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Pnrr, altro che transizione ecologica: le cabine di regia aumentano il disincanto verso la politica

Cambiamento reale e contrasto alla partecipazione. Solo cinque anni fa un grande movimento contribuiva a sospingere l’ambientalismo verso un profilo non ancora praticato a livello di massa: connettere la questione sociale alla sopravvivenza di tutto il vivente e rimettere in discussione la crescita come asse portante di un’economia demolitrice della natura e predatrice dei beni comuni. L’assunzione di responsabilità diretta delle nuove generazioni – studenti in particolare – nei confronti del degrado irreversibile della biosfera e l’invito della Laudato Sì – rivolta non solo ai fedeli – a riconoscere nell’ingiustizia sociale un legame indissolubile con la crisi climatica sembravano aver messo le ali ad una coscienza ambientale più aderente alle emergenze in corso, ma anche più sconvolgente per gli assetti politici in atto.

Il nostro Paese un lustro prima di Greta e Francesco si era già riconosciuto in una fase nuova, con la vittoria schiacciante al referendum popolare su acqua e nucleare. C’è allora da chiedersi quale stacco sia avvenuto tra quegli elettori, i cortei studenteschi del 2019, il messaggio potente di un venerdì piovoso in piazza San Pietro e le comunicazioni criptiche sulle “cabine di regia”, da cui dovrebbe scaturire la “riforma” e la ricostruzione di un Paese smarrito nella sua rappresentanza.

Lo scarto dovrebbe inquietare, dacché è stato preparato da un negazionismo caparbio e sapientemente articolato nelle sue manifestazioni. Si è trattato di un ostinato impegno a depotenziare la democrazia e a far sì che le autonomie territoriali, il mondo del lavoro e le gioventù del pianeta non avessero voce nella partita aperta, consegnata ai miracoli delle tecnocrazie. Il cambiamento evocato sembra tornare in mani che non prendono le distanze da quelle che ci hanno precipitato nell’emergenza attuale. Credo perciò che si debba in tutti i modi impedire una autentica restaurazione della coscienza ambientale diffusa che avviene in odore di mistificazione “verde”, che punta a far confluire prevalentemente sul sistema delle imprese un fiume di risorse pubbliche, frettolosamente vagliate da “cabine di regia” in cui nessuna dialettica dal basso trova spazio.

La delega ad una cerchia fidata e garantita solo dall’autorevolezza di Draghi non può far altro che alimentare il disincanto della popolazione verso la politica e, soprattutto, non risponde affatto alla mobilitazione che si registra in continui appuntamenti in rete e nei territori. Una partecipazione permanente della società civile, che è cresciuta e si è fatta più matura durante l’esperienza della pandemia, non può essere elusa.

Acqua e decarbonizzazione. Sono queste le due lenti che fanno da cartina di tornasole per la durabilità e la discontinuità del cambiamento. Parto da una prima considerazione: l’acqua va conservata nella sua rinnovabilità come parte del ciclo delle nuove energie e della stessa produzione di idrogeno verde, anziché sprecata nelle turbine e nelle caldaie alimentate a metano o in funzione di una mobilità invariata, seppure con motori elettrici. In buona sostanza, c’è da chiedersi quale sia il consumo e il risparmio di acqua e la sua distribuzione e accessibilità in funzione di un sistema energetico che valga per il Nord e per il Sud del mondo, che curi la salute del Pianeta e, insieme, assicuri giustizia sociale.

Per avere un’idea di quanto il bene acqua sia trascurato negli scenari in uso alle tecnocrazie, si consideri lo studio dell’ufficio parlamentare francese per le nuove tecnologie che ritiene necessari 400 reattori nucleari da 1 GW per produrre l’idrogeno previsto dai Paesi OCSE al 2050. Ovvero, sulla base dell’acqua che circolerebbe nelle centrali a fissione nel mondo, un consumo di 12 milioni di litri al secondo! Da dove prelevare un volume simile e come rimetterlo in circolo nella fragilissima pellicola che avvolge la Terra? Certamente è d’obbligo ottenere idrogeno verde dalle rinnovabili, ma, anche in questo caso, i metalli incorporati nelle nuove infrastrutture terranno conto di una escavazione che inquina masse d’acqua sempre maggiori? E non dimentichiamoci che molti metalli si trovano incistati in fossili che dobbiamo tenere sottoterra, se non vogliamo che la loro combustione dissemini di polveri dannose l’atmosfera.

