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Gas fossile: il nemico armato del clima

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015In una conversazione privata a conclusione della Cop 21, un dirigente Eni ha previsto in mia presenza che il vero vincitore della conferenza di Parigi sarebbe stato il gas: completamente compatibile con il sistema delle grandi infrastrutture, disponibile in grandi quantità con sempre nuove tecnologie, soggetto alle convenienze geopolitiche delle grandi potenze e alle attenzioni politiche dei produttori di armi, meno osteggiato del petrolio e del carbone per i suoi effetti sulle emissioni climalteranti. Insomma, un utile compromesso per gli enormi interessi minacciati dalle rinnovabili e per mascherare l’urgenza di un cambio radicale di paradigma energetico: la decarbonizzazione innanzitutto.

A distanza di un anno e mezzo, quella previsione è più che confermata e il ritardo nel contenere gli aumenti di temperatura è reso più drammatico, pressoché inarrivabile, ma non esecrato quanto occorrerebbe per l’indifferenza dell’opinione pubblica. Il gas irragionevolmente si impone come la soluzione competitiva che l’economia mondiale (con l’eccezione parziale di Cina, India e Francia) e le multinazionali industriali e dei servizi stanno scegliendo per esternalizzare i costi della catastrofe della biosfera e abbindolare le popolazioni con il mito del ritorno alla crescita, accompagnata dalla riduzione delle tariffe e delle tasse sulle persone fisiche (il prezzo del gas viene tenuto basso, la sua diffusione non è accompagnata da misure di prevenzione private e pubbliche degli effetti nocivi e i danni climatici si abbattono non in generale, ma, per ora, prevalentemente sugli sfortunati più direttamente colpiti).

Dopo gli accordi per non andare oltre l’aumento di 1,5° C, solo il gas – naturale, liquefatto, da scisto, da sabbie bituminose – avanza, in un’autentica guerra commerciale e militare, per prendere tempo fino al 2023, quando i firmatari di Parigi dovranno sottostare a vincoli e verifiche più stringenti. E intanto, a tutto gas!

Se disegnassimo sulle carte geografiche i progetti di gasdotti e le rotte delle navi metaniere avremmo lo stesso effetto delle avanzate delle divisioni in tempo di guerra. I progetti mastodontici fioccano e l’Italia è tra i protagonisti sul fronte della messa in opera e della fornitura di sbocchi. Qualsiasi mare si debba valicare, eccoci pronti: Adriatico (Tap), Mar Nero (Blue Stream), Mar Caspio (Trans Caspian) per contendere alla Polonia, alla Germania e al centro del continente l’occasione dell’ “hub” del gas fossile europeo.

Ma c’è un altro fronte della guerra in corso che complica le strategie. Il gas liquefatto in partenza e poi rigassificato in arrivo, può viaggiare via mare, essere immesso in cisterne a bassa temperatura dai giacimenti naturali del Qatar, come dai giacimenti di sisto e dalle sabbie bituminose, dopo essere stato trasportato sulle coste americane dai gasdotti cui Trump oggi dà il via libera.

“È l’inizio della guerra dei prezzi tra il gasolio americano e il gas di condotta che viene da oriente”, ha dichiarato Thierry Bros, analista di Société générale, citato dal Wsj. Gli analisti dicono che la Russia potrebbe tagliare i prezzi che addebita ai propri clienti europei per cercare di scacciare i nuovi concorrenti statunitensi. Anche se più caro, molti in Europa vedono l’ingresso del gas liquido degli Stati Uniti sul mercato come parte di un più ampio sforzo geopolitico per sfidare il dominio russo delle forniture e mettere in crisi il rapporto Putin-Merkel per la costruzione della condotta North Stream 2 nel Baltico.

E infatti lo scatto americano non si è fatto attendere. A marzo, erano già stati consegnati i primi carichi di shale gas al Brasile, con successive spedizioni verso l’Asia. Il 21 aprile il Wall Street Journal aveva informato che una nave metaniera portava per la prima volta gas liquido americano in Europa. Poi le notizie si sono intensificate: il Guardian informa che 27.500 metri cubi di shale gas sono arrivati in Norvegia.

