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La vera soluzione al problema delle armi nucleari non è la non-proliferazione ma la loro abolizione

di Mario Agostinelli e Luigi Mosca

Abbiamo tutti sentito dire e ripetere che il Trattato di Non-Proliferazione (Tnp) ha avuto un grande successo poiché tutti i paesi l’hanno firmato, eccettuati l’India, il Pakistan e Israele, oltre alla Corea del Nord che è uscita dal Tnp nel 2003. Questo trattato precisa che (articolo VI) “ciascuna delle Parti del trattato si impegna a portare avanti, in buona fede, dei negoziati su delle misure efficaci relative alla cessazione della corsa agli armamenti nucleari a una data ravvicinata e al disarmo nucleare”. I paesi non detentori delle armi nucleari hanno quindi interpretato questo trattato come un processo di eliminazione delle armi nucleari.

Ora, al di là dell’“entusiasmo” iniziale, il Tnp si è rapidamente rivelato inefficace: in effetti, il numero di Stati detentori dell’arma nucleare al momento della sua adozione nel 1968 – i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con diritto di veto: Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e Cina – è pressoché raddoppiato, poiché altri quattro Stati (India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) si sono anch’essi dotati dell’arma nucleare.

Come menzionato più sopra la Corea del Nord, che aveva firmato il Tnp, ne è uscita nel 2003, affermando che la sua “sicurezza” era minacciata. Questa possibilità è prevista nello statuto stesso del Tnp, cosicché questo ritiro potrebbe provocarne altri, a cominciare, per esempio, dall’Iran che, a seguito della violazione dell’Accordo di Vienna del 2015 da parte di Donald Trump nel 2018, ha ripreso l’arricchimento dell’uranio naturale in uranio fissile (U235) sino almeno al livello del 60%, il che significa che la soglia di circa il 90% per la produzione di bombe nucleari potrebbe essere raggiunto abbastanza rapidamente: si tratta soprattutto ora di una scelta politica.

Poi l’Arabia Saudita, che aveva finanziato il programma nucleare militare del Pakistan negli anni 90, è molto preoccupata per l’andamento del programma nucleare iraniano, che potrebbe spingerla a sviluppare un programma equivalente con l’aiuto del Pakistan (un “ritorno dell’ascensore”). Inoltre il Giappone, che si “accontenta” per il momento di rimanere sotto l’”ombrello” degli Usa, dispone però di una forma di “tacita deterrenza nucleare” grazie ai suoi impianti nucleari civili che hanno già permesso di produrre diverse centinaia di chilogrammi di plutonio di qualità militare e uranio altamente arricchito, che poi hanno consegnato agli Stati Uniti. In Corea del Sud, il presidente Yoon Seok-yeol ha recentemente emesso l’auspicio che gli Stati Uniti installino armi nucleari tattiche di fronte alla crescente minaccia della Corea del Nord, senza escludere la possibilità di produrle loro stessi. Inoltre, circa il 70% dell’opinione pubblica, sempre meno fiduciosa nell’“ombrello nucleare” statunitense, si dice favorevole a tali scenari.

Perché un bilancio così negativo del Tnp? In realtà non c’è da stupirsi: il Tnp è fondato su di una base che da un lato è ingiusta e, dall’altro, perversa. L’ingiustizia: in virtù di quale diritto i cinque Stati iniziali, già ampiamente in possesso di armi nucleari, potevano chiedere agli altri paesi di rinunciare definitivamente a qualsiasi arma nucleare se essi stessi non erano disposti a rinunciarvi realmente? È vero che il Trattato di Non Proliferazione includeva un impegno da parte delle cinque potenze nucleari di eliminare le proprie armi (come si è visto, attraverso l’articolo VI), ma questa promessa, a carattere non veramente costrittivo, non era altro che un inganno, come l’esperienza successiva ha ampiamente provato.

