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A Davos si preoccupano per l’economia, ma il pianeta ha un problema ben più grave

Il Forum di Davos è da sempre considerato un evento organizzato per migliorare lo stato degli affari mondiali. Quello appena terminato è stato pervaso da scetticismo e ha ricevuto scarsa attenzione anche dai media. Ben ne ha rappresentato la sintesi il murale che campeggiava nell’atrio del Centro Congressi con una ragazza che tiene un pallone, mentre nuvole temporalesche si avvicinano minacciose.

In effetti, le priorità a breve termine dei partecipanti – banchieri, esponenti della finanza, manager, governanti di nuovo conio, come il brasiliano Bolsonaro o lo statunitense Pompeo o il nostro Conte – non sono allineate con le preoccupazioni comuni a lungo termine (cambiamenti climatici, uguaglianza, società inclusive). Se da una parte è vero che le fortune miliardarie sono aumentate del 12% lo scorso anno, dall’altra ci sono gli ultimi report sullo scioglimento dei ghiacci, ad esempio, che vanno ben oltre le preoccupazioni per l’allentamento delle piste da sci della famosa località svizzera…

L’Antartide, a causa della sua natura inospitale, è rimasto intatto da sempre e rimane l’unico continente senza popolazione umana nativa e senza alcuna vita vegetale. Ma anche nei territori meno accessibili la natura risente della maggior concentrazione globale di gas climalteranti e manifesta comportamenti insoliti dei suoi componenti meno conosciuti alle nostre latitudini. Così, succede che le grandi balene blu, sogno e preda dei balenieri del secolo scorso, a seguito della penuria di pesci non figliano più lungo le coste a sud del 60° parallelo, ma per riprodursi si sono spostate verso i tropici e vengono avvistate in branchi addirittura nello Sri Lanka.

Ma è al Polo Nord che continuare a pattinare o slittare sarà sempre più pericoloso. Un rapporto, la Report Card Arctic 2018 compilato in base alla ricerca di oltre 80 scienziati che lavorano per governi e università in 12 Paesi, tiene traccia del ghiaccio marino, del manto nevoso, della temperatura dell’aria, della temperatura dell’oceano, della calotta glaciale della Groenlandia, della vegetazione e dei cambiamenti dell’ecosistema artico. Il volume appena pubblicato mostra che lo scorso anno la regione ha registrato la seconda temperatura più calda mai censita. Oltre a questo, suscita apprensione la constatazione che mai nel Mare di Bering è stato catalogato uno spessore del ghiaccio invernale talmente poco massiccio da permettere il fiorire precoce del plancton marino attorno all’Alaska. I resoconti sulla fauna e la flora sono impietosi: è confermato il declino a lungo termine della popolazione di caribù, mentre le mandrie di renne selvatiche che attraversano la tundra artica sono diminuite di quasi il 50% negli ultimi due decenni. Contemporaneamente, si sta verificando una impressionante espansione verso nord delle alghe tossiche nocive, trasportate da una insolita concentrazione di inquinanti microplastici che provengono dalle correnti oceaniche che si mescolano all’Oceano Artico.

Mare di Bering

La mappa mostra l’età del ghiaccio marino nel braccio di ghiaccio artico nel marzo 1985 (a sinistra) e nel marzo 2018 (a destra). Il ghiaccio che ha meno di un anno è colorato in blu più scuro. Il ghiaccio che è sopravvissuto per almeno quattro anni è bianco.

Le temperature dell’aria superficiale nell’Artico hanno continuato a scaldarsi a velocità doppia rispetto al resto del globo. Il ghiaccio è rimasto più “giovane, più magro” e ha coperto meno area rispetto al passato. Nel sistema artico terrestre il riscaldamento atmosferico ha continuato a generare un declino del manto nevoso, a provocare lo scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia e del ghiaccio del lago interno nonché l’espansione e l’inverdimento della vegetazione della tundra artica.