Trump, nel suo discorso a Varsavia ha voluto mandare un chiaro messaggio alla Russia. “Siamo seduti su una grande quantità di energia fossile ed ora siamo esportatori di energia, quindi, se qualcuno di voi ha bisogno di energia, basta che ci dia una telefonata”, così, secondo la trascrizione del suo discorso diffuso dalla Casa Bianca.

Il terminal nel Mar Baltico di Swnoujscie, dove la Polonia già accoglie Gnl dal Qatar, sarà ampliato e l’allestimento di terminali per il gas americano nei Paesi Baltici sono la risposta al sollecito, mentre si affaccia in concorrenza anche l’Egitto dopo la scoperta da parte dell’Eni di notevoli giacimenti nel Mediterraneo. Così, tutti corrono – un giorno sì e un giorno no – ai terminali del Golfo del Messico, alla corte del Qatar, alle stanze sontuose degli sceicchi arabi o di Al Sisi, dimenticandosi ogni volta di Regeni.

C’è infine la schizofrenia statunitense verso i produttori di gas del Golfo. Dopo l’anatema di Trump e dell’Arabia Saudita verso il Qatar, tre giganti energetici (Exxon, Bp e Total) dichiarano il loro sostegno al piano di Doha di aumentare del 30% la produzione entro il 2024. E Washington diventa mediatrice di una lotta di puri interessi, tutti con la puzza del gas, altro che inebriati da essenze religiose.

D’altra parte, come ha detto alla Reuters il funzionario di una delle compagnie coinvolte: “C’è solo una politica qui: si devono fare scelte puramente economiche. Essere qatariota in Qatar e emiratino negli Emirati”. Non c’è solo Trump a sparare sul clima.

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Clima: fuori Trump è meglio

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Sdrammatizziamo una delle operazioni più grette in animo a Trump: il ritiro dall’accordo sul clima di Parigi, con il conseguente abbandono del summit da parte del suo ministro, incaricato di presenziare al G7 Ambiente di Bologna. Giustamente, la posizione sul clima del presidente americano crea scandalo, ma le reazioni non si stanno facendo attendere. Si stanno creando legami finanziari e industriali tra potenze che hanno un sostegno reale da parte dei popoli e dei movimenti e che, contestando il ritiro della firma Usa a Parigi, ritengono ormai chiusa la parabola del sistema energetico già oggi in profonda crisi e trasformazione. Perfino nella fida Inghilterra conservatrice, si è costituita Conversation Uk, che riceve finanziamenti da fondazioni e imprese innovative, nonché l’adesione di sessantacinque membri dell’università. Secondo questo trust, la saggezza convenzionale per cui gli Stati Uniti dovrebbero rimanere nell’ambito dell’accordo di Parigi è un abbaglio. Un ritiro Usa sarebbe il miglior risultato per l’azione sul clima internazionale e si dovrebbero accettare realisticamente le conseguenze dell’isolamento a cui vanno incontro come un danno politico per loro assai più rilevante che per i Paesi che mantengono fede agli impegni.

Gli stessi aiutanti del presidente Usa sono divisi sulla questione. Il capo strategico Steve Bannon incita la fazione negazionista spingendo per un’uscita. Il Segretario di Stato e l’ex direttore esecutivo di Exxon Mobil, Rex Tillerson, sostengono invece che gli Stati Uniti dovrebbero mantenere una “sedia al tavolo”. È nel potere del presidente ritirarsi dall’accordo di Parigi e forse anche dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfcc), che ha guidato la diplomazia globale del clima per oltre 25 anni. Effettivamente, un ritiro statunitense minimizzerebbe i rischi e massimizzerebbe le opportunità per la comunità climatica. In poche parole: l’amministrazione Usa e Trump possono fare più danni all’interno dell’accordo che al di fuori di esso.

Ci sono quattro rischi legati alla partecipazione statunitense all’accordo di Parigi:

  1. gli Stati Uniti mancheranno il loro obiettivo di emissioni;
  2. mineranno gli aiuti finanziari ai Paesi poveri;
  3. provocheranno un effetto “domino” tra altre nazioni;
  4. ostacoleranno i negoziati delle Nazioni Unite.

