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La Cop30 di Belem segnerà il passaggio della leadership ambientale dall’Occidente a Cina e Brics

L’appuntamento della Cop 30 di Belem non sembra incidere nel dibattito politico aperto nel nostro paese. Eppure, la crisi climatica va peggiorando, mentre cresce la distanza tra un’opinione pubblica allarmata e governi irresponsabili nei confronti delle loro popolazioni. L’Italia del governo Meloni porterà in Amazzonia una posizione sostanzialmente negazionista a giustificazione del suo ritardo sugli obbiettivi assunti precedentemente a livello internazionale. Mentre su indicazione di Trump arretra il Green Deal europeo, è la Premier in persona a definire “ideologica” la sostenibilità ambientale, mentre corre in aiuto dell’industria continentale dell’automotive per tenere in vita motori endotermici – magari alimentati a biocarburanti – e sostiene le importazioni del gas liquido di Trump e Milei infrangendo l’obiettivo di emissioni climatiche zero al 2040.

La Cop di novembre a Belem, alla foce del Rio delle Amazzoni, ha un alto valore simbolico e va contestualizzata come un appuntamento rilevante per l’attenzione alla biosfera e al protagonismo dell’emisfero Sud del Pianeta. Anche per questa ragione sarebbe rilevante una visione che superi il vecchio colonialismo dell’Occidente ricco, tutt’altro che esorcizzato dalle lobby energetiche che combattono le rinnovabili.

I segnali più recenti che provengono dalla natura sono drammatici. La devastazione lasciata dall’uragano Melissa in Giamaica e nella parte orientale di Cuba, con venti di quasi 300 chilometri orari, non è stata frutto del caso o di un capriccio meteorologico eccezionale. Il fenomeno della rapida intensificazione dei cicloni sta diventando sempre più comune nei Caraibi, e c’è una spiegazione nell’effetto del riscaldamento globale. Effetto riscontrabile anche in Europa, dove la temperatura media ha già superato la soglia di1,5°C e già in questa estate ondate di calore ed eventi estremi sono costati 43 miliardi di euro, di cui 12 all’Italia.

Per l’imminente Cop 30, al contrario dell’involuzione che matura negli Usa, in Italia ed Ue, il continente africano si va preparando ad un ruolo meno dipendente dai Paesi ricchi. Invece di continuare ad aspettare gli aiuti, l’Africa sta cercando di mobilitare investimenti nella sua transizione verde perché può così aiutare il mondo ad affrontare il cambiamento climatico.

Il successo di questo sforzo originale, adottato all’Africa climate summit di Addis Abeba, richiederà progressi su quattro fronti, tutti in agenda per il confronto che si aprirà a Belem. Il primo riguarda il costo del capitale, per cui è essenziale una riforma sistemica, con la creazione di una nuova architettura finanziaria a guida africana che ne riduca il costo. Il secondo si rivolge ai mercati del carbonio, in un contesto che, anziché fornire compensazioni a basso costo per le emissioni di attori esterni con scarsi benefici per la sua popolazione, promuova un mercato del carbonio integrato, regolamentato dagli africani. Il terzo si rivolge all’adattamento, da integrare nelle politiche industriali locali, poiché gli investimenti in agricoltura, infrastrutture e sistemi idrici resilienti al clima generano posti di lavoro, promuovono l’innovazione e stimolano l’integrazione dei mercati. Infine, i minerali essenziali di cui il continente è ricchissimo andranno integrati in catene del valore nel continente. L’Africa potrà così evitare la “maledizione delle risorse” e garantire che la sua ricchezza di minerali essenziali generi posti di lavoro e industrie locali.

In definitiva, la logica estrattiva del passato – in cui l’industrializzazione si basava sullo sfruttamento e sulla distruzione – deve cedere il passo a un approccio più olistico, giusto ed equilibrato, che riconosca che gli esseri umani appartengono alla natura, non il contrario.

