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Sulla fusione nucleare ho letto sciocchezze a fiumi: una mistificazione che può fare gravi danni

Abbiamo una comprensione teorica della fusione nucleare da oltre un secolo, ma siamo ben lontani dal poterla impiegare come fonte elettrica continua e controllabile. Eppure, Repubblica, lo scorso 14 dicembre, titolava: “Viaggio nel futuro, un bicchiere d’acqua ci scalderà per un anno. Nessun governo potrà più ricattare gli altri usando il petrolio o il gas come pistole”. Banalizzando e dando corpo a scenari irrealizzabili al presente e perfino scientificamente azzardati, una voce importante si è unita al coro fastidioso e incosciente di prostrazione del giornalismo nostrano all’annuncio che “l’Occidente” per definizione (gli Stati Uniti) è vicino, in solitaria, a realizzare il miracolo dell’energia del sole, così abbondante da tracimare da enormi impianti e da procrastinare il mito della crescita per un futuro senza limiti di contenimento.

“Ci vorranno almeno 30 anni” afferma invece Stefano Atzeni, dell’Università La Sapienza di Roma ed io ritengo che sia un grave errore da parte dei media tentare di capovolgere la sensazione diffusa che, invece, con la pandemia la guerra e il clima il tempo venga a mancare, se non si muta al presente, non fra 30 anni, il paradigma energetico dei fossili e del nucleare, rigidamente centralizzato ed a grande spreco.

E’ vero che il test realizzato al NIF (i laboratori di Livermore) ha prodotto più energia con la fusione di quella fornita ai laser utilizzati per provocare la reazione stessa. Ma è pur vero che, se si considera tutta l’energia impiegata e non solo quella che incide sul target, anziché un guadagno netto, si ha un rendimento da numero decimale. E non sarebbe inutile osservare che, dopo ogni singola “iniezione”, occorre raffreddare il sistema ottico e ripristinarne le condizioni normali, con tempi non inferiori al giorno.

Il profluvio di sciocchezze date alla stampa risulta fuorviante e di non trascurabile danno, in particolare nella fase in cui siamo. Si è scritto e detto che “il processo avviene a velocità superiore a quella della luce” (Repubblica), che si impiega “acqua pesante, cioè non distillata da usarsi come materia prima: anche quella di mare” (Rampini sul Corriere) e, ancora, che “una mezza palla da basket” – evidentemente magica – sarebbe dovuta entrare nel “cilindretto lungo pochi millimetri” (Ansa), oppure, che “la fusione inerziale non genera radioattività, non produce scorie” (Descalzi, ceo Eni).

Questo modo di procedere tra scienza a spanne e tecnologia un tanto al chilo, ha innescato un processo politico di coinvolgimento e informazione dei cittadini con l’obbiettivo di mettere sotto il tappeto le emergenze cui dobbiamo porre adesso riparo, a partire dal ripristino della pace e dall’eccessivo riscaldamento climatico. Un popolo incolpevolmente disinformato, una casta di giornalisti incompetenti ma pronti a propalare il mainstream predicato dall’Amministrazione Usa, una diffusione di miti energetici venturi, hanno occultato la “strada verso l’inferno” che stiamo percorrendo “col piede sull‘acceleratore”, come ha affermato il presidente dell’Onu Gutierrez alla Cop 27 in Egitto.

Sono tantissime le sfide tecnologiche che devono ancora essere superate, sia per la fusione a contenimento inerziale con i laser (quella che ha portato al risultato ottenuto a Livermore) sia per la fusione a confinamento magnetico (la tecnica del reattore Iter in costruzione a Cadarache in Francia).

Per averne un’idea, vale la pena di confrontare quello che davvero avviene nel nucleo del Sole a 150 milioni di Km da noi rispetto a quanto possiamo disporre sulla piccola Terra che gli ruota attorno. All’interno della nostra stella c’è un plasma di protoni, che, a quattro per volta, si fondono per dare un nucleo di elio, con un difetto di massa di 0,007 (che si traduce in energia secondo la famosa formula di Einstein E=mc2) grazie ad una temperatura di 16 milioni di gradi e, soprattutto, grazie ad una pressione elevatissima, intorno a 500 miliardi di atmosfere, dovuta all’enorme massa del Sole. Queste condizioni sono estreme su scala umana e pertanto non possono essere riprodotte.

Qui, nei nostri laboratori più avanzati, cerchiamo di ovviare alla impossibile replicabilità del processo di fusione solare, imitandone il principio, ma ricorrendo a due rari isotropi dell’idrogeno – deuterio e trizio – i cui nuclei arrivano a fatica a compenetrarsi alle temperature e pressioni massime cui può giungere la nostra tecnologia più raffinata. L’esperimento a Livermore ha per la prima volta registrato un ritorno di energia, ma la continuità del processo non è affatto all’orizzonte, nonostante l’imponenza degli impianti e l’intensità dei finanziamenti.