E se, lasciati sci e pattini ai Poli, volessimo scendere dalle Alpi al mare, avremmo anche qui grandi sorprese. Il Reno, l’asse principale del trasporto fluviale in Europa, sta perdendo molto del suo flusso. Dopo una prolungata siccità nell’estate boreale, il traffico pesante in uno dei punti più profondi del fiume è stato paralizzato per quasi un mese alla fine dell’anno 2018. Il Reno, anche se solo temporaneamente, è stato invalidato nella sua funzione di arteria di trasporto fondamentale. L’impatto sulla crescita economica in Germania nel terzo e nel quarto trimestre è stato significativo, a riprova di come anche le economie industriali avanzate debbano mettere in conto gli effetti del riscaldamento globale. Daimler, Bosch, Bayer e Basf hanno annunciato di essere state costrette ad utilizzar sistemi di trasporto più costosi a causa dell’abbassamento del livello delle acque. I governi federali sono stati sollecitati a investire in infrastrutture – come chiuse e dighe – per rilasciare acqua a richiesta e per garantire che i corsi d’acqua rimangano navigabili.

D’altronde, i ghiacciai alpini si sono ridotti del 28% tra il 1973 e il 2010. “Le Alpi si stanno riscaldando ancora più velocemente proprio perché la neve e il ghiaccio si sciolgono”, ha detto Wilfried Hagg dell’Università di Monaco. “Un clima più caldo rende più probabile la ripetizione di incidenti come i bassi livelli del fiume Reno e Danubio della scorsa estate”. E pensare che il Reno e il Danubio nascono e scorrono a due passi da Davos.

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#10yearschallenge e clima, cosa è successo al pianeta in dieci anni e quale futuro ci attende

Va per la maggiore postare immagini di come si era nel 2009 rispetto all’anno in corso. Dieci anni fa. Un confronto non certo esaustivo se si parla di clima e dello stato del pianeta. In questo caso, in virtù dell’accelerazione dei cambiamenti in corso, affiora una sensibilità nuova rispetto allo scorrere del tempo: non è significativo solo quanto tempo è passato “da”, ma quanto manca “a”. Ossia, dovremmo chiederci se tra dieci anni saremo in un mondo ancora in continuità con quello di dieci anni fa, oppure osserveremo paesaggi e una biosfera irreversibilmente mutati rispetto alla memoria che ci rimane? Pertanto, per adattare un hashtag diventato virale a immagini realistiche dell’evoluzione dell’ambiente in cui viviamo, proverò a far ponte tra il 2009 e il 2029, gettando, a mo’ di esempio, dapprima uno sguardo in Inghilterra sugli effetti di 10 anni di cambiamenti climatici precedenti a oggi e illustrando in seguito le previsioni sui 10 anni a venire di cui il Pentagono ha informato un Trump tanto allibito quanto ostinatamente negazionista.

10 anni fa in Inghilterra. Un decennio fa il Regno Unito ha compiuto un passo coraggioso adottando una legge sui cambiamenti climatici e impegnandosi a ridurre significativamente le emissioni di gas serra entro il 2050. Dal 2008 al 2018 il Climate Change Act ha fornito compiti, responsabilità e una certa chiarezza sulla direzione di marcia da intraprendere per contrastare l’aumento della temperatura dovuto ai comportamenti della popolazione. A distanza di un decennio, la legge ha ottenuto un calo delle emissioni del 43% rispetto ai livelli del 1990. Lo smog più denso sul Tamigi è quasi scomparso.

Nel 2017 per la prima volta la maggior parte dell’elettricità del Regno Unito proveniva da fonti rinnovabili o a basse emissioni di carbonio, con fumate meno dense all’orizzonte, mentre l’economia, con un mix di sorgenti energetiche più pulite, riusciva a registrare una fase di espansione. Questi segnali positivi non sono bastati: il mutamento climatico si è fatto più rilevante; è andato perso il 26% della fauna selvatica (il 60% rispetto al 1970); il ritardo per limitare l’innalzamento della temperatura ai fatidici 1.5°C risulta sempre più incolmabile e le misure adottate finora hanno colpito di più le persone povere e svantaggiate, dal momento che i costi della transizione energetica (stimati attorno ai 600 miliardi di Euro) senza l’applicazione di una carbon tax, si sono in gran parte scaricati sui consumatori anziché sui grandi produttori di energia. Nel film dei dieci anni si potrebbe constatare anche una sproporzionata e improvvida destinazione di terreni per insediamenti umani, allevamenti e mangimi per bestiame, mentre i rischi di calore estremo e gli eventi meteorologici negativi sono cresciuti di anno in anno, come evidenziato dalla calura dell’ultima estate londinese e dalle inondazioni della primavera che l’ha preceduta.