I primi due rischi non sono conseguenza del ritiro in sé: l’accordo di Parigi non richiede che gli Stati Uniti soddisfino il loro attuale impegno per la riduzione delle emissioni, né per offrire ulteriori finanziamenti climatici ai paesi in via di sviluppo. L’accordo è procedurale, piuttosto che vincolante; richiede un nuovo e più forte impegno per il clima ogni cinque anni, ma non è obbligatorio centrare questi obiettivi.

Gli Stati Uniti guidati dall’attuale governo mancheranno probabilmente il loro obiettivo climatico indipendentemente dal ritiro della firma. Avrebbero bisogno anche di più del piano di energia pulita varato da Obama per ridurre le emissioni del 26-28% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025. Le emissioni statunitensi con il “fossilofilo” Trump sono destinate ad aumentare fino al 2025, piuttosto che diminuire. Lo stesso vale per i finanziamenti internazionali in materia di clima, che saranno tagliati nel piano di bilancio America First. Già avrebbero dovuto fornire 3 miliardi di dollari ma hanno finora stornato solo 1 miliardo. Il rimanente non verrà mai.

Il terzo rischio è l’effetto domino: le azioni statunitensi dentro l’accordo potrebbero ispirare altri governi a ritardare l’azione per il clima. In altre parole, rinunciare ai propri obiettivi o ritirarsi. Ma ci sono poche prove che suggeriscono che l’abbandono statunitense indurrà altre nazioni a seguirne l’esempio. Il parallelo storico più vicino è il Protocollo di Kyoto, che gli Stati Uniti hanno firmato ma non hanno mai ratificato. Quando il presidente George W. Bush annunciò che gli Stati Uniti non avrebbero ratificato il trattato, gli altri Paesi si sono riuniti a sostegno del protocollo e hanno spinto gli accordi di Marrakech nel 2001 per rafforzare le norme di Kyoto. Quello che più probabilmente provoca un effetto domino è il comportamento “domestico” degli Stati Uniti, piuttosto che qualsiasi possibile ritiro dall’accordo di Parigi.

Il rischio peggiore è che gli Stati Uniti agiscano come freno nei colloqui internazionali sul clima proprio mantenendo la loro adesione. Se gli Stati Uniti restano nell’accordo, conserveranno una funzione di veto nei negoziati o potrebbero sovraccaricare i negoziati chiedendo modifiche alle verifiche previste nel 2018, come ha già suggerito il segretario dell’energia Rick Perry. In questa luce, dare all’ex capo di Exxon Mobil una “sedia al tavolo” è un’idea mefitica.

Un ritiro statunitense, d’altra parte, potrebbe creare nuove opportunità, come la rinnovata leadership europea e cinese. Sulla scia delle elezioni statunitensi del 2016, l’ex candidato presidenziale francese Nicholas Sarkozy ha sollevato l’idea di applicare un’imposta sul carbonio del 1-3% sulle importazioni statunitensi. La Cina, l’Unione europea e l’India – che sono i più grandi emittenti di co2, insieme agli Stati Uniti, hanno annunciato che resteranno impegnati nell’accordo di Parigi in caso di uscita americana. Anche Gentiloni ha timidamente confermato. Ciò suggerisce che il consenso internazionale sulla lotta contro il cambiamento climatico attraverso l’accordo rimarrà intatto.

In questa fase, non è chiaro quale strategia seguirà l’amministrazione di Trump per uscire dall’accordo di Parigi. Tuttavia, riteniamo che sia improbabile che una rinegoziazione dell’accordo in linea con le intenzioni della Casa Bianca possa avere successo. In realtà, il ritiro ha già avuto un responso insieme critico e sprezzante: Macron ha corretto lo slogan Make greater America in Make greater our planet, segno di un diffuso sentire che giunge dai popoli in disaccordo con la vacuità degli obbiettivi sovranisti.

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Quale strategia energetica nazionale

a cura di Roberto Meregalli

Il governo è al lavoro sulla nuova strategia energetica nazionale (SEN); il ministro Calenda ha spiegato nell’audizione parlamentare di inizio marzo che la “vecchia” SEN va aggiornata “a seguito delle profonde trasformazioni economiche ed in particolare del mercato energetico occorse negli ultimi quattro anni”.