Si pensi che il Nif – situato, in California – ha le dimensioni di uno stadio ed è costato oltre 4 miliardi di dollari. Il suo ruolo nella ricerca di armi nucleari ne ha fatto un progetto controverso tant’è vero che il Sole 24 ore si chiede se “gli annunci dell’amministrazione Biden sulla fusione nucleare non siano un messaggio diretto a Vladimir Putin, che non ha niente a che fare con la crisi energetica in corso, ma, piuttosto, con i continui riferimenti del Cremlino a un attacco nucleare”.

E si rifletta sul fatto che Iter, il progetto concorrente a confinamento magnetico, è dotato di enormi toroidi percorsi da correnti di elevatissima intensità ed ha dimensioni di 20 metri di diametro e 10 metri di altezza con una capienza di circa 1000 m3. Se dovesse fornire energia con continuità, produrrebbe tonnellate di materiale radioattivo, essendo una intensissima sorgente di neutroni, che si arrestano solo sulla prima parete solida che incontrano.

Crea una certa apprensione la costruzione di “miraggi e società sempre più tecnocratiche, all’interno delle quali si starebbero perdendo i vincoli d’appartenenza e la possibilità di essere artigiani di legami e rompere le spirali che annebbiano i sensi”, come afferma Bergoglio. Temo che le mistificazioni sul “grande” risultato della fusione nucleare Usa rischino di allontanarci da quel che occorre fare già da ora con le fonti rinnovabili, accontentandoci del reattore a fusione che rimane a 150 milioni di Km. di distanza: il Sole.

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Nucleare, tra le istituzioni è in atto una potente distrazione dell’opinione pubblica

Che il prossimo decennio sia decisivo per la storia umana lo scrive nell’introduzione il documento in 80 pagine sulla strategia di difesa Usa (Dns), centrato in gran parte sull’impiego dell’arma nucleare. Decisivo lo sarà, credo, perché incombono sul pianeta tre emergenze indifferibili se irrisolte: il brusco cambiamento climatico, la possibilità di una guerra nucleare, una crescente e insopportabile ingiustizia sociale. Ma, se si guardano i nostri telegiornali o si ascoltano le dichiarazioni finali dei summit sul clima o dei G20, sembrerebbe che il tema di fondo del prossimo decennio debba essere quello della contesa per la supremazia militare ed economica tra Usa e Cina, con la Russia ridotta a potenza regionale o peggio. Geopolitica al top e biosfera e natura retrocesse a preda del vincitore.

Una simile distorsione nell’interpretare l’epoca attuale comporta un arretramento di civiltà, un ignobile spreco di risorse necessarie alla sopravvivenza, la predisposizione alla guerra come soluzione della “concorrenza” tra blocchi in corsa per l’egemonia globale. La pace, che è il diritto sociale da cui dipende la fruizione di ogni diritto individuale, sociale ed ambientale viene collocata ai margini, forse perché i governanti della parte più ricca dell’umanità arrivano a pensare che non ci sia spazio per tutti nel futuro del Pianeta.

Nel solco di una così terrificante ipotesi, mai palesemente esplicitata, la guerra provocata dall’invasione russa dell’Ucraina non troverà fine e anzi si allargherà a nuovi cobelligeranti, mentre la società, sotto il segno di atroci sofferenze, distoglierà lo sguardo dal fare di dove abitiamo un luogo vivibile, ben oltre il prossimo decennio. E’ in atto una potentissima “distrazione” dell’opinione pubblica, che si rivela anche attraverso un lessico profondamente incisivo che passa addirittura dalle istituzioni. Ormai il nazionalismo riarmato è la forma di competizione proposta ai popoli dentro i loro confini: nella Defence National Strategy Usa (Dns) la parola “nostra patria” compare 59 volte e i nemici sono chiamati “concorrenti”, mentre i militari sono definiti “forza lavoro” ed è l’esercito che deve occuparsi di “resilienza al clima”; da noi, più timidamente, il governo titola i nuovi ministeri con parole come “sicurezza energetica”, “sovranità alimentare”, “merito”, che non alludono certo all’inclusione e alla fraternità universale. Ne segue che la democrazia liberale e lo spirito imprenditoriale diventano l’orizzonte da estendere, ma non superare, affinché “tutti la pensino allo stesso modo” e la crescita prosegua per i più attrezzati.