In definitiva, tutti i cicli che prendiamo in considerazione dovrebbero per lo meno assicurare il massimo di riproducibilità e il minimo di entropia per l’ambiente in cui si completano: niente risulta più evidente all’esperienza umana del degrado dell’acqua e dell’effetto dei fumi che inquinano i laghi, i mari, l’atmosfera. Senza una diminuzione dei flussi di materia e di energia impiegati nei cicli produttivi, il sistema economico non riuscirà mai a rientrare in una traiettoria di compatibilità con l’ambiente, a meno che si cambino i consumi e le pratiche sociali.

C’è sentore di tutto ciò nel Pnrr e nel dibattito in corso, al di fuori delle associazioni e dei territori più avvertiti? Se si lascia decidere cosa, come e quanto produrre alle libere forze economiche di mercato non vi sarà nessuna transizione ecologica, ma solo un inseguimento senza fine della crescita del fabbisogno di nuova energia (fosse anche tutta da “fonti rinnovabili”), dello spreco insostenibile di acqua e di estrazione di materiali sempre più rari e critici.

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Rinnovabili, l’impatto della transizione è troppo caro? Cambiare consumi e stili di vita è cruciale

Il rapporto di sintesi NDC della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici dello scorso 26 febbraio afferma che il prossimo decennio, 2020-2030, sarà cruciale per il futuro dell’umanità. In attesa della COP26 di Glasgow nel novembre 2021 sono stati infatti registrati gli obiettivi di stabilizzazione dell’aumento della temperatura media globale cui ciascun Stato avrebbe dovuto contribuire “pro quota” per non oltrepassare il limite di 1,5°C. L’accordo di Parigi del 2015, infatti, lascia nelle mani degli Stati/Parti la decisione sulle riduzioni delle emissioni da effettuare per raggiungere l’obiettivo sopra menzionato e che si quantificano nei cosiddetti “Contributi Determinati a livello Nazionale” (NDC) da confermare ogni cinque anni.

Con estrema preoccupazione, si è rilevato che – stanti gli esigui livelli stimati di riduzione di CHG tra il 2015 e il 2020, la previsione di riduzione da qui al 2030 dovrà essere di ben 55 GtCO2eq. Entro la fine del 2020, erano stati aggiornati solo 48 NDC, che rappresentano 75 Stati/Parti responsabili di circa il 30% delle emissioni globali di gas serra. Su questo primo rilevamento la riduzione delle emissioni rispetto al 2015 è risultata di un misero 2,8%.

La situazione è estremamente scoraggiante e l’Italia con il suo attuale piano energetico rientra in queste sconsolanti dimensioni, puntando anch’essa furbescamente alla cosiddetta “neutralità del carbonio” a metà del secolo, piuttosto che intraprendere un’ambiziosa mitigazione già nel prossimo decennio. Senza raggiungere gli obbiettivi posti dal Green New Deal europeo, saremmo tra i responsabili della esposizione della totalità degli ecosistemi del pianeta a condizioni mai registrate durante il periodo geologico in cui la nostra specie si è sviluppata.

Di ciò si rende conto anche Federico Fubini che, nell’articolo del Corriere della Sera del 10 maggio, si chiede se ci sia piena coscienza della sfida cui siamo tenuti e della profondità delle trasformazioni che ci attendono con l’abbandono dei fossili.

Trovo molto appropriata la sua riflessione sulla “distrazione” degli italiani al riguardo ma continua a sorprendermi come praticamente tutto il mondo dell’economia e della politica non riesca a liberarsi di un assioma: qualunque trasformazione produttiva e degli stili di vita diventi necessaria, non può contare su una diminuzione del Pil, destinato immancabilmente a crescere per garantire occupazione, ripresa ed esorcizzare ogni emergenza futura. Inoltre – altro assioma – il mantenimento dello stile di vita in corso va preservato.

