifico
Paolo Hutter Direttore Ecodallecittà
Antonio DisiResp. Unità Tecnica Efficienza Energetica ENEA
Giacomo Lev Mannheimer IBL Istituto Bruno Leoni
Piero Pelizzaro Esperto resilienza Climalia

Moderano: Giovanni Pivetta Responsabile progetto Habitami
Cristiana Ceruti Responsabile Habitami Network
Coordina: Sergio Ferraris Direttore QualeEnergia, giornalista scientifico

Triennale – 22 luglio 2015 ore 10,00/14,30
Dibattito pubblico con i Media di Milano

Andrea Poggio Vicedirettore generale Legambiente
Andrea Lavorato Vicedirettore Assimpredil Ance
Ulrich Klammsteiner Agenzia CasaClima
Leo Spinelli Segretario Sicet Milano
Stefano Chiappelli Segretario Sunia Milano
Maria Berrini Presidente Amat Comune di Milano
Bruno Villavecchia Direttore Direttore Ambiente Energia Amat Milano
Mario Agostinelli, Presidente Energia Felice
Silvio Boccalatte IBL Istituto Bruno Leoni
AgimeGerbetiRegulatory Affairs Unit GSE (Gestore Servizi Energetici)
Serena Rugiero Direttore scientifico osservatorio Energia e Innovazione Ires
Sergio Ferraris Direttore QualeEnergia, giornalista scientifico
Marco Moro Direttore editoriale di Edizioni Ambiente
Roberto Rizzo Giornalista scientifico

Sono stati invitati:
Ass. Claudia Maria Terzi (Regione Lombardia)
Vice Sindaco Ada Lucia De Cesaris (Comune Milano)
Ass. Pierfrancesco Maran (Comune Milano)
Ass. Daniela Benelli (Comune Milano)

Modera: Giovanni Pivetta Responsabile progetto Habitami

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Sull’ambiente Papa Francesco è in fuorigioco come Tsipras in Europa?

dal Blog di Mario Agostinelli

Non deve sfuggire come la nostra stampa abbia sorvolato sulla scomodissima Enciclica “Laudato Si’”. In successione temporale registriamo: uno scoop di anticipo dei contenuti del testo del “papa verde”, con un po’ di irrisione e banalizzazione nelle intestazioni poste a corredo delle citazioni ad opera del vaticanista Sandro Magister dell’Espresso; titoli di spalla sulle prime pagine dei quotidiani per la durata delle prime24 ore; dal giorno immediatamente dopo, spostamento dell’attenzione da una riflessione sconvolgente e articolata in oltre 200 pagine sul degrado della “casa comune” alla diatriba su gay e coppie di fatto, con definitiva metabolizzazione dell’Enciclica nel rullo compressore delle informazioni correnti.

Tutte le emittenti Tv, immancabilmente elettrizzate dalle visite in Vaticano dei premier di turno, nei Tg hanno dato la notizia solo in posizioni arretrate e non si sono affatto premurate di aprire i loro monotoni talk-show a temi come la giustizia sociale e climatica o il destino del pianeta. Insomma, l’Enciclica è stata ridotta ad una mera “curiosità”, un colpo d’ala francescano da considerare fuori dalla mischia che ci viene giornalmente esibita.
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Eppure, è fuor di dubbio che due voci – pur su piani diversi – guardano oggi al futuro con una irriducibilità totale al pensiero unico: Bergoglio e Tsipras. Con una radicalità che mette in imbarazzo i governanti di mezzo mondo e i loro consiglieri che si riuniscono assieme ai Ceo delle multinazionali ai meeting del Bilderberg.

Ascoltare queste voci e quanto sostengono come alternativa possibile è intollerabile per troike, banche, corporation privatizzatrici di beni comuni, governi tecnici e politici obbedienti, che citano numeri e regolette quando si tratta di persone e della loro vita (e morte). Di conseguenza, non devono essere presi sul serio, nemmeno quando le loro indicazioni e le loro battaglie hanno radici popolari e sono sostenute dal mondo scientifico e da quella parte del mondo economico che non si schiaccia sul presente, ma guarda al futuro e alle emergenze da affrontare. Le “truppe” che li potrebbero sostenere vanno messe fuori gioco in anticipo, come se si muovessero su un terreno assolutamente impraticabile, come sta succedendo a quelle di Tsipras che si sono illuse di autorappresentare il loro destino.

Nel caso clamoroso di Francesco – senza voler richiamare la battuta di Stalin su quante truppe avesse il Papa – il tratto eminentemente secolare di una chiamata alle armi per salvare il Pianeta, viene depotenziato come opzione ideologica a cui precludere basi sociali di massa. Eppure l’argomento ha una logica inconfutabile, per credenti e non: nemmeno l’uomo si salva se non si salva il pianeta.

Una presa di posizione così senza mezze misure non può che essere contestata nel campo dei conservatori. John Vidal e Suzanne Goldenberg su The Guardian elencano le opposizioni a partire dagli Stati Uniti, terreno decisivo per lo scontro aperto. John Boehner, leader repubblicano del Congresso, e Rick Santorum, candidato alla Presidenza, cattolici dichiarati e negazionisti sul clima, non hanno tardato ad esprimersi contro. Stephen Moore, un economista cattolico, definisce Francesco “un autentico disastro, parte di un movimento radicale verde anticristiano e anti progresso”. Mentre James Inhofe, il capo della commissione ambiente al Senato americano, ha dichiarato: “Il Papa dovrebbe fare il suo mestiere”. L’American Petroleum Institute, una lobby potentissima ha controbattuto che “l’uso del carbone aiuta i poveri a migliorare le loro condizioni”. Ma la debolezza di questi avversari è quella di appartenere tutti alle lobby sotto accusa quando si parla di responsabilità umana sull’ambiente.

Il Papa, invece, ha dalla sua una strategia di lungo periodo, che non si rivolge solo a 5000 vescovi e ad un miliardo e duecentomila fedeli. Accanto al ghanese Peter Turkson, presidente Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, all’Arcivescovo del Perù Pedro Barreto Jimeno, al cardinale honduregno Oscar Maradiaga, a Neil Thorns, autorevolissimo esponente della diplomazia vaticana e al preside dell’università cattolica di Buenos Aires Agosta Scarel, si stanno muovendo a sostegno autorevolissimi scienziati e riconosciuti economisti. Nessuno può sottovalutare che Ban Ki-moon, presidente Onu e i direttori della Fao e dell’Ipcc hanno espresso apprezzamenti calorosi. Perfino lo speaker repubblicano John Boehner, un cattolico praticante e dichiarato, dà per vinta la partita per Francesco.

E mentre, nonostante l’ostruzionismo di piccolo cabotaggio, verrà “bucata” a più livelli la ribalta dei media, l’Enciclica avrà il suo impatto pubblico massimo nell’incontro del Papa con Obama a settembre e nel suo intervento al Congresso Usa e all’assemblea generale dell’Onu, con l’ambizione non dissimulata di mettere un carico da novanta sullo svolgimento del convegno mondiale sul clima previsto per dicembre a Parigi (Cop 21).

Una partita cruciale a cui la politica locale e internazionale, definita “non all’altezza della sfida” farebbe bene a non sottrarsi. Intanto, tranne pochissime rare eccezioni (proprio ieri Stefano Fassina), continua a macerarsi nelle dinamiche di un potere in allontanamento dalla società.

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