In un cambiamento così denso di potenza è l’energia che fa da padrone, anche sotto la forma più incontrollabile delle armi. Così, se la bomba nucleare non è più solo un elemento di deterrenza – come lo è stata fino ad ieri dopo Hiroshima e Nagasaki – allora entra in gioco sia come dissuasore tattico che addirittura come occorrenza di “first strike” quando le minacce del nemico mettono in discussione una supremazia affermata e da esibire (“deterrenza integrata” è la ridefinizione nella Dns). Nella prospettiva di un mondo caratterizzato dalla presenza della vita, una tale discontinuità è enorme. In questo quadro “scosso” è facile far scivolare l’opinione pubblica verso il nucleare civile, da fissione o fusione che sia, raccontato come praticabile e difendibile quanto l’uso incontenibile delle armi – fino a quella atomica (si pensi che il presidente della Lombardia Fontana ha dichiarato di essere disponibile a valutare un reattore nucleare in Lombardia).

Assunto questo rischio, la guerra locale assume già dimensione globale. E il rilancio dei fossili fa parte di un “ritorno al prima” che la pandemia sembrava avere esorcizzato. Pertanto, mentre viene sanzionato e tolto di mezzo il gas russo, non si programma affatto il rilancio delle rinnovabili, ma si acquista addirittura metano liquido estratto da pozzi oltremarini e localmente rigassificato, con un bilancio energetico ed economico disastroso (il prezzo che gli europei pagano per il gas è quattro volte quello quotato negli Stati Uniti).

Ci si accorge solo ora che la transizione energetica in tempo di guerra sta diventando anche una guerra commerciale Usa-Ue (vedi l’articolo di F. Saraceno su Domani del 4 dicembre). Che l’energia sia un bene pubblico strategico è diventato chiaro con lo scoppio della guerra in Ucraina, che ha rotto le cuciture con la Russia del modello energetico tedesco e italiano e di altre regioni continentali, mentre un’estate di siccità e problemi di manutenzione in vari impianti hanno messo in discussione anche la riproducibilità del modello francese, progettato attorno al nucleare.

L’energia più economica è diventata un enorme vantaggio competitivo per le aziende americane. Biden ha varato una legge che prevede 800 miliardi di aiuti federali per un volume di investimenti industriali da 1.700 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Si tratta di un grande sforzo nella direzione della manifattura, per tutto ciò che ha a che fare con la transizione energetica: pannelli, turbine eoliche, idrogeno, nucleare, batterie, auto elettriche, cattura delle emissioni, biocarburanti, estrazione e raffinazione delle materie prime strategiche, auto elettriche, semiconduttori. Al confronto, il Recovery europeo da 800 miliardi – di cui gran parte solo per acquistare e installare tecnologie fatte all’estero – sparisce. Le aziende europee di grandi dimensioni stanno pianificando nuovi investimenti negli Stati Uniti o addirittura trasferendo le loro attività esistenti alle fabbriche americane: Enel (Italia), Safran (Francia), Northvolt (Svezia), Iberdrola (Spagna) e la multinazionale tedesca Basf ne sono un esempio.

C’è bisogno di un robusto ritorno della politica sul lavoro, l’occupazione, la riconversione ecologica, inserito nella ricerca ostinata della pace. Robert Habeck, vice-cancelliere tedesco, ha dichiarato all’AdnKronos: “È finita la fase in cui molti pensavano che i mercati comandassero e la politica dovesse starne fuori (…). Quando si tratta di energia, commercio, infrastrutture, non esistono decisioni impolitiche”.

In Italia, invece, si discute al più di condoni e mini-cunei fiscali, soglie del contante, quota 103 per la pensione, al più di aiuti in bolletta, perdendo di vista le politiche industriali e, per insana abitudine, cancellando il giorno dopo quel che è accaduto il giorno prima, come è avvenuto per la grande manifestazione del 5 novembre a Roma per il cessate il fuoco.

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Con la guerra prosperano carbone e metano. La nuova ‘transizione’ è verso i fossili?

Già il 22 ottobre scorso Federico Fubini poneva sul Corriere della Sera il dubbio se la transizione energetica, proiettata al 2030 dal Green Deal UE come “fit for 55- rinnovabili – efficienza – idrogeno verde”, fosse invece stata convertita, in seguito alla piega presa dalla guerra in Ucraina e all’applicazione delle sanzioni alla Russia, in ricerca affannosa di un approvvigionamento d’emergenza di gas, reso sollecitamente accessibile dagli Stati Uniti di Biden.

La potenza militare più temuta al mondo, già egemone tecnologicamente e autonoma energeticamente, avrebbe così posto l’Italia “in uno stato di inferiorità strategica, competitiva e industriale rispetto al mondo di oltreoceano con pochi precedenti recenti”.