Va da sé che le potenze ed i consumi energetici continuerebbero a espandersi: “Come potremmo – argomenta il giornalista – azzerare i settemila chili di carbonio che ogni italiano emette nell’atmosfera ogni anno? Solo e soltanto con 70 GWatt di energie rinnovabili, equivalenti ad una cinquantina di centrali nucleari come quelle francesi, tappezzando di pannelli solari oltre 200 mila ettari, quasi il 2% della superficie coltivata in Italia e piantando pale eoliche letteralmente ovunque, compromettendo un paesaggio secolare e la risorsa del turismo?”. E’ chiaro l’avvertimento: riconosco che il tempo per evitare la catastrofe stia venendo a mancare, ma “perché allora rinunciare al sequestro del carbonio o all’idrogeno prodotto anche da gas naturale, per non parlare di una dose di nucleare nel mix complessivo?”.

I numeri forniti nell’articolo del Corriere sono un tantino esagerati anche a parità di consumo (oggi si può avere 1,5 MW per ettaro da fotovoltaico e la prospettiva di pale eoliche da oltre 4 MW si colloca off-shore, fuori cioè dalla vista da riva), ma nemmeno troppo se il sistema rimane inalterato. Oltretutto, si sottovaluta che si tratta di fonti di energia funzionanti senza emissioni climalteranti, in continua evoluzione e specificatamente decentrate, oltre che pianificabili con accumuli che ne migliorano il rendimento discontinuo. Già questo basterebbe a farne d’obbligo la tecnologia sostitutiva dei fossili. Ma non basta: occorre puntare alla sufficienza elettrica e riorganizzare una struttura ottimizzata per fonti diffuse e con un risparmio netto a parità di benefici resi.

Non c’è invece alcuna soluzione consolatoria se si continua a consumare e produrre come abbiamo imparato dal sistema centralizzato del carbone, del petrolio e del gas, sprecando nella combustione, ostacolando la creazione e la condivisione comunitaria dei sistemi energetici, organizzando una mobilità fatta di veicoli proprietari che stanno in coda, programmando cicli di vita che accelerano la trasformazione di prodotti in scarti e facendo degli allevamenti intensivi e dell’agricoltura una sorgente di inquinanti e, infine, illudendoci che il ricorso al metano non ci riservasse la minaccia più grande a breve per il riscaldamento del pianeta.

Trovo certamente di rilievo che un giornalista come Fubini ci spinga a riflettere su un futuro prossimo in cui le scelte si rifletteranno immediatamente sugli stessi stili di vita e sul nostro rapporto con la natura, il paesaggio, l’intero vivente. Ma non c’è continuità praticabile, se si persegue davvero l’equilibrio climatico ed una maggiore giustizia sociale. Molte e incalzanti sono le novità con cui misurarsi e a cui ci sottopone una scienza sempre più allarmata della sopravvivenza. A questo punto, vorrei fare riferimento ad un recentissimo studio patrocinato dall’UNEP che rivela che, se l’anidride carbonica ha un ruolo fondamentale nel riscaldamento globale, nondimeno il metano (CH4), con un potenziale di riscaldamento molto più alto della CO2 (di ben 28 volte considerando un orizzonte temporale di 100 anni), merita altrettanta attenzione. Anzi, nel breve periodo (i primi venti anni) ancora maggiore attenzione, se si vuole stare nei limiti di temperatura di 1,5°C. Ogni giorno di più ci accorgiamo che la sindemia è un avvertimento per un cambio di passo irreversibile. Proprio questo cambio accelerato andrebbe favorito dai fondi Next Generation.