La perversità: il Tnp prevede un aiuto ai paesi firmatari che lo richiedono per sviluppare sul loro territorio il “nucleare civile”, condizione questa perversa poiché il nucleare civile può essere una via privilegiata verso il nucleare militare. In effetti l’“aiuto” allo sviluppo del nucleare civile ha, da un lato, rappresentato un’apertura di mercati a forte rendimento economico per i cinque paesi già nuclearizzati: si veda l’esempio degli Stati Uniti verso il Giappone, per di più con i risultati che si cominciano a vedere (Fukushima…). D’altro lato, le infrastrutture fornite dal Canada sono servite all’India per dotarsi dell’arma nucleare; la Francia ha collaborato, tra gli altri, con Israele su diversi aspetti… E attualmente un paese che si procurasse delle istallazioni per l’arricchimento dell’Uranio (centrifughe), oppure per la separazione del Plutonio, disporrebbe di mezzi importanti per sviluppare un programma militare.

Inoltre la malafede degli Stati dotati dell’arma nucleare è evidente soprattutto nelle loro attività per la modernizzazione delle loro armi. Mentre il Tnp prevede l’apertura di negoziati “in buona fede” in vista dell’eliminazione delle armi nucleari, la decisione di modernizzarle esprime invece chiaramente una volontà di non abbandonarle. È ad esempio il caso della Francia, che modernizza le sue attrezzature e addirittura ha aumentato la portata dei suoi missili da 6000 chilometri (gli M45) a 9000 chilometri (gli M51) in violazione flagrante del Tnp.

Quanto all’Italia, il fatto di “ospitare” delle bombe nucleari Usa, gestite in un quadro di cooperazione Usa-Italia, la pone in stato di violazione dell’Articolo II del Tnp. Inoltre le “vecchie” bombe B61, puramente gravitazionali, vengono attualmente sostituite dalle moderne B61-12, teleguidate e la cui potenza può essere regolata tra 0,3 Kton (50 volte inferiore a quella di Hiroshima) e circa 50 Kton. Ora questa possibilità anche di abbassare il livello della potenza rende queste bombe delle “mini-nukes”, molto più adatte a essere usate sul campo di battaglia!

La conseguenza evidente di tutto ciò è che la vera soluzione al problema delle armi nucleari non è semplicemente quella della “non-proliferazione”, ma quella dell’abolizione di tutte le armi nucleari. È ciò che ha stabilito sul piano giuridico il successivo Trattato di Proibizione della Armi Nucleari (Tpan), adottato dall’Assemblea Générale delle Nazioni Unite il 7 luglio 2017 ed entrato in vigore il 22 gennaio 2021, rendendo le armi nucleari illegali sul piano del Diritto Internazionale.

In conclusione, le dottrine della deterrenza nucleare sono intrinsecamente proliferanti: infatti, l’affermazione che il possesso di armi nucleari è essenziale per la sicurezza di uno Stato implica automaticamente che anche tutti gli altri Stati del mondo debbano possederle! Questo è quindi il principale “motore” della proliferazione nucleare. Invece, per garantire la sicurezza umana, non è la minaccia, ma esattamente il contrario che deve essere realizzato: come diceva giustamente Gorbaciov, “per ottenere la propria sicurezza, ogni Stato deve contribuire alla sicurezza di tutti gli altri”.

* Fisico delle particelle elementari e attivista di Ican

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Il governo ha riaperto il dossier nucleare e non possiamo restare indifferenti

Negazionismo climatico e opposizione alle politiche energetiche verdi saranno al centro dei programmi di molti partiti di destra nelle elezioni europee del 2024.

Non era certo prevedibile, prima della pandemia e della guerra in Ucraina, che l’Ue rallentasse il suo cammino da apripista dell’abbandono dei fossili. Dopo la prima svolta, nota come 20/20/20 (il “pacchetto clima-energia 20-20-20” varato dall’Unione Europea nel 2014) e il successivo programma Next Generation EU corroborato dal REPowerEU (approvati dopo il 2020 senza significative opposizioni), il percorso della decarbonizzazione sta incontrando ostacoli non previsti. Non tanto per la scontata ostilità delle “Big Oil”, quanto per la presa di distanza di forze di destra emergenti, che si caratterizzano, oltre che per l’arretramento sul fronte sociale, anche per un comportamento negazionista riguardo al cambiamento climatico. La loro è, in particolare, una dichiarata resistenza contro la mobilità elettrica e la penetrazione inarrestabile delle rinnovabili nel mix energetico di nazioni in cui cresce la loro rappresentanza. Goetz Kubitschek, ideologo neonazista, definisce addirittura gli ambientalisti un “nemico antropologicoda contrastare “concettualmente”.