Le previsioni del Pentagono per il 2030. Giorni fa è uscito un rapporto del Pentagono sui cambiamenti climatici con particolare attenzione alle “foto” prossime future delle basi americane in giro per il mondo. A premessa di provvedimenti operativi che riguarderanno i singoli siti, sono state espresse alcune considerazioni generali assai significative se non intriganti, vista la loro provenienza. Innanzitutto, si afferma che gli effetti del clima che muta rappresentano un problema di sicurezza nazionale, mentre, per la prima volta, viene preso atto che un brusco cambiamento climatico (vale a dire in una scala che cambia drammaticamente in anni, piuttosto che decenni o secoli) sia altrettanto probabile di un mutamento graduale. Se la rapidità prevalesse sulla gradualità cambierebbe lo scenario profilato dieci anni fa, secondo il quale l’agricoltura dell’Europa settentrionale, della Russia e del Nord America sarebbero prosperate, mentre l’Europa meridionale, l’Africa e l’America centrale e meridionale avrebbero sofferto di un aumento della scarsità d’acqua. Non più produzione di champagne nelle isole britanniche né grandi bacini di riserva idrica nelle zone subtropicali. Infine, perfino gli scienziati del Pentagono valutano che il riscaldamento globale sarà nei prossimi decenni un fattore crescente di estinzione delle specie, il cui tasso al momento è più alto che in qualsiasi momento dalla scomparsa dei dinosauri, 65 milioni di anni fa.

Sul piano più strettamente militare, si ritiene che il riscaldamento dell’Artico stia creando maggiori opportunità per un conflitto con la Russia e la Cina. L’indagine più estesa riguarda in dettaglio i modi con cui il cambiamento climatico – tenendo conto di cinque fattori: inondazioni ricorrenti, siccità, desertificazione, incendi boschivi e scongelamento del permafrost – potrebbe colpire migliaia di basi e installazioni militari sparse nel mondo. Circa i due terzi delle 79 installazioni trattate risultano danneggiabili all’innalzamento del mare o a future inondazioni ricorrenti e oltre la metà sono vulnerabili alla siccità attuale o futura. Circa la metà è esposta al crescente pericolo di incendi distruttivi. Ovviamente, gli impatti a causa di inondazioni costiere variano da regione a regione con maggiore impatto sulla costa orientale e le Hawaii rispetto alla costa occidentale. Addirittura, la regione di Hampton Roads in Virginia è citata come esempio di un’area che nei prossimi decenni dovrà affrontare un aumento del livello del mare fino a 45 centimetri.

Per il Pentagono di Trump, la risposta a tutti questi pericoli sembrerebbe essere diretta: armati fino ai denti e costruire un muro inespugnabile intorno agli Stati Uniti, mentre si tengono sotto tiro le altre potenze. Più realisticamente, penso impossibile agire non in pace e da soli.

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Petrolio, carbone e gas salveranno il lavoro (forse). Ma per il clima sarà un disastro

I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi 2015. Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni fa, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l’incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo. Vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve che, secondo l’Ipcc, non può andare oltre i prossimi 15 anni.

Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni – senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Donald Trump Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali a essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella Laudato Si’ e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma (mi auguro) già capace di segnali al prossimo congresso Cgil. L’accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare la strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (Tav) o lungo un litorale marino (Tap) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all’eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine “giusta transizione”, che non può che basarsi su un’attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5°C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. È d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati a una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone, petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice un’ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione Ue è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all’Ue. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Val di Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

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Auto ed ecotasse /2 – Imporre balzelli non serve a ‘fare cassa’ ma a educare alla sostenibilità

Nel post precedente si è accennato all’evoluzione futura dei veicoli a ruota motorizzati. Si tratta di un’evoluzione imposta dall’impatto climatico, che può essere accompagnata da provvedimenti fiscali congruenti. Il regime fiscale che si applica alle motorizzazioni che inquinano e emettono climalteranti non ha il compito di “fare cassa”, ma di accelerare una strategia di rapida decarbonizzazione a favore della salute e del clima, anche contro l’inerzia e le convenienze immediate delle industrie dell’auto. La funzione fiscale rappresenta il più vecchio e il più importante compito delle tasse, giacché concentra fondi in bilanci pubblici per finanziare beni comuni (salute e clima in questo caso) e tutelare le fasce dei cittadini più indifesi. Nel nostro caso, infatti, occorre impedire che i meno abbienti e gli occupati nel settore della mobilità vengano puniti da cambiamenti di rotta indispensabili, ma, essendone spesso vittime, ne traggano benefici in salute e utilità sociali.