Per andare a casi concreti, penso, ad esempio, all’insistenza di Enel sull’impiego del metano nella centrale di Civitavecchia, dove le articolazioni istituzionali, civili, sindacali – perfino religiose – hanno provato a far lievitare dal basso un modello di fornitura e consumo elettrici non più incatenati ai fossili, per ritrovarsi poi, nelle tabelle del PNRR, poste di bilancio deludenti, che confermano i fumi da combustione che hanno afflitto da oltre settant’anni la città e il litorale laziale e con accenni solo irrisori all’eolico off-shore, o all’accumulo in pompaggi o idrogeno verde, che aprirebbero spazi occupazionali, con una specializzazione manifatturiera ed una logistica portuale di pregio in un territorio che per il suo futuro ha scelto il passaggio desiderabile all’energia del sole, del vento, dell’acqua.

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Una transizione ecologica integrale non ha alternative

di Mario Agostinelli e Alfiero Grandi

La prima presentazione del Pnrr italiano fatta dal governo Conte 2 si era sostanzialmente arenata su tre aspetti.

Primo, l’uso di parte consistente dei fondi (oltre un terzo) per interventi che avrebbero sostituito finanziamenti già previsti in precedenza dal bilancio dello Stato, diminuendo così l’impatto per il rilancio occupazionale, sociale ed economico degli interventi straordinari previsti dal Next Generation Eu della Commissione Europea.

Secondo, una gestione farraginosa, con la previsione del coinvolgimento di centinaia di tecnici, con decisioni sull’uso delle risorse in gran parte esterna alle sedi politiche naturali e cioè Governo, Regioni, Comuni. Una sorta di circolazione istituzionale extracorporea e questo ovviamente non garantiva la necessaria trasparenza delle decisioni di spesa.

Terzo, la raccolta di progetti già pronti di grandi aziende che pensavano di avere trovato finalmente la fonte per finanziare progetti di vario tipo, alcuni probabilmente utili, altri discutibili e forse negativi soprattutto per le conseguenze ambientali.

E’ evidente che se raccogli i progetti esistenti, anche selezionandoli, è difficile dare una forza politica ed economica alle scelte pubbliche. Mentre occorreva partire dai 6 capitoli e in particolare dalla transizione ambientale che è certamente il capitolo che più di ogni altro può aiutare a rendere compatibile lo sviluppo con l’ambiente, a innovare tecnologie e settori produttivi, a qualificare ed estendere una nuova occupazione di qualità.

Draghi nel discorso alle Camere è sembrato consapevole dell’esigenza di mettere l’accento sulle novità, a partire dal 37% delle risorse destinato all’Italia per la transizione ecologica. Nessuna delega in bianco. Il Governo va sfidato ad essere coerente e in particolare ad esserlo i Ministri che sono preposti ad organizzare le scelte. Per ora non siamo al caro amico ma nemmeno al merito delle scelte, eppure i Ministeri stanno lavorando e a fine aprile Draghi riferirà in parlamento sulle scelte definitive che il governo proporrà alla Commissione Europea.

Per questo il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Laudato Sii, NOstra hanno elaborato un documento che verrà presentato il 17 aprile in videoconferenza, già disponibile sui siti delle associazioni, che vuole contribuire a scegliere con nettezza. A proporre un’idea di futuro.
Se le aspettative sui risultati del piano straordinario debbono rimettere in moto l’occupazione e l’economia dell’Italia – e debbono farlo con una forte impronta innovativa sull’ambiente, sulla ricerca, sull’innovazione – le scelte non possono che essere coraggiose e nette. E’ un’occasione unica.

Cambiare e dare ragione a tutti è impossibile, occorrono dei Sì e dei No chiari e netti. Ad esempio raggiungere gli obiettivi di cessazione dell’uso del carbone e dei combustibili fossili ha bisogno di tempo, ma proprio per questo richiede di partire subito, di scegliere con coraggio ed impegno le fonti energetiche alternative. I tempi sono definiti, ad esempio entro il 2025 il carbone deve cessare di essere utilizzato, ma non è saggio proporre di continuare sotto altre forme l’uso dei combustibili fossili, come il gas per produrre energia elettrica: finiremmo con l’entrare in contraddizione con gli obiettivi europei.