Secondo Calenda la SEN 2017 sarà uno strumento per tre obiettivi:

  • Individuare le principali scelte strategiche in campo energetico, in connessione anche ai nuovi obiettivi europei del Clean Energy Package e traguardando obiettivi di sicurezza e economicità.
  • Definire le priorità di azione ed indirizzare le scelte di allocazione delle risorse nazionali.
  • Gestire il ruolo chiave del settore energetico come abilitatore della crescita sostenibile del Paese.

La prima bozza era stata annunciata per il G7 sull’energia, svoltosi il 9 e 10 aprile a Roma, ma così non è stato, si attende quindi il 27 aprile quando in audizione parlamentare il governo dovrebbe presentare le prime slides, cui dovrebbe seguire una consultazione pubblica. Parallelamente però il governo sembra intenzionato a varare un decreto legge in cui rendere operative alcune indicazioni, in particolare in tema di sconti agli energivori, le industrie che consumano più energia.

Un primo e non secondario problema è infatti capire come rendere significativa questa nuova strategia, visto il fallimento della precedente. Va ricordato che la “vecchia” nacque per giustificare il ritorno al nucleare e fu l’allora ministro Scajola a inserirla in un decreto legge (il 112/2008). Ma l’incidente di Fukushima e il referendum fecero saltare tutto e la legge 133 che aveva recepito il decreto venne “smontata” con l’abrogazione dell’articolo 7 e dell’art. 5 comma 8, cosicché la SEN si trovò orfana di qualsiasi riferimento legislativo e relegata ad “atto di indirizzo”. Atto di indirizzo a cui non è seguita alcuna pianificazione; come qualcuno ha argutamente detto: “alle slides non è seguito nulla”.

La SEN 2013

Comunque sia andata a finire, la SEN 2013 aveva come primo pilastro la competitività, come secondo l’ambiente, come terzo la sicurezza e come conseguenza dei tre sarebbe dovuta derivare crescita economica.

A ben guardare dal 2013 ad oggi nessuno dei tre obiettivi ha fatto passi avanti perché anche se oggi si continua a ripetere che il nostro Paese ha già raggiunto gli obiettivi europei stabiliti per il 2020 (il famoso pacchetto 20-20-20), si tratta di un risultato pregresso, negli ultimi tre anni di passi avanti ne sono stati fatti pochi, anzi nel settore elettrico siamo in ritirata. Basti confrontare la quota di elettricità generata dalle rinnovabili nei primi due mesi di quest’anno con i tre anni precedenti, dal 32,9% siamo scesi al 27,4%:

La vecchia SEN del resto metteva molta più enfasi sul progetto di fare l’Italia un hub del gas che sullo sviluppo delle rinnovabili che era sempre citato solo unitamente al termine “sostenibile” inteso in senso economico.

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Energia, non solo una partita tra Enel e Eni, tra Starace e Calenda

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Il nuovo amministratore delegato dell’Enel Francesco Starace, in una audizione al Senato nell’ottobre del 2014 (l’audizione si tenne il 15 ottobre) sostenne che Enel doveva chiudere senza esitazioni ben 25 mila MW di centrali termoelettriche a seguito di un eccesso di offerta di elettricità, il calo dei consumi, l’aumento della generazione rinnovabile. Interessante notare che il suo predecessore, Fulvio Conti, in una audizione in senato, solo due mesi prima (il 26 marzo 2014), non aveva fatto alcun accenno a future dismissioni. Il processo prevede il confronto con tutti i soggetti presenti sui territori interessati. Si profila così la opportunità di un nuovo paradigma per l’energia che comprenda prodotti e servizi per l’efficienza energetica, la gestione intelligente dei consumi e soluzioni per la mobilità sostenibile.

Per Montalto di Castro (3300 MW) e Porto Tolle (2640 MW), due “monumenti” dello sviluppo delle fonti fossili in Italia, sono da tempo aperti i bandi e, con essi, un’occasione importante di decarbonizzazione. Visto il numero di impianti coinvolti non sarebbe fuori luogo una riflessione di livello nazionale, in particolare per considerare i possibili effetti sull’occupazione.

Il piano Futur-e rappresenta una “provocazione” che il governo non ha ancora osato proporre a livello nazionale. Si pensi alla Sen varata dall’ex ministro Passera focalizzata sul gas e pure alle indicazioni dell’attuale ministro Calenda rilasciate prima della bocciatura del referendum costituzionale, assai poco orientate allo sviluppo delle rinnovabili.