Su un altro fronte, sempre estraneo all’Occidente, è probabile che, a seguito dell’abbandono dell’accordo di Parigi da parte di Trump, al ripensamento del Green Deal da parte della von der Leyen, ai passi indietro dell’Italia, l’attenzione per un esito non drammatico della Cop 30 di Belem passi ai Paesi Brics ed in particolare, a Brasile e Cina ed ai loro differenti approcci alla transizione energetica. Di fronte ad un primo cittadino americano che ha descritto il clima come “la più grande truffa mai perpetrata nel mondo” ed ha attaccato le rinnovabili come un “scherzo patetico”, il leader cinese Xi Jinping ha replicato: “La transizione verde e a basse emissioni di carbonio è la tendenza del nostro tempo. Mentre alcuni paesi si stanno muovendo contro di essa, la comunità internazionale dovrebbe rimanere concentrata sulla giusta direzione”. Una contrapposizione di non poco conto, largamente trascurata dal nostro mainstream, che si affanna a trascurare come l’evoluzione delle emissioni di anidride carbonica del comparto energetico cinese siano già diminuite del 3% nella prima metà del 2025 e come nel primo semestre del 2025 la Cina abbia installato 12 volte più potenza solare rispetto agli Usa.

La Cop 30 di Belem segnerà probabilmente il passaggio della leadership ambientale dal mondo occidentale a Cina e Brics, accompagnato da un risveglio africano: un cambiamento che può dare un risalto internazionale alla Cop 30 che qui da noi non si intende sottolineare.

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Nucleare, il piano del governo accentra i poteri e ignora i territori: serve un dibattito pubblico

Sta passando in una relativa indifferenza del mondo politico e in una acritica adesione di quello dell’informazione uno sforzo della destra al governo ben più meritevole di attenzione: si tratta del disegno di legge delega sul nucleare sostenibile, approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 ottobre 2025, che mira a creare un quadro giuridico e operativo per il ritorno della produzione di energia nucleare nel nostro Paese dopo i due referendum del 1987 e 2011.

L’impostazione è fortemente lesiva di principi costituzionali in vigore, mal sopportati da una compagine di centrodestra che infrange le regole con un piglio di arroganza pari alla sottovalutazione di un’opinione pubblica democratica non ancora avvertita, se non addirittura distratta.

La normativa presentata dal ministro Pichetto Fratin mira a creare un quadro giuridico e operativo per la produzione di energia nucleare, concentrando i poteri decisionali nelle mani dello Stato, escludendo Regioni e Comuni e promuovendo un modello economico basato sul rischio d’impresa. Nel disegno di legge delega, in una inedita centralizzazione dei poteri, il Ministero dell’Ambiente assume il controllo delle autorizzazioni e dell’attuazione dei progetti nucleari, superando eventuali ostacoli locali. È perfino previsto un titolo abilitativo unico calato dall’alto che include varianti urbanistiche, dichiarazioni di pubblica utilità e vincoli per l’esproprio.

Saranno gli operatori privati, con un accesso alla finanza pubblica, ad essere responsabili di tutti gli oneri economici e ambientali, inclusa la disattivazione degli impianti e la gestione dei rifiuti radioattivi, senza costi per lo Stato. Il nucleare – definito “sostenibile e parte del processo di decarbonizzazione” – sarebbe sostenuto da “campagne informative nazionali e consultazioni capillari per le popolazioni interessate, integrate nei procedimenti autorizzativi”.

Entro il 2027 dovrebbe essere definito il Programma Nazionale con la società Nuclitalia – costituita da Enel, Ansaldo Energia e Leonardo – “a coordinare la filiera italiana delle tecnologie di nuova generazione”.

E’ di recente uscito in nuova edizione il libro Lo stato atomico di Robert Jungk, che denuncia i pericoli dell’energia nucleare e l’ideologia della deterrenza atomica: il suo contenuto è di grande attualità e appropriatezza se lo si applica all’incauta sortita in corso da parte della lobby nucleare. L’autore descrive l’energia nucleare come una forza che ha introdotto una nuova dimensione di violenza, capace di minacciare non solo gli avversari militari, ma anche i cittadini comuni.

L’autore sottolinea che l’energia nucleare, sia civile che militare, è intrinsecamente ostile alla vita e comporta rischi che non possono essere completamente eliminati. La sua diffusione richiede segretezza, sorveglianza e controllo e misure di sicurezza straordinarie, che spesso sfociano in restrizioni alla libertà e alla partecipazione democratica. E’ questa la dimensione che va richiamata a fronte di un’incauta ripresa di una politica energetica nazionale che svolta senza un adeguato dibattito dalle rinnovabili verso l’atomo e il consolidamento dell’apporto del gas.

Si tratta di passare da energie rinnovabili e decentralizzate, che rispettano l’ambiente e la giustizia sociale, ad una crescente centralizzazione del potere, nonché da fonti disponibili sul territorio ad una dipendenza da tecnologie pericolose per la convivenza e la salute di generazioni.