Sono già disponibili modalità di produzione energetica rinnovabile, combinata dall’estensione dell’uso delle rinnovabili disponibili, compreso l’eolico offshore, con sistemi di accumulazione e produzione di idrogeno da fonti rinnovabili. Certo anche la rete fondata su grandi impianti va ripensata per consentire di usufruire di una produzione diffusa nel territorio, anche incentivando l’autoconsumo.

Le dichiarazioni che stanno facendo esponenti importanti di aziende, anche a partecipazione pubblica, puntano a rinviare le scelte nel tempo, sembrano non rendersi conto che questo non solo avrebbe conseguenze sul clima, che continuerebbe nel frattempo a peggiorare, ma creerebbe un nodo irrisolvibile rinviando le scadenze previste per evitare il superamento dei limiti che possono contenere il cambiamento del clima. Colpiscono le parole di Giunti di Enipower, che ha dichiarato che per decarbonizzare (come se avessimo la possibilità di non farlo) occorrono idrogeno, cattura del CO2 e fusione nucleare: con questo schema non rispetteremo i vincoli, neppure al 2050.

Infatti prendendo la palla al balzo l’Associazione italiana per il nucleare propone il nucleare da fissione come premessa da usare per arrivare (un giorno, forse) a quello da fusione. In altre parole è in corso un attacco sistematico per farsi dare i soldi del Pnrr senza cambiare la sostanza di quanto fatto sin qui e mantenendo pressoché invariate le scelte. Quindi non solo ci sono resistenze a togliere benefici incompatibili con l’ambiente, contraddittori con il finanziamento di un cambio di paradigma, ma si tenta anche di mantenere in vita fino al limite di rottura le scelte previste.

Anche in Europa in verità qualcosa non va. Il nucleare gode di un forte rilancio da parte di un gruppo di paesi, Francia in testa, per ottenere l’equiparazione del nucleare da fissione con le rinnovabili (per avere i quattrini) e candidarlo ad essere la fonte energetica per produrre idrogeno. E’ quanto di più vecchio si possa immaginare, ma è grave che il centro studi che lavora per la Commissione Europea abbia proposto di considerare il nucleare alla stregua del fotovoltaico e la stessa descrizione dei depositi di scorie come sicuri serve solo – mentendo – a giustificare la scelta del nucleare da fissione.

L’Italia deve farsi sentire e bloccare questa deriva europea, non basta che ci sia il diritto per i singoli paesi a non investire nel nucleare da fissione, ci mancherebbe altro. Occorre impedire alla Commissione di scivolare sul nucleare e a quanto pare anche sugli Ogm. Occorre che entrino in campo con forza le rappresentanze dei lavoratori. Questo scontro, per ora attutito da tecnicismi velati, ha bisogno dei sindacati e dei lavoratori che rappresentano.

In un futuro di scelte ambientali radicali ci sono spazi enormi per la ricerca, per investimenti innovativi, per la crescita di occupazione di qualità, in grado di compensare la caduta in altri settori. In passato troppe volte gli interessi dei lavoratori sono sembrati in contrasto con l’ambiente e le conseguenze sono state drammatiche per la vita delle popolazioni e per i lavoratori interessati, costretti in una ridotta difensiva, a volte perfino corporativa. La ferita dell’Ilva, che non ha salvato né il lavoro né l’ambiente, è ancora aperta, non è risolta e deve essere un impegno prioritario.

Oggi una piattaforma netta può consentire di realizzare una nuova alleanza tra lavoro ed ambiente, in cui le condizioni di vita, la salute siano coerenti con una nuova prospettiva occupazionale. Studi hanno dimostrato che un altro futuro non è solo necessario ma possibile, anzi indispensabile. Già in passato il mondo del lavoro ha portato avanti obiettivi generali, basta pensare al sistema sanitario nazionale e di welfare. Oggi c’è una nuova fase e una nuova possibilità, per certi versi un obbligo, che è sperabile sia compresa e raccolta per evitare che il nodo degli interessi e delle rendite di posizione che vogliono conservare la situazione esistente prevalga.