Anche nell’ultimo numero di Limes (9/2022) molti articoli sollevano analoga preoccupazione, estesa all’intera Europa. In essi si rimarca l’inedita e svantaggiosa dipendenza da gas importato e quotato al mercato a prezzo ben più caro rispetto al gas russo bloccato dalle sanzioni. Il fixing è ormai passato alla borsa di Amsterdam e si è moltiplicato inesorabilmente, dato che i rifornimenti sotto forma di Gnl (Gas liquido naturale) stanno provenendo via nave e in gran parte dal Golfo del Messico.

Oltre Atlantico, infatti, viene estratto il gas di scisto, trasferito ad impianti di liquefazione e trasportato dalle metaniere che, oltre alla Spagna ed ai Paesi baltici, dove già approdano, potrebbero ormeggiare lungo le nostre coste presso grandi impianti rigassificatori, a complemento del gas residuo dei metanodotti dall’Africa e dall’Azerbaijan.

Il ciclo Gnl è molto inquinante: passa infatti da estrazioni rovinose sotto il profilo ambientale (shale gas e sabbie bituminose), dal successivo processo di liquefazione, dal trasporto via mare da lunga distanza in grandi serbatoi, dalla successiva rigassificazione e dall’aggancio finale ai tubi dei gasdotti locali. In questi passaggi complessi risulta ancor più rilevante la dispersione in atmosfera di quantità di CH4 puro, fortemente climalterante.

Sostituzione gas-gas, quindi, non gas-rinnovabili e ad un prezzo che da noi si paga sei volte quel che si paga negli States. A questo proposito, fa sorridere l’obiezione delle soprintendenze al paesaggio al posizionamento di pale eoliche a 30 Km dalle coste, come a Civitavecchia, rispetto all’accettazione di un enorme impatto in porto dovuto a mastodontiche navi cisterna assistite da serpentine riscaldate dall’acqua di mare per portare a temperatura di evaporazione il metano liquefatto nei serbatoi. Un impianto rilevante anche per volume, immerso sott’acqua e grazie al quale viene sconvolta se non congelata per anni la biosfera che si muove nei fondali attorno.

L’effetto del nuovo sistema di movimentazione del gas allo stato liquido anziché gassoso porterà ad un protrarsi del ricorso al metano ben oltre i termini fissati dalla Ue: parlo – dati gli ingenti investimenti e la mole degli impianti – di assai più di dieci anni di mantenimento di questa fonte fossile nel mix nazionale di produzione di elettricità.

La fornitura di gas liquido, in effetti, rappresenta una rivoluzione silente, ma molto perniciosa e, di fatto, contiene la risposta di Gas &Oil per ritardare la “transizione ecologica”, da Giorgia Meloni trasformata – anche lessicalmente – in “sicurezza energetica”.

Come se non bastasse, la diplomazia dell’Eni si è mossa con Mario Draghi in Africa a complemento e potenziamento di nuove condotte che, dopo essersi immerse nel Mediterraneo, risbucherebbero lungo la nostra penisola, per renderla così l’hub del rilancio dei fossili. Quindi, transizione infinita, e definitiva concentrazione finanziaria e produttiva nelle mani dei soliti noti, attorniati magari da ricambi maggiormente affini alla nuova maggioranza parlamentare.

In sostanza, sotto la supervisione di Guido Crosetto e di Roberto Cingolani, il governo associa l’invio di armi all’Ucraina ad un revival della combustione ad elevate emissioni (e, in futuro, chissà, reattori nucleari!), come attestano i profitti delle industrie delle armi e di Oil&Gas che si sono impennati dai primi mesi 2022.

Quindi, carbone a pieno ritmo nelle centrali, sfruttamento estensivo di tutti i giacimenti nazionali fossili e decisa e duratura ripresa della filiera che dal metano finisce in CO2, dispersa in atmosfera o infilata sottoterra, con bilanci di energia e materia insostenibili e inconfrontabili con quelli delle filiere rinnovabili assistite da stoccaggi e finalizzate a comunità energetiche.

C’è un legame tra la guerra, la procrastinazione dell’uso del gas, il brusco cambio del clima da una parte e le manifestazioni di insofferenza degli studenti, la coscienza sicura e diffusa del degrado della biosfera e del pericolo nucleare dall’altra, che vanno a sostegno della mobilitazione razionalmente non violenta e senza bandiere dei pacifisti. Si incomincia ad intendere, anche sotto le atrocità della guerra e alle minacce della bomba, che c’è un “taglio militare” che sostiene la “sicurezza energetica e climatica” contrapponendola alla “giustizia climatica” .

Ho la speranza che cominci a manifestarsi un bisogno di democratizzazione del processo decisionale e l’emergere di nuove forme di sovranità che richiederebbero necessariamente una riduzione del potere e del controllo dei militari e delle corporazioni e un aumento del potere e della responsabilità nei confronti dei cittadini e delle comunità. La crescita dell’astensionismo recente significa anche questo e la politica dovrebbe rendersene