Già fino alla crisi attuale ci sono stati – e se ne sa poco perché sono occultati dai grandi interessi monopolisti – vincitori indiscussi nel sistema fiscale applicato ai carburanti e agli operatori della mobilità. Basterebbero per tutti i favori pluridecennali elargiti alla Fiat nel nostro Paese o quelli ancor oggi dovuti nell’Ue al mantenimento del tasso minimo di tassazione del gasolio (dal momento che i camion nel traffico internazionale effettuano sistematicamente deviazioni per riempire i serbatoi nei Paesi in cui l’imposta sul carburante è più bassa) o, ancora, alla completa detassazione del carburante utilizzato nell’aviazione internazionale (32 miliardi di esenzioni!) e nella navigazione.

La tassa ambientale all’acquisto (malus) è concepita per svolgere una funzione di “riparazione a priori”, con un effetto educativo perché induce una percezione di nocività e uno correttivo al fine di limitare la diffusione di mezzi più inquinanti. Nella sua versione incentivante (bonus) il fisco dovrebbe svolgere invece una funzione di stabilizzazione della sostenibilità all’interno della società. Ma, una volta definiti sommariamente gli scopi, bisogna entrare nella complessità del problema per dare una risposta esauriente al problema del trasporto, estendendo il bilancio all’intero ciclo e passando per l’alimentazione dei veicoli e le infrastrutture su cui viaggiano.

Nel 2012, quando la media delle emissioni della CO2/km delle nuove auto era 135 g, la Ue aveva fissato limiti per le auto nuove entro 120 g per il 2015 e 95 g entro il 2020. Nel frattempo, le emissioni medie di CO2 delle autovetture nuove sono diminuite costantemente, passando da 170 g di CO2/km nel 2001 a 118 g di CO2/km nel 2016, con un tasso annuo di riduzione del 2%. Sarà necessaria un’ulteriore riduzione del 19,5% delle emissioni medie di CO2 per rispettare l’obiettivo 2021 di 95 g CO2/km (27% al di sotto dell’obiettivo del 2015). Tutto bene? No, poiché il trend di riduzione risulta troppo lento, oltre a essere aggravato dal maggior peso medio delle vetture prodotte, quasi sempre riempite dal solo guidatore che si muove nel traffico urbano a non più di 19km/h.

Penso che si debba allargare il campo di valutazione. Le domande cui rispondere sono tutte collegate e da prendere nella loro complessa coerenza: quali soluzioni contribuiscono a rendere effettivamente “sostenibile” il sistema della mobilità; quali fonti energetiche, quali tecnologie di trasformazione, quali vettori energetici o combustibili, quali sistemi di trazione sono più promettenti; quali iniziative, coerenti con le strategie definite in tema di energia e mobilità, vanno intraprese per concorrere al mantenimento dell’occupazione in attività industriali, servizi, ricerca e infrastrutture; come governare pubblicamente e non solo dal mercato lo sviluppo del progetto.

Le risposte non sono affatto usuali e provo ad avanzarne alcune in veste discriminante: assumere la sostenibilità della mobilità come “prodotto” per un mercato reale, non indotto, tenuto a misurarsi con il carattere sistemico delle molteplici implicazioni – ambientali, territoriali, politiche – di un prodotto socialmente desiderabile; stabilire nell’elettricità e nell’idrogeno da rinnovabili gli elementi risolutivi delle politiche energetiche e per la mobilità; privilegiare, soprattutto sul versante produttivo, le iniziative che consentano di ottenere risultati a breve e, nel contempo, favorire la transizione verso i traguardi strategici individuati (ibridi in particolare); fare leva sulle sinergie tra attività di ricerca e industria per sostenere la competitività del sistema industriale nel suo complesso e determinare le condizioni per la creazione di attività manifatturiere innovative; “aprire” il progetto, coinvolgendo fattivamente tutti gli attori che a esso possono contribuire e istituendo ambiti e procedure di governance adeguati alla complessità dei processi innescati e delle reti di relazioni attivate.