Per questo il modo migliore di mettere alla prova le vere intenzioni del nuovo governo è entrare in campo, avanzare proposte, sviluppare iniziative. Per questo le associazioni hanno scritto un documento con proposte nette, forse radicali, con l’obiettivo di discuterle, di aiutare la creazione di movimenti e risposte all’altezza della sfida.

Parafrasando, si potrebbe dire che la transizione ecologica è un compito troppo importante per lasciarlo al solo governo, meglio “accompagnarlo” e per maggiore sicurezza meglio prendere le iniziative necessarie.

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Fukushima, dieci anni dopo si rischia di superare i danni di Chernobyl

In occasione dell’anniversario del disastro nucleare di Fukushima, Greenpeace Giappone ha ripreso un’indagine nella quale accusava il governo giapponese di aver violato i diritti umani dei cittadini e in particolare di lavoratori e bambini. Purtroppo, quella che viene considerata la più complessa crisi nucleare dopo Chernobyl (1986) non cessa di allarmare. Stando alle ultime stime, ancora oggi i livelli di radiazione, sia nelle zone di esclusione che nelle aree aperte, sarebbero altissimi, da 5 a oltre 100 volte più alti del limite massimo raccomandato. Ma non solo: questi livelli rimarranno tali ancora per decenni. La catastrofe è nota: i tre noccioli del reattore si fusero, liberando gas di idrogeno e rilasciando nell’ambiente grandi quantità di materiale radioattivo.

I valori di radioattività ancor oggi rilevati sarebbero così alti che se un lavoratore lavorasse lì per otto ore al giorno durante un intero anno, potrebbe ricevere una dose equivalente a più di cento radiografie del torace.

Lo sfruttamento dei lavoratori è molto diffuso, compreso il reclutamento di persone svantaggiate e senzatetto, che non hanno alcuna formazione in materia di radioprotezione. Ci sarebbero enormi accumuli di materiale radioattivo, in particolare il cesio, intrappolati nelle sabbie e nelle acque sotterranee fino a 96 chilometri circa di distanza dalle coste giapponesi. Per di più, grandi pozze di acqua contaminata per l’effetto collaterale della misura di emergenza di versare enormi quantità di acqua nei reattori e nelle loro piscine di combustibile nucleare esaurito per raffreddarli, sono penetrate nell’Oceano Pacifico.

Usa news e Nature del 19 febbraio informano che i livelli dell’acqua di raffreddamento sono diminuiti in due reattori della centrale nucleare distrutta, da quando un potente terremoto ha colpito l’area lo scorso fine settimana, indicando possibili danni aggiuntivi. Si teme che dal Giappone si possa scaricare un milione di tonnellate di acqua radioattiva nell’Oceano Pacifico. Nuovi danni, quindi, potrebbero complicare ulteriormente il già difficile processo di disattivazione dell’impianto, che dovrebbe richiedere decenni.

Il portavoce della Tokyo Electric Power Co. Keisuke Matsuo ha detto che il calo del livello dell’acqua nei reattori delle Unità 1 e 3 indica che i danni esistenti alle loro camere di contenimento primarie sono stati aggravati dal terremoto di magnitudo 7.3, che, oltre ad aver innescato frane, danneggiato case e una linea ferroviaria ad alta velocità, ha permesso la fuoriuscita di più acqua, che La Tepco dovrà monitorare sul fondo dei vasi di contenimento, seguendone l’aumento eventuale di temperatura.

Dal disastro del 2011, l’acqua di raffreddamento è costantemente fuoriuscita dai vasi di contenimento primari danneggiati negli scantinati degli edifici del reattore. Per compensare la perdita, è stata pompata ulteriore acqua nei reattori per raffreddare il combustibile fuso rimanente al loro interno. Il recente calo dei livelli dell’acqua indica che sta fuoriuscendo più acqua di prima.