Molto ha a che fare con una ripresa del nazionalismo in Europa, che induce a prese di posizione politiche di attacco alla scienza. Un insieme di discipline che validano su scala mondiale le emergenze in corso proponendo soluzioni che antepongono la salvezza della biosfera – cioè della maggioranza dell’umanità – agli equilibri geopolitici – che favoriscono la potenza delle armi e dell’economia di singoli blocchi. Non deve sembrare un caso che, ad esempio, la polemica tra scienziati italiani di chiara fama ed esponenti del nostro governo si sia fatta più insistente sulle due grandi emergenze che segnano il tempo attuale: la guerra e il clima (Rovelli, Pasini, Balzani e i 300 ricercatori che hanno inviato alle istituzioni un documento sull’origine antropica del cambio climatico).

Va considerato che gli interessi che collegano grande capitale e orientamento politico antiambientalista vengono portati alla luce sotto forme e narrazioni nuove rispetto al passato. Si parte dal sostenere la necessità di indipendenza energetica da potenze ostili e ricattatrici. Si prova, di seguito, a convincere che un orizzonte del 100% di fonti rinnovabili territoriali non sia praticabile perché richiederebbe di attenersi ad un criterio sociale “scomodo” di sufficienza nell’organizzazione degli stili di vita. Si conclude, pertanto, che il benessere della popolazione (in ovvia coincidenza con la massimizzazione dei profitti per le imprese), verrebbe assicurato solo con il ricorso ad ulteriore combustione di gas integrata da una disseminazione territoriale di “nucleare pulito”, sotto forma di grandi e piccoli reattori.

E qui il ragionamento si inceppa. Una pala eolica o un pannello solare hanno il loro impatto e si portano con sé un po’ di problemi, ma sicuramente non quelli di ripetere catastrofi come quelle di Chernobyl o Fukushima. Inoltre, sarà pur chiaro che il tempo per continuare a vulnerare con emissioni climalteranti (metano) la nostra atmosfera viene ormai a mancare e che la guerra in Ucraina, tra tante altre cose, ha scoperchiato l’estrema pericolosità degli impianti del “nucleare civile” in situazioni di stress e di conflitto. Ci sono legami così indissolubili tra il gas e i conflitti bellici, tra l’atomo “di pace” e quello “di guerra”, da prendere in considerazione una dimensione più ampia di quella strettamente nazionale.

Per tante ragioni, quindi, non si può restare indifferenti al fatto che quanto detto dal ministro Pichetto Fratin: “l’Italia per la conoscenza che ha rimane nel nucleare, nella ricerca e nella sperimentazione”, abbia poi dato seguito, neanche due mesi dopo, all’approvazione alla Camera di una mozione che impegna il governo “a inserire il nucleare nel mix energetico italiano e a partecipare a iniziative in Europa e alla produzione extraterritoriale, al fine di accelerare il processo di decarbonizzazione dell’Italia e di valutare l’opportunità di inserire l’atomo nel mix energetico nazionale quale fonte alternativa e pulita per la produzione di energia”. Si fa riferimento forse alla fusione o ai piccoli reattori modulari (SMR: Small Modular Reactor) che non esistono, anche dopo che la premier Giorgia Meloni ha affermato che “l’atteggiamento del governo rimane pragmatico, ispirato al principio di neutralità tecnologica”.

Il fatto è che l’interesse per l’alleanza nucleare a guida francese acquista slancio in Ue: senza clamore, il governo ha sottoscritto insieme ad altri Paesi dell’Ue (più il Regno Unito) un patto per il rilancio del nucleare in Europa, chiedendo che venga “sdoganato” come strumento nella lotta contro la crisi climatica. Sedici paesi europei (Belgio, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovenia, Slovacchia, Estonia, Svezia, Italia e Regno Unito) che partecipano all’”alleanza nucleare” prepareranno una tabella di marcia per sviluppare un’industria nucleare europea integrata che raggiunga 150 GW di capacità di energia nucleare nel mix elettrico dell’Ue entro il 2050.