Si dirà che, in fondo, i nuovi reattori Smr e Asr sono solo complementari – accessori – alle energie dolci e decentrate di sole, acqua e vento, ma una analisi del modello di governo ostentato dal ddl approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 ottobre 2025 chiarisce che non c’è compatibilità tra una “via morbida” che si ispira all’ecologia integrale e decentralizza il potere e una “via dura” che favorisce la crescita economica a scapito dell’ambiente e della partecipazione. Vie certamente contrastanti e di non scontato pari gradimento per la compagine di governo in carica.

D’altra parte, non è un mistero che l’attuale amministrazione americana del presidente Trump ci vorrebbe acquirenti del gas trasportato dalle sue metaniere e delle tecnologie dell’atomo in rilancio negli States, anziché autonomi e liberi dai balzelli e dai dazi che ci andrebbero imposti.

Ci si dirà: in fondo le ragioni dei referendum del 1987 e 2011 sono ormai superate. Proprio no, come ho già cercato di argomentare in precedenti post. Non siamo assolutamente di fronte a tecnologie sicure, né a costi vantaggiosi per la finanza pubblica e le bollette dei consumatori, né a tempi compatibili con la crisi climatica. Ma piuttosto di una valutazione sommaria e di un dibattito carente, ben vengano le critiche e una discussione franca, all’altezza della fase che attraversiamo e che non consente affatto di imboccare qualsiasi strada a cuor leggero.

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Non si può parlare di ritorno al nucleare ignorando l’esito dei referendum passati: è una questione di metodo

È curioso, per non dire contraddittorio, che un governo che si proclama vicino al popolo ignori apertamente le indicazioni espresse in uno degli strumenti più alti della sovranità democratica: il referendum. Ancora più discutibile è l’insistenza del ministro Pichetto Fratin nel decantare le presunte virtù salvifiche del ritorno al nucleare, mentre l’Italia resta ancorata al gas e il governo continua a voltare le spalle alle rinnovabili, in un atteggiamento che sa di negazionismo energetico.

In debito di un esteso dibattito politico e pubblico sulle implicazioni delle scelte nazionali sulla transizione energetica, provo qui ad avanzare alcune obiezioni di fondo sulla scorrettezza politica e la discutibilità giuridica di un processo che avanza con l’appoggio delle lobby energetiche e confindustriali, sospinto dal governo e in particolare dal ministro dell’Ambiente. Metto a confronto due evidenze che parlano da sole: da un lato, le dichiarazioni sempre più disinvolte e coordinate di esponenti delle Regioni e del governo a favore dell’atomo; dall’altro, la volontà popolare degli italiani, chiaramente espressa che, fino a prova contraria, resta ferma nella sua opposizione agli impianti di fissione.

Senza particolare clamore né reazioni da parte dell’opinione pubblica, negli ultimi mesi il presidente della Regione Lombardia e il ministro dell’Ambiente hanno sottoscritto accordi di cooperazione sul nucleare con interlocutori internazionali di primo piano: rispettivamente con Rafael Grossi, direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, e con il Segretario all’Interno degli Stati Uniti, Doug Burgum. Si tratta di atti ufficiali, presentati alla stampa come iniziative per “rafforzare la cooperazione in materia di sicurezza energetica”, ma che nella sostanza mirano a riaprire la strada al nucleare di nuova generazione, definito “sicuro e sostenibile”. Pur non avendo valore vincolante né carattere legislativo, questi accordi assumono un peso politico significativo, soprattutto perché vengono promossi in assenza di un mandato popolare e in contrasto con quanto espresso dai cittadini nei referendum del 1987 e del 2011.

Il quadro di riferimento in cui si inquadrano queste iniziative è un ddl approvato a maggioranza della Conferenza Unificata delle Regioni e non ancora approdato in Parlamento. Un progetto che ambisce a disciplinare l’intero ciclo di vita dell’uranio: dalla ricerca alla costruzione degli impianti, fino allo smantellamento e alla gestione dei rifiuti, senza alcun riferimento ai vincoli posti dall’esito referendario.

L’attivismo del governo è evidente e si dispiega ovunque, tranne che nelle sedi istituzionalmente dedicate al confronto e a un dibattito pubblico aperto. In quelle sedi opportune si dovrebbe tener conto di un macigno sulla strada che Pichetto Fratin percorre nelle occasioni a lui più congeniali, ostentando dati e orientamenti, come i costi, i tempi e la sostenibilità dell’operazione da lui promossa, ampiamente contestabili: l’esito dei referendum antinucleari. Il referendum nel 1987 dopo Cernobyl ha avuto una affluenza del 65.12%: 80,57% Sì 14,96% No. Il referendum nel 2011 dopo Fukushima ha avuto una affluenza del 54,79%: 94,05 Sì, 5,95% No.