L’aumento delle perdite potrebbe richiedere il pompaggio di ulteriore acqua di raffreddamento nei reattori, il che si tradurrebbe in più acqua contaminata che viene trattata e immagazzinata in enormi serbatoi presso l’impianto. L’intenzione di rilasciarla gradualmente in mare ha incontrato una feroce opposizione da parte dei residenti locali.

Nel frattempo, l’Alta Corte di Tokyo ha ritenuto il governo e la Tepco responsabili del disastro nucleare del 2011, ordinando a entrambi di pagare circa 280 milioni di yen (2,6 milioni di dollari) a titolo di risarcimento per i loro mezzi di sussistenza e le case perdute a più di 40 querelanti costretti a evacuare a Chiba, vicino a Tokyo.

E’ frequente una sottovalutazione dell’incidente di Fukushima rispetto a quello di Chernobyl, La scala internazionale di valutazione degli incidenti nucleari e radiologici Ines (International Nuclear Event Scale) classifica avvenimenti rilevanti per la sicurezza negli impianti nucleari su una scala da 1 a 7. L’incidente di Chernobyl del 26 aprile 1986 è stato a lungo l’unico attribuito al livello 7, il più elevato. Ma anche l’incidente nella centrale nucleare di Fukushima-Daiichi dell’11 marzo 2011 è stato dalle autorità competenti recentemente attribuito al livello INES 7. Si impone quindi un confronto tra i due avvenimenti, mentre sorprende lo scarso clamore attribuito alla fusione del reattore giapponese.

Seppure la radioattività sparsa finora nell’isola di Honshū è pari solo al 10% di quella emessa da Chernobyl, si stima che nel lungo periodo possa superarla. L’incidente di Chernobyl fu esacerbato dal fatto che bruciò anche la grafite usata come moderatore nella fissione, provocando una diffusione delle particelle radioattive fino a migliaia di chilometri di distanza. A Fukushima invece non era impiegata la grafite, ma i problemi più minacciosi si sono rivelati con la diffusione di stronzio radioattivo nel raggio di 30 chilometri dal reattore, mentre a più lungo termine si teme una vasta contaminazione del Pacifico.

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Abbiamo trent’anni per diventare ‘carbon neutral’. Ma senza trucchi!

Il nuovo target europeo al 2030, 55% di riduzione delle emissioni climalteranti, comporterà un deciso innalzamento della produzione da rinnovabili. In Italia, la generazione “Next e Green” dovrebbe arrivare a soddisfare oltre due terzi dei consumi elettrici con energie rinnovabili entro soli 10 anni. Per quanto riguarda la potenza solare, a fine decennio dovremmo arrivare ad una settantina di GW (anziché i 52 previsti dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, Pniec) e per l’eolico ad almeno 5 GW in più rispetto a quelli indicati dallo stesso Piano.

Intanto, forte di una politica aziendale che impone ai governi le proprie scelte, l’Eni ha presentato il suo programma, che contempla che al 2025 il gruppo aumenti la sua produzione di idrocarburi, anche se sposterà il peso sul gas, che nel 2024 costituirà il 55% circa delle riserve, contro il 50% attuale.

Ovunque e in simile emergenza climatica si considererebbe questa una provocazione, ma l’insistenza sui fossili ci viene spacciata per un trend salutare. Infatti, afferma l’Ad Claudio Descalzi, “il metano (non dice idrogeno o pompaggi! nda) costituirà un importante sostegno alle fonti intermittenti nell’ambito della transizione energetica”, mentre nella strategia di medio periodo la produzione di gas raggiungerà quella petrolifera tra il 2030 e il 2040, per arrivare al 90% del totale al 2050). E la decarbonizzazione? A metano?

Si tenga conto che il preoccupante aumento della concentrazione in atmosfera di CH4, dovuto alle perdite per estrazione, distribuzione e usi finali, fa della forte metanizzazione degli ultimi decenni una componente importante del global warming, a causa dell’efficacia di questo gas nel produrre l’effetto serra, circa 10 volte maggiore di quella della CO2. E dove è finito allora il discorso di Mario Draghi in Parlamento? Va definita in modo molto più preciso la rotta che si intende seguire per la ripresa del Paese nei prossimi anni, guardando soprattutto ai giovani e all’Italia che loro riceveranno in consegna non nel 2050 ma nel 2030. Segnalando che il triennio 2021-2023 sarà cruciale per la realizzazione anche quantitativa degli obiettivi finali.