Sono anni che il nostro Paese si trova in una situazione di fragilità delle reti e sovracapacità produttiva, con un numero di centrali termoelettriche sovradimensionato, frutto degli effetti del cosiddetto decreto “Sblocca Centrali” del 2002, per cui nell’arco di un decennio (2003/2012), sono stati autorizzati cicli combinati a gas per oltre 30GW.

Il piano di chiusura di 25 mila megawatt di centrali a olio combustibile, carbone e gas va nella direzione di migliorare il quadro elettrico nazionale, chiudendo impianti obsoleti, poco efficienti. e con output nocivi e sollecitando un aggiornamento della rete che sostenga la produzione distribuita e consenta lo stoccaggio. Ridurre l’inquinamento dell’aria di cui si parla molto – in particolare nel bacino della pianura Padana – in questo inverno scarso di precipitazioni significa ridurre progressivamente la combustione in tutti i settori, compreso quello della generazione elettrica.

Vista la novità della posizione Enel e a fronte della chiusura di 25 mila MW di termoelettrico, abbiamo – anche sul piano temporale – la straordinaria occasione di esigere e co-progettare adesso la contropartita rilanciando la generazione da rinnovabili, la valorizzazione dei bilanci e dei piani energetici territoriali, l’efficienza degli edifici e la rivoluzione del sistema della mobilità. A quanto trapela dalle stanze ministeriali, non sembra che questo sia l’approccio con cui il Governo e il ministro Calenda, ispirati dal miraggio Eni di fare del Pese l’hub europeo del gas, intendano varare la Sen, Strategia Energetica Nazionale.

Enel invece chiude impianti improduttivi, perché è più redditizia la gestione delle reti e delle vendite; quindi la capacità installata termo (in Italia e fuori) continuerà a ridursi e si prevede che scenda a 36,5 GW nel 2019: gli scenari della compagnia prevedono ricavi da nuove attività legate alla vendita di dispositivi per l’efficienza energetica, alla mobilità elettrica e a nuovi servizi ancora da definire. Proprio sulla mobilità elettrica il governo è fortemente latitante e sembra ignorare i benefici effetti sulla qualità dell’aria nei centri urbani.

Tornando alle centrali del progetto Futur-e, riteniamo che si debba chiedere una partecipazione attiva ma non per evitarne la chiusura ma per trovare, nei vari territori, soluzioni che siano compatibili con una politica di creazione di posti di lavoro e di miglioramento ambientale. Vanno evitate soluzioni speculative che prevedano nuove colate di cemento, va studiato ogni singolo territorio per scoprirne le risorse e sostituire impianti inquinanti con imprese capaci di coniugare lavoro e risorse naturali. E’ tempo di porsi su posizioni innovative e non di mera difesa del passato. Il quadro dell’energia è cambiato e servono attori che possano confrontarsi con imprese e governo con una visione ampia a sufficienza da contenere occupazione, benessere ambientale per l’intera popolazione e riqualificazione della politica industriale.

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Liguria e Genova nel mirino della procedura europea di infrazione per inquinamento

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Anche Liguria e Genova finiscono nel mirino della procedura europea di infrazione per livelli troppo elevati di inquinamento. A questa notizia si aggiunge l’incidenza di malattie e decessi non distribuiti con regolarità sul territorio comunale: nelle periferie, infatti, si registra una percentuale di tumori molto più alta di quella dei quartieri abitati da persone più abbienti.

Di fronte a questa situazione le maggioranze che governano la Regione e il Comune sono inerti. La Regione Liguria non finanzia da anni l’anagrafe delle emissioni che è ferma al 2011. I dati non aggiornati dimostrano che per gli ossidi di azoto e le polveri sottili (principali fonti in merito alle quali scatterà la pesante multa della Ue) proviene da attività portuali e aeroportuali. Situazione che non ha subito una modifica sostanziale se non nel periodo in cui la centrale Enel in Porto è stata chiusa e che ora si vorrebbe addirittura riavviare.