Sul piano dei contenuti, l’ultimo referendum del 2011 ha abrogato due commi di legge relativi al nucleare:
– Art. 7, comma 1, lettera d) del DL 25/6/2008: “Realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare”;
– Art. 10, comma 5 della Legge 23/7/2009, n. 99: “Ripresa del programma nucleare nazionale”.

Un ostacolo così chiaramente delineato può essere superato solo attraverso un nuovo ricorso al referendum e non basta affermare la “sostenibilità” o la “sicurezza” delle moderne tecnologie dei reattori e del ciclo fissile dell’uranio. Come è possibile allora varare un programma che contempla non solo il lancio sotto nuove forme di impianti della stessa generazione precedente (Smr – Small Modular Reactors) ma, addirittura, l’obiettivo di una quota dall’11 al 22% dell’atomo nel mix energetico al 2050?

Mi piacerebbe si dimostrasse che il nuovo nucleare è improvvisamente diventato sostenibile per l’ambiente e la vita e che il rischio d’incidente e il lascito delle scorie sono sostanzialmente diversi da quelli bocciati. Ad oggi la tecnologia dei circa 100 Smr necessari per raggiungere gli obiettivi indicati da Pichetto Fratin non cambia la sostanza giuridica: abbiamo a che fare con impianti nucleari nel senso pieno del termine.

In precedenti occasioni ho già affrontato su questo blog questioni specifiche che si ricollegano ai ragionamenti qui abbozzati, a partire dalle previsioni su tempi e costi e dalla scommessa su sicurezza, flessibilità, economicità e autonomia energetica, nonché dalla gestione delle scorie radioattive. Questa volta sollevo una questione di metodo, prima ancora che di merito: non è in discussione il diritto del Parlamento di legiferare, ma il dovere delle istituzioni di rispettare la volontà popolare, soprattutto quando è stata espressa in modo inequivocabile e democratico, attraverso strumenti come il referendum. Ignorarla non significa esercitare la sovranità, ma svuotarla.

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Nella giornata internazionale contro i test nucleari, bisogna puntare a uno stop definitivo all’arma atomica

Il 29 agosto è la Giornata internazionale contro i test nucleari. La data serve a ricordare che la lotta contro i test nucleari rimane uno sforzo continuo, nonostante l’esistenza del Trattato sulla messa al bando totale dei test nucleari (CTBT) che deve ancora essere ratificato a livello globale.

La giornata è stata istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2009 per commemorare la chiusura del sito di test nucleari di Semipalatinsk in Kazakistan, avvenuta il 29 agosto 1991.

In effetti, la storia dei test sulle armi nucleari è una catena di episodi sconvolgenti. Dal 1945 ne sono stati effettuati oltre duemila, incontrando l’opposizione sia dei civili che dei governi locali laddove venivano impunemente effettuati. Il primo ordigno nucleare fu fatto detonare dagli Stati Uniti nel sito di Trinity, nel New Mexico, il 16 luglio 1945, a compimento del famoso “progetto Manhattan”, con una potenza approssimativamente equivalente a 20 kilotoni di trinitotoluolo TNT.

L’arma nucleare più potente mai testata ad oggi è la Bomba Zar dell’Unione Sovietica, fatta esplodere a Novaja Zemlja il 30 ottobre 1961, con una potenza stimata tra i 50 e i 58 megatoni (quasi tremila volte il test di Trinity, che ha anticipato la distruzione di Hiroshima e Nagasaki nel 1945).

Nella memoria collettiva rimangono le terrificanti esplosioni statunitensi dal 1946 al 1958 nell’atollo di Bikini nel Pacifico (ancor oggi richiamato alla mente dal costume da bagno considerato audace e rivoluzionario per i suoi tempi in “omaggio” ad una improvvida idea di esplosione e shock). Test organizzati per studiare gli effetti delle armi nucleari su navi da guerra: eventi che generarono enormi nuvole di vapor d’acqua radioattiva, che contaminarono le imbarcazioni ivi ancorate. La questione dei diritti dei popoli indigeni delle Isole Marshall (a contatto con le deflagrazioni di Bikini) e della giustizia per i danni inflitti ai loro territori è divenuta in seguito una questione centrale nei dibattiti sui test nucleari, che avevano non solo messo in pericolo l’ambiente marino, ma anche compromesso la vita delle popolazioni locali, costrette ad abbandonare le loro terre e a rinunciare alla loro cultura.