La volontà della nuova maggioranza di riaprire il dossier nucleare anche in Italia è chiara e questo mette in bieca luce il tema del blocco delle rinnovabili e le responsabilità delle istituzioni (in primis il governo ma in diversi casi anche Regioni e sovrintendenze) nel ritardarne il lancio. Occorre presa di coscienza il più ampia e generale, a cominciare da subito e ad estendersi nel tempo.

Al via il 9 e 10 giugno il weekend di mobilitazione organizzato nella Penisola da oltre 20 associazioni, movimenti ecologisti e studenteschi, con modalità provocatorie, ironiche e comunicative, sfruttando in maniera il più possibile scenografica la presenza di pannelli solari e pale eoliche (simboliche, di cartone) nelle piazze e strade antistanti le sedi decisionali per sostenere lo sviluppo delle fonti pulite oggi frenate da burocrazia, amministrazioni locali e regionali, sovrintendenze, comitati Nimby e Nimto e, soprattutto interessi legati alle fonti fossili e coperti da un intollerabile negazionismo

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Tra le istituzioni prende piede la versione più recente del negazionismo climatico

Il governo Meloni non tiene il passo del sistema di aiuti europei, non solo sul Pnrr. Il 27 giugno scade la data di aggiornamento dei piani nazionali climatici e sull’energia che fanno riferimento agli obbiettivi del Green Deal UE, che prevede la neutralità climatica per il 2050. Quali obbiettivi raggiungerà il nostro Paese?

Il consiglio di 28 accademie scientifiche nazionali degli Stati membri dell’Ue ha elaborato un documento in cui spiega l’urgenza di uscire dal gas, aggiungendo che per aumentare massicciamente la produzione di energia elettrica da rinnovabili occorre sostenere le famiglie e le imprese vulnerabili per limitare la povertà energetica e gli impatti derivanti da bollette energetiche elevate. Un programma dettagliato e ragionevole, in cui si esclude che investimenti in gas naturale vengano considerati compatibili con l’obbiettivo di contenere la temperatura del pianeta entro 1,5°C.

Eppure, il 23 maggio, il nostro Consiglio dei Ministri ha approvato, proprio nel decreto per le alluvioni in Emilia-Romagna, una norma che, all’art 6, consente di “realizzare nuova capacità di rigassificazione e di spostare, per utilizzarle altrove, se occorre, le navi che stoccano e rigassificano gas liquefatto”. La contraddizione è palese e contiene addirittura una provocazione: l’emergenza non si concentra solo sulle popolazioni colpite, ma viene in subdolo soccorso degli interessi di Big&Oil, tra i responsabili accertati degli eventi disastrosi cui assistiamo.

E’ ormai grande la distanza dei governi dalle emergenze epocali che la scienza segnala e a cui le nuove generazioni dedicano finalmente grande attenzione. Non si tratta più soltanto di una “Greta” da isolare quando contesta gli effetti letali delle combustioni fossili, ma di un’ondata in crescita di ragazze e ragazzi che hanno consapevolezza di quanto il presente non prepari per loro un futuro desiderabile.

Occorre rendersi conto che, con un lavoro assiduo e dietro le quinte dei comitati, dei think-tank e dei conferenzieri strapagati, ma anche dentro le commissioni istituzionali dei Parlamenti nazionali della Ue e dei vari G7, sta prendendo piede la versione più recente del negazionismo climatico: le rinnovabili consumeranno troppi materiali rari, non potranno raggiungere il 100% e dovranno obbligatoriamente cedere il passo ad un pesante soccorso di gas e nucleare per “scollinare” il 2050. Risulta così ancor più brusca la distanza tra la scienza (non solo quella di fisici eccellenti come Rovelli o Parisi, ma quella dell’intero staff globale dei climatologi dell’Ipcc) e i governanti, che si alleano per andare all’attacco degli accordi internazionali sottoscritti a Parigi nel 2015 e anno dopo anno infranti.