Di fatto le misure elaborate dalla giunta Doria per limitare l’inquinamento a Genova, non solo non sono mai entrate in vigore, ma si sono concentrate sulla circolazione di motori vetusti: problema certamente da affrontare, ma che riguarda solo marginalmente il problema dell’inquinamento. La stessa ordinanza della Civica Amministrazione al riguardo ammette che le misure contenute non avrebbero avuto riflessi consistenti su porto, aeroporto, traffico autostradale e extraurbano, e tanto meno sui cantieri di Grandi Opere.

Le incongruenze non finiscono qui: il Seap (Piano d’Azione Strategico per l’Energia) del Comune di Genova affronta solo marginalmente il tema del trasporto pubblico e contempla – catalogandolo come intervento per la riduzione dei gas serra – la costruzione di un gassificatore alternativo agli inceneritori. Peccato però che tutti gli ultimi piani industriali per la gestione dei rifiuti non prevedano mai la chiusura del ciclo attraverso un gassificatore…. La situazione, oltre che grave in sé per la salute dei cittadini, è talmente oltre limite da venire sanzionata e drammatizzata da una multa europea.

Anzi, proprio in relazione al ciclo dei rifiuti si è svolto il 7 febbraio un drammatico consiglio comunale che ha bocciato la proposta di fusione tra Iren Ambiente (multiutility interregionale) e Amiu (agenzia dei rifiuti comunale) che avrebbe avuto come conseguenza la privatizzazione di quest’ultima e l’implicita destinazione dei rifiuti genovesi agli inceneritori di Parma e Reggio gestiti da Iren.
Marco Doria ha minacciato le sue dimissioni: un errore che speriamo non venga messo in atto, dato che coprirebbe in tal modo un gioco che per primo dovrebbe rifiutare. Privatizzazioni e inceneritori sembrano l’arma che le multiutility ex pubbliche sfoderano di fronte alla crisi dei cicli energetici e ambientali una volta controllati dalle amministrazioni sul territorio. E’ il caso anche di A2A in Lombardia, sempre più avviata a consolidare “termovalorizzatori” e teleriscaldamento in contraddizione con la raccolta differenziata e l’abbandono dei combustibili fossili.

In qualità di ufficiale sanitario del governo, di sindaco di Genova, di presidente della Città Metropolitana, è urgente che Doria indichi un tavolo permanente e partecipato per affrontare in termini globali il problema, e sulla base di risultati e proposte chieda con forza interventi straordinari governativi, oltre ad adottare misure urgenti (come ad esempio bloccare lo stillicidio di eliminazione di corsie riservate per i bus) e mettere in campo tutte le ordinanze necessarie a migliorare la qualità dell’aria (ma anche dell’acqua e del suolo) a tutela della salute degli abitanti.

C’è poi una disorganizzazione tipica della sovrapposizione degli enti locali nell’attuale incertezza di ruoli dovuti alla soppressione alquanto caotica delle Province. Per conto proprio, la neonata Città Metropolitana fornisce dati provenienti dalle sue centraline di monitoraggio, spesso posizionate per accertare solo le emissioni stradali e non quelle delle industrie e dell’attività del Porto. Una palese inefficienza, che si aggrava nel momento in cui vengono messi in mobilità 19 dipendenti della ex-polizia provinciale, sguarnendo pesantemente l’attività di controllo ambientale.

Purtroppo questa è una situazione che non riguarda solo la Liguria, ma tutte le aree italiane affette da un inquinamento strutturale, che proprio in questa stagione si fa più tragico.

E’ urgente una decisa conversione ecologica e sociale dell’economia, che stenta non solo a partire, ma anche ad essere presa in considerazione dalla politica e dalle amministrazioni. Finanziare, aiutare produzioni di energia non inquinanti, sviluppare una città dove le ricchezze (e i ritmi di vita) vengano sottoposti a redistribuzione è un sogno che era perfino delineato nel piano energetico presentato a Bruxelles dalla città di mare. Genova, tra i progetti esaminati, risultò la metropoli italiana più attenta ad affrontare una difficile eredità di polo industriale, al punto di meritare il premio per il Seap migliore d’Italia.

Ma senza un inventario aggiornato delle fonti di inquinamento e un piano di azione scandito da priorità e da coinvolgimento pieno della popolazione, dei lavoratori e dei soggetti responsabili, i buoni propositi non si realizzano mai e rimangono sulla carta.

di Mario Agostinelli e Antonio Bruno

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