Una partenza lenta e un trend poco ambizioso nel breve termine farebbero fallire il conseguimento di ogni risultato. L’Italia parte da più in basso rispetto ad altri Paesi – 30 GW (solare più eolico) nel 2018 – eppure 70 GW nuovi da installare entro il 2030 sono alla portata del complesso industriale e produttivo italiano, tenendo conto anche dell’idrogeno verde da idrolizzatori da mettere a disposizione della rete. Ciò comporta disfarsi subito del Pniec con quel misero 33% di riduzione dei gas serra al 2030. Con l’attuale versione del piano sarebbe oltretutto impossibile riempire il 37% dei 209 miliardi destinati all’Italia nell’ambito Next Generation Eu con il Piano nazionale di ripresa e resilienza, espressamente intesi alla lotta contro i cambiamenti climatici e forieri di ricadute occupazionali rilevanti.

Vanno progettati nuovi processi e nuovi prodotti per realizzare un massiccio spostamento verso l’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili e dei consumi totali d’energia nei vari settori di impiego – trasporti, riscaldamento, industria, costruzioni – come non sarebbe mai possibile con la generazione elettrica da enormi impianti centralizzati, termoelettrici o nucleari.

Ma la resistenza di Eni e delle lobby del gas che agiscono a Bruxelles non va sottovalutata. Secondo una nuova ricerca pubblicata da Global Witness, una Ong internazionale, in meno di un decennio l’Unione europea ha speso 440 milioni di euro per gasdotti che non sono mai stati completati o rischiano di fallire. Soldi sperperati su vecchi asset ed entro scenari geopolitici in continuo mutamento. Ma i sussidi non riguardano solo il passato: sotto nuove e più camuffate forme riguardano il futuro e mettono in discussione il rapido passaggio alle rinnovabili e all’elettrificazione e all’idrogeno connaturati ad esse.

Infatti, sebbene il regolamento Ue per la prima volta escluda i gasdotti e gli oleodotti dal ricevere finanziamenti, lascia la porta aperta al finanziamento delle reti dell’idrogeno ottenute adattando l’infrastruttura del gas esistente. Ipotesi del tutto fantasiosa, se non per allungare la vita al gas metano. Più in dettaglio, mentre la Commissione europea propone di togliere la protezione del Trattato agli investimenti in carbone, petrolio e gas naturale, si prova ad inserire cervellotiche eccezioni: le condizioni del Trattato continuerebbero a essere applicate fino al 31 dicembre 2030 agli investimenti in centrali a gas che emettono meno di 380 grammi di CO2 per kWh (anche se il limite fissato da Bruxelles nella tassonomia per la finanza verde è molto più basso: 100 grammi di CO2/kWh).

E, nel caso in cui queste centrali a gas andassero a rimpiazzare impianti a carbone (vedi Civitavecchia), la protezione sarebbe estesa di altri 10 anni dopo l’entrata in vigore delle modifiche al Trattato, ma non oltre il 31 dicembre 2040! Capito allora perché gli Enti energetici si buttano a costruire centrali a metano nuove di pacca, anziché impianti di rinnovabili disponibili a costi largamente inferiori, ma non automaticamente fornitori di profitti garantiti da sussidi pubblici, capacity market e carbon tax quasi nulle?

Rimane comunque un problema: dato che una centrale a gas metano, per ottenere meno di 380 grammi di CO2 per kWh di produzione, dovrebbe avere un rendimento di almeno il 53% e dato che i gruppi turbogas a ciclo semplice non arrivano assolutamente a questo livello di efficienza – non sono cioè tecnicamente in grado di emettere meno di 380 grammi di CO2 per kWh di produzione – che altro trucco ci si inventerà anziché muoversi in fretta e bene verso le fonti rinnovabili?

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