Le manovre di avvicinamento tra il Ppe (destre classiche) e i sovranisti (destra estrema), nella prospettiva delle prossime elezioni europee (6-9 giugno 2024), si stanno concentrando proprio sul freno al Green New Deal Ue. I contatti sono sempre più stretti e contano anche sulle convenienze di settori finanziari e industriali legati alle fonti fossili e nucleari e sulla influenza sui rispettivi governi (si vedano le nomine negli enti del governo italiano) di imprese partecipate che approfittano della guerra in Europa per accumulare extraprofitti da impianti obsoleti e drammaticamente nocivi. Un recente studio pubblicato da Reclaim Finance, ReCommon e Greenpeace ha calcolato che meno del 20% degli investimenti previsti da Eni nei prossimi anni andranno a finanziare progetti di energie rinnovabili, superando del 70% la prevista riduzione delle emissioni previste dalla IEA per il 2030.

La destra europea, compresa quella italiana, punta – dopo l’invasione russa dell’Ucraina – a mantenere gas e nucleare in una funzione cruciale nella transizione verso il “tutto elettrico”. E la ragione politica sfugge tuttora agli ambientalisti e alle sinistre: c’è un tratto di liberismo che è ampiamente sostenuto nel mercato energetico. Da quando i flussi energetici statunitensi hanno contribuito a sostituire buona parte del petrolio e del gas russi, l’aspetto proprietario dello shale gas americano fornito da produttori indipendenti ed estratto su terreni di proprietà privata viene giocato sul libero mercato. In tal guisa, il GNL diviene proprietà dell’acquirente non appena viene caricato su un’apposita nave cisterna e il carburante è considerato franco a bordo (FOB) in quanto all’acquirente è data la flessibilità di spostarlo in qualsiasi luogo desideri. Ciò significa spesso vendere il gas liquefatto nel luogo in cui il prezzo produce il maggiore profitto. Un danno per i consumatori, ma non per Eni e per le aziende private o ex municipalizzate che hanno interesse ad avere più gas in circolazione e a venderlo ovunque richiesto, in Italia o altrove, possibilmente sul mercato spot, perché questo massimizza i profitti.

Quindi, mantenere turbogas e condotte e puntare a fare dell’Italia “l’hub europeo del gas” (un punto di vendita nel caso di sovrabbondanza) significa badare ad interessi molto precisi, a danno, ovviamente, della sostituzione con energie da rinnovabili (ad uso misurato delle comunità locali). Il governo Meloni non vuole “scatenare le rinnovabili”, mentre non ha problemi a dare immediata via libera ad una nave “gasiera” – una fabbrica galleggiante che arriverà a giugno a Ravenna – mentre un impianto simile è arrivato a Piombino a marzo tra mille polemiche. Intanto è in costruzione un nuovo gasdotto tra Sulmona, in Abruzzo, e Minerbio, in provincia di Bologna, per nuova capacità di rigassificazione nazionale, qualificato come “opera di pubblica utilità indifferibile e urgente.

Ovviamente le compagnie del gas puntano ai fondi del Pnrr e di RePowerEu, o, almeno, ad ottenere garanzie pubbliche per un piano di investimenti che ci legherà ancora di più al gas negli anni a venire: non importa se la domanda interna diminuisce, si venderà altrove. E il clima e gli eventi catastrofici, ovviamente, renderanno ancora più insopportabili le guerre in corso.

Velocizzare l’installazione di impianti eolici e solari, sviluppare le “comunità energetiche”, agire sull’efficienza, riconvertire i consumi richiede mobilitazione e una coalizione sociale che sappia fare un’opposizione propositiva per giovani e lavoro. Le iniziative svolte il 27 a Roma e quelle in preparazione su tutto il territorio nazionale per la prima decade di giugno fanno ben sperare.