Dall’inizio è bene centrare gli incentivi sulle emissioni, introducendo un criterio sociale per cui si fa pagare meno a chi ha un reddito più basso e prevedendo un bonus rottamazione che premi chi rottama le vecchie auto inquinanti. Ma non basterà l’obbligo di investire in trasporto pubblico come asse indispensabile di una mobilità sostenibile che non è più centrata sul veicolo a proprietà individuale.

A questo punto, ci si potrebbe chiedere se esiste uno scenario in cui inquadrare l’intera questione energia-clima, trasporti compresi. Esiste in effetti una forma di tassa molto più efficiente di quelle qui contemplate e non riferita al consumatore finale. Per mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei due gradi, come indicato dal rapporto Ipcc a Katowice, va presa in considerazione la proposta avanzata nel gennaio 2013 da Hansen, per cui alle compagnie che operano nel campo dei combustibili fossili verrebbe addebitata una tassa sul carbonio imposta alla sorgente, al pozzo minerario o al punto d’ingresso, distribuendo mensilmente il 100% delle entrate riscosse, a titolo di dividendo, alla popolazione, su una base pro capite.

Ciò sarebbe accompagnato dall’eliminazione delle attuali sovvenzioni all’industria dei combustibili fossili. Se si vuole, un autentico reddito di cittadinanza finalizzato al lavoro, alla riduzione dell’orario, alla salvaguardia del clima, alla sopravvivenza nel pianeta. E, questione importante, rivolto a fini distributivi verso la popolazione indigente, che ha un’impronta ecologica minore rispetto alla popolazione più ricca.

Sull’insieme di queste riflessioni è bene riflettere e non raffazzonare e portare all’approvazione di un Parlamento esautorato articoli di legge sillabati all’ultimo minuto: non si può – come ha detto la Fiom – “imboccare la strada sbagliata, investendo milioni di euro della collettività per pochi privati a cui scontare con un bonus l’acquisto dell’auto elettrica e invece scaricare sui cittadini che, non potendo acquistare l’elettrico, sono condannati a pagare un’imposta aggiuntiva che farebbe lievitare il costo del veicolo”.

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Auto ed ecotasse /1 – La rivoluzione nei trasporti è già in atto. E a pagarla non saranno i meno ricchi

Adesso che alla Cop 24 di Katowice tutto è andato come purtroppo si temeva, gli abitanti del pianeta delusi – a partire dagli europei – devono abbandonare quell’apatia nei confronti del cambiamento climatico che permette ai governanti di essere sconsideratamente negazionisti e di accreditare la frottola che le misure ambientali penalizzerebbero l’economia e le fasce meno abbienti. Il governo italiano non fa che accreditare di fatto un’impostazione tanto spudorata: Matteo Salvini e Luigi Di Maio, all’ombra del loro stravagante “contratto” e di baratti rabberciati all’ultimo minuto, sviano continuamente l’attenzione dai problemi reali e dalla possibilità di far crescere una coscienza matura. È quel che sta avvenendo sul nodo della necessaria decarbonizzazione dell’economia, mentre i vicepremier duellano il mattino per rappacificarsi la sera. Come è successo per la Tap, anche sulle ecotasse sembra proibito poter discutere e confrontarsi e i problemi vengono accantonati in cambio di un disorientamento generale, che consente alla Lega di rinforzare gli steccati di un sovranismo tanto impotente quanto discriminatorio.

Senza tener conto che occorre una programmazione politica dal lungo respiro per affrontare la sfida europea e mondiale della decarbonizzazione dei trasporti, con le schermaglie su improvvisati provvedimenti fiscali per l’auto – chiamati “ecotasse” per scandalizzare Fca e allarmare qualche benpensante – si è cercato di far credere che la difesa dell’ambiente sia un lusso che devono pagare i lavoratori e i meno ricchi. Al contrario, le questioni dell’impatto sulla mobilità, sull’occupazione, sul reddito, sulla salute e sul clima del superamento del motore a scoppio (che è la vera ragione per una politica fiscale sulle motorizzazioni) merita ben altra informazione e ben altro dibattito rispetto a quello che ci viene propinato.