Dall’altra parte del mondo, l’Unione Sovietica, il 29 agosto 1949, effettuò la sua prima esplosione nucleare – nome in codice “Primo Fulmine” – presso il sito di test di Semipalatinsk, nel Kazakistan orientale. I testimoni ricordano di aver sentito il terreno tremare e di aver visto il cielo tingersi di rosso, sovrastato da una peculiare nuvola a forma di fungo. Il personale militare e scientifico sovietico che conduceva il test sapeva che la pioggia e il vento avrebbero reso la popolazione locale più vulnerabile alle ricadute radioattive. Ma all’epoca, le autorità ignorarono le conseguenze anteponendo ad esse gli obiettivi militari e politici.

Nei successivi 40 anni, un simile compromesso sarebbe diventato fin troppo familiare a coloro che vivevano nel sito dei test e nei dintorni. In totale, l’Unione Sovietica condusse 456 test nucleari a Semipalatinsk (340 sotterranei e 116 in superficie). Nel 1991, il presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbayev chiuse ufficialmente il sito e ordinò che venissero forniti assistenza medica e risarcimenti ai colpiti dai test. Anni di ricadute radioattive e l’effettiva entità dei danni inflitti a Semipalatinsk continua ad essere oggetto di numerose ricerche e dibattiti. Oggi, con amarezza, la gente del posto nota di non essere stata altro che una cavia in un esperimento scellerato.

Ma non ci furono solo test americani e russi. In particolare, la Francia esplose 17 test atmosferici (in particolare nel Sahara) e ben 210 sotterranei, mentre i britannici sono ricordati per 21 test atmosferici e 45 sotterranei, e per una grande esplosione della potenza di circa 3,8 megatoni, avvenuta il 28 aprile 1958 nelle Isole Christmas, nell’Oceano Indiano.

Ad oggi purtroppo c’è la mancata ratifica del CTBT da parte di nove Stati (Cina, Corea, Egitto, India, Iran, Israele, Pakistan, Federazione Russa e Stati Uniti). Nonostante non sia entrato in vigore, il CTBT ha istituito una forte norma di riferimento internazionale, spingendo verso una moratoria di fatto sui test nucleari.

Ricordando l’impatto negativo dello sviluppo di questi ordigni inumani sulle comunità che sono vissute nelle vicinanze dei luoghi di queste esplosioni, durante l’ultima riunione degli Stati firmatari si è deciso di esaminare la possibilità di creare un fondo fiduciario internazionale per fornire risorse per l’assistenza alle vittime e la bonifica ambientale.

Oggi occorre andare oltre: promuovere un mondo libero da armi nucleari rilanciando il CTBT e, contemporaneamente, andando al rinnovo del trattato New Start, che limita il numero di testate nucleari strategiche, dato che la sua scadenza, di cui hanno cominciato a discutere Trump e Putin ad Anchorage, minaccia di riportare il mondo ad una corsa incontrollata.

Dalla celebrazione del 29 agosto viene l’impulso ad una rinnovata tensione per la definitiva proibizione dell’arma atomica. Una tensione che è anche un’importante occasione per riflettere su uno dei temi più critici del nostro tempo: la pace e la sicurezza globale, che si battono anche combattendo il riarmo come destino dell’Europa. Gli obiettivi di questa giornata non sono quindi solo simbolici, ma riflettono e richiedono un impegno concreto per un mondo libero dalla minaccia delle armi nucleari e delle guerre.

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Un nucleare nella valigia per le vacanze

 

Come consueto è alla vigilia delle ferie che chi comanda accelera i tempi. Così ormai su giornali a tiratura nazionale si fa propaganda per il rilancio del nucleare perchè “il futuro è ora” , come titola Repubblica “in collaborazione” con il ministero dell’Ambiente ed Energia. Qui una nota per confutare le mirabolanti promesse che seppellirebbero l’esito di due referendum vinti dai cittadini italiani. Roba solo da pre-Agosto? E se l’opposizione battesse un colpo?


Mario Agostinelli
e-mail: agostinelli.mario@gmail.com
blog: www.marioagostinelli.it
www.energiafelice.it

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