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Cambiamenti climatici, il nazionalismo ostacola la lotta: ecco perché va depotenziato

Leggendo con attenzione il saggio di Daniele Conversi, Cambiamenti climatici, Mondadori Education, ho colto l’importanza di un aspetto della resistenza al cambiamento climatico finora poco analizzata: il nazionalismo, sentimento ormai prevalente in tutte le aree del pianeta. Mi sono così tornate alla mente le parole pronunciate 61 anni fa da Gagarin, il primo cosmonauta: “Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere e confini…”. Immerso in quella straordinaria e irrinunciabile fascia di atmosfera che rende possibile la vita sul nostro pianeta, Jiurij si accorse che da lassù si sfuocavano quei solchi profondi – di diversa natura: etnica, geopolitica e talvolta perfino interiore, spirituale e religiosa – che hanno segnato la storia dei popoli sparsi e spesso divisi e in armi su grandi e piccole tratti di territorio. Cos’erano, a fronte di un globo multiforme e dinamico perfino nei suoi colori cangianti, mai osservati prima in così rapida successione, quelle “nazioni” trattenute dai loro confini, cui Daniele Conversi nel suo bel libro attribuisce parte della miopia nel non rendersi conto delle emergenze globali di questa nuova era?

L’autore confuta il nazionalismo – l’ideologia sottostante le realtà degli Stati-nazione – come copertura determinante della sottovalutazione dell’incombente crisi climatica, dell’espandersi dei conflitti, di una ingiustizia sociale mai tanto ferale quanto all’alba del nuovo millennio. In questa identificazione del paesaggio terrestre ridisegnato dai confini con istituzioni e poteri colpevolmente ripiegati su se stessi e in esasperante competizione, sta molto della drammaticità “epocale e antropogenica” di un futuro prossimo in cui il tempo viene a mancare.

Siamo così messi di fronte ad un difetto culturale strutturale, che pervade tuttora largamente la formazione e l’informazione a tutte le latitudini: la mancanza di un approccio interdisciplinare che acquisisca oltre all’umanesimo la descrizione scientifica della realtà. L’interdisciplinarietà irrobustirebbe la presa d’atto della catastrofe che si profila e non lascerebbe spazio ad un perverso negazionismo, con cui pressoché l’intero mondo politico riduce ogni giorno di più il tempo e le risorse per l’azione pubblica.

Dopo un puntuale riscontro dei drammi cui andiamo incontro senza slanci di adeguata preoccupazione, si lamenta una narrazione del presente privata delle grandi conquiste intellettuali e conoscitive delle nuove scienze, affacciatesi da Newton in poi. Basterebbe pensare di non essere più gli unici osservatori – nemmeno al centro di un universo che ha 14 miliardi di anni (e la vita è apparsa solo qualche miliardo di anni fa) – per sbarazzarci dell’indifferenza antropocentrica verso la natura, che fa ancora da perno nell’istituzione scolastica d’impronta determinista e nell’ostinata cultura della crescita. In fondo, come non capire e perché non insegnare fin dalle elementari che siamo vivi e parte del vivente perché sovrastati da un velo di gas che anche fisicamente ci accomuna (solo una sessantina di km di atmosfera)? Un velo che filtra l’energia di una stella lontana, degradandola fino ad essere riemessa nello spazio cosmico dopo aver “rimbalzato” attraverso molteplici processi entropici, che hanno nutrito la vita, consentito la riproduzione, ingentilito e talvolta inasprito gli eventi atmosferici senza che ciò richieda l’esistenza di grandi differenze di temperatura sul pianeta.

Quella stessa energia solare può vedersi mutato il proprio bilancio, interagendo con sovrabbondanze o carenze di materia o alimentandosi di combustioni, di cui è responsabile l’attività antropica che si è andata accumulando già dalla rivoluzione industriale. L’uso dei fossili, sempre più massiccio, porta ad emissioni di gas serra le cui molecole si agitano colpite dai raggi infrarossi del sole, finendo con aumentare la temperatura che inaridisce i campi, scioglie i ghiacci e aumenta il livello dei mari, acidificando gli oceani, disturbando e corrompendo il ciclo clorofilliano. In effetti, se si tratta il pianeta come un manufatto, sostituendo irresponsabilmente l’ecosistema naturale con un ecosistema artificiale, si tranciano connessioni indispensabili alla riproduzione delle nostre vite, lasciando sì immutato l’Universo, ma spegnendo per sempre la nostra presenza di osservatori vivi e coscienti del “mondo stellato sopra di noi”.