In questa prima nota affronto il problema della rivoluzione nel sistema dei trasporti, già in atto, per poi discutere nel prossimo post la questione della carbon tax entro cui collocare la cosiddetta ecotassa, e prendere in considerazione le ricadute sociali a essa collegate.

Che il motore a scoppio – a benzina o gasolio – non faccia bene lo sa chiunque si sia avvicinato a un tubo di scappamento. La sua massiccia diffusione nell’ambiente in cui viviamo produce sia effetti cancerogeni, dovuti principalmente a polveri sottili, sia un contributo all’aumento di temperatura dovuto alle simultanee emissioni di CO2. Dato che la mobilità, anche se porta inconvenienti alla salute, è un diritto cui difficilmente si rinuncia, programmarne il futuro è questione di natura ancor più sociale che puramente economica. Siamo di fronte a sfide inedite su cui vengono giudicati i governi, come è il caso di tutti i Paesi sviluppati e come testimonia la vicenda dei gilet gialli francesi, che ha messo in luce tutti i rischi di un intervento autoritario in materia di tasse, mobilità e tutela ambientale.

Se partiamo da considerazioni su inquinamento e clima, dobbiamo avere presente che il diesel è più pericoloso per i suoi effetti cancerogeni (anche se i veicoli a benzina sono tutt’altro che esenti da conseguenze nefaste), mentre per il clima la maggior perniciosità dei due carburanti si viene a invertire. Tutto sommato, non dà granché risultati rimpiazzare un motore a combustione con l’altro (benzina al diesel), tranne che nel traffico cittadino dove si concentrano le polveri sottili. Affidare sostanzialmente all’abbandono del diesel il superamento della crisi del binomio (auto individuale + petrolio) è ingannevole. A cominciare dal fatto che un barile di petrolio (159 litri) finito in raffineria produce vari composti fra cui, per più di metà, benzina e gasolio per autotrazione, l’una e l’altro destinati al trasporto delle persone e delle merci, con quest’ultime che viaggiano su ruote con motorizzazioni esclusivamente diesel.

Allora è il motore a combustione in generale che manifesta il suo limite, dato che per ogni litro di carburante consumato vengono emessi circa 2,5 chilogrammi di CO2 (media sommaria fra i vari tipi di carburante, Gpl e metano compresi). Non c’è dubbio che il motore a scoppio (compreso quello alimentato a metano) andrà progressivamente sostituito con altre tipologie di motorizzazioni e combustibili che non producano effetti climalteranti.

La riconversione verso l’elettrico dei veicoli su gomma è una soluzione di prospettiva. Considerando l’intero ciclo “dal pozzo alla ruota” (well to wheels), il motore elettrico (alimentato a batteria o rifornito a idrogeno con pile a combustibile) non può che essere il terminale di un sistema diffuso di trasformazione e stoccaggio di vettori (elettricità o idrogeno) prodotti da fonti rinnovabili, per non comportare effetti perniciosi sul clima. Verso la definitiva decarbonizzazione, va incentivato lo sviluppo di tecnologie che migliorino il rendimento dei motori e le loro emissioni, con la combinazione di motore a scoppio e generatore di corrente (veicoli ibridi), riorganizzando le stazioni di servizio con la disposizione di colonnine di ricarica.

Qui un’ultima ma decisiva valutazione: la congestione spaziale, lo spreco e l’accumulo di rifiuti provocata dalle auto a proprietà individuale mette un freno all’entusiasmo per la soluzione enfatizzata dell’auto elettrica a guida automatica: forse l’escamotage più accattivante con cui le case automobilistiche possono rilanciare il mercato sotto la forma di status symbol per benestanti. Il motore elettrico è sì uno sconvolgimento del panorama attuale, ma ci si deve assicurare che eventuali benefici siano condivisi da tutti e che nessuno rimanga indietro. Ma se vogliamo letteralmente sopravvivere avendo cura del pianeta, non possiamo che ridurre il consumo di mobilità su mezzi individuali. Di questo e del regime fiscale con cui accelerare la transizione tratteremo nel prossimo post.

[continua…]

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