A questo punto, Conversi cerca nell’ideologia del nazionalismo, con i suoi insormontabili confini, la giustificazione che i popoli ricchi trovano nel ritenere che non ci sia posto per tutti sulla Terra e che quindi le migrazioni ambientali e le guerre abbiano una loro inconfessata scusante, fino all’accettazione di una polarizzazione della società sulla base del censo. E ciò con la conseguente mimetizzazione del capitalismo sotto le insegne del nazionalismo, capace di recuperare gli abitanti di un territorio ad un’identità rinsaldata anche quando le istituzioni sono a rappresentanza elitaria: non importa se la gente non va a votare, purché gli interessi dei possidenti rimangano inalterati e garantiti. Lo scopo dell’organizzazione umana viene fatto coincidere con la produttività e il primato tecnologico, mentre la crescita dello Stato-nazione viene posta al di sopra – egemone – rispetto ai suoi “concorrenti”. Perché mai il prossimo decennio dovrebbe essere dedicato alla supremazia tra Cina e Usa, mentre gli altri 7 miliardi di terrestri starebbero a fare da spettatori o fiancheggiatori?

Mentre la dimensione geoetica si contrappone alla dimensione geopolitica, dominata dagli Stati-nazione di cui è intrisa la pratica e la disciplina delle relazioni internazionali, non si può che annotare come il nazionalismo – ostile a fissare limiti anche locali allo sviluppo – abbia costituito un ostacolo all’avanzamento dei negoziati multilaterali sul clima e tuttora, anche sotto la copertura delle guerre in corso, distolga più risorse verso le armi e i fossili che non verso la salute dell’intera biosfera.

Una certa speranza di modificare l’impianto nazionalista viene da un riconoscimento di uomini e donne in una propria storia più frugale, più comunitaria. Ma si tratta tuttavia di sub-nazionalismi, in buona parte vanificati nei loro obiettivi una volta incorporati nelle istituzioni dello Stato-nazione. A meno che nel lungo periodo possa nascere una traiettoria per cui la conservazione del clima possa rinsaldare l’autostima e la gratificazione dell’orgoglio nazionale. E’ in parte il caso di sub-nazioni come la Scozia o la Catalogna, o della costruzione di una “nazione ambientale” come fino agli ultimi anni sembrava poter diventare la costruzione della Ue, almeno fino a che ha prevalso la pace.

In conclusione, la mitigazione del clima può progredire solo se le politiche sono coordinate multilateralmente a tutti i livelli di governance e – io aggiungo – di movimento organizzato. Non sono tanto le istituzioni statali, ma le loro articolazioni a livello territoriale, municipale e cittadino, con il sostegno della democrazia diretta, a dover depotenziare il nazionalismo oggi imperante.

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Cingolani, il fisico più inviso agli ambientalisti risulta il politico più affidabile per Meloni e Descalzi

Probabilmente Roberto Cingolani, fisico, esperto e manager multiforme, si era già “recato” sul Sole dove aveva acclarato il verificarsi del fenomeno della fusione che prometteva per il prossimo decennio sulla Terra, senza contare che si trattava di fenomeni e condizioni assai differenti. Infatti, l’enorme gravità della stella consente di compenetrare in abbondanza e con naturalezza – alla distanza di 150 milioni di km da noi – atomi di idrogeno che si trasformano in elio e non di dover creare apparati artificiali improbabili di enorme potenza soltanto per fondere per una frazione di secondo isotopi rari dell’idrogeno, come il trizio e il deuterio. Insomma, un impreciso diversivo pur di non affrontare il precipitare del cambiamento climatico.

“Ritornato” come se niente fosse sulla Terra, si è distinto nel dilazionare i tempi di passaggio alle rinnovabili insediandosi nella capitale in veste di Ministro per la Transizione Ecologica. Risultato: il Pniec è dopo un lustro ancora in revisione e la rincorsa al gas da ogni dove, gradita a Draghi e poi suggellata da Meloni e dal suo “vicepremier” Descalzi, è stata avviata nei suoi uffici. Dobbiamo molto a lui se una strategia energetica di fuoriuscita dal fossile – nonostante i favori che il Pnrr attribuisce all’Italia – non è nemmeno confrontabile con quella elaborata in Spagna o nei paesi nordici e se il conto terrificante delle emissioni di CO2 dovuto alle guerre in corso (un giorno di combattimenti in Ucraina equivale alle emissioni della provincia di Bologna) non lo turba affatto nel trasferirsi nella funzione di amministratore delegato di Finmeccanica, la massima industria bellica italiana. Quindi, il fisico più inviso agli ambientalisti risulta il politico più affidabile per Meloni e Descalzi, determinati al punto di offrirgli un banco di prova per una politica economica estera, dove i pagamenti avvengono spesso tramite il commercio di armi.

Sull’incredibile ritardo accumulato sulle rinnovabili è apparsa il 13 aprile su Italia Libera una lettera a Schlein e Conte, inviata da quattro ambientalisti protagonisti della svolta antinucleare italiana – che invito a leggere e che andrebbe spedita all’intera area (non solo Pd e M5S) – che sostiene un futuro di ecologia integrale: Gianni Mattioli, Vincenzo Naso, Massimo Scalia e Gianni Silvestrini rivendicano di essere stati tra i protagonisti di un percorso di transizione ecologica nato in Italia prima che in altri Paesi, ma che ora ha bisogno di un “aggiornamento”, di un obbligo rispetto all’accelerazione dei drammatici fenomeni innescati dal global warming. Non si può che condividere la richiesta di un impegno serio e possibile nelle fonti rinnovabili, rispetto al “bacino” dei 180 GW che già tre anni fa risultavano a Terna come richieste di allaccio alla rete e che avrebbe ottenuto ad oggi una quasi totale indipendenza dal gas russo.

Mentre “uno dei vicepremier –si legge nella lettera – si balocca su proposte tempestive e altamente attendibili come il ‘ponte sullo Stretto’ o il nucleare da fare ‘a Baggio’, sua residenza, mentre l’altro si fa espropriare gli interventi più importanti di politica estera dal ceo dell’Eni, Claudio Descalzi, che in verità, più che sembrare, è il vero dominus dell’Amministrazione Meloni. Infatti, si trascurano i suoi risibili obiettivi – 15 GW di rinnovabili entro il 2030, a fronte dei 100 GW della Total e di 50 GW della Bp – mentre propone l’Italia, forte della sua posizione nel Mediterraneo, come hub del gas per tutta l’Europa del Nord. Subito accompagnato dal cinguettio omofono di Giorgia Meloni, in nome della sovranità energetica nazionale”.

E’ del tutto da condividere il dar vita ad un grande progetto per la riconversione ecologica dell’economia e della società, come da decenni richiedono in tutto il mondo i movimenti ambientalisti, per la pace e per la giustizia sociale. È un impegno gigantesco, che necessita della partecipazione diretta dei cittadini, in forme di rappresentanza diretta, indiretta, partecipativa, associativa e sindacale, già in atto peraltro in alcune situazioni europee, che rimonti l’attuale disgusto per la politica così impietosamente misurato dalla costante crescita dei non votanti alle elezioni.

Si può e si deve fare: ne va sempre più drammaticamente del futuro nostro, dei figli e dei nipoti. Una risposta come quella realizzata a Civitavecchia, di cui sono stato testimone, ha costruito l’alternativa rinnovabile alla centrale a turbogas lungo la costa tirrenica e innescato nuovi progetti anche manifatturieri con grandi benefici per il lavoro, la sua riqualificazione e la salute del territorio.

Intanto, anche sulle spinte qui illustrate, nel Paese si incomincia ad avviare un percorso il più possibile largo e partecipato – con lo slogan in prima approssimazione “voi bloccate le rinnovabili, le rinnovabili bloccano i vostri uffici” – per un appuntamento di mobilitazione a inizio giugno sul tema del fermo delle rinnovabili nel nostro Paese. Finalmente anche l’Italia unisce le forze per impedire – come insidiosamente si palesa anche in alcuni incoerenze che spuntano nella stessa Commissione Ue – che la guerra, il pericolo nucleare e la crisi climatica rendano invivibile il pianeta che abbiamo ottenuto in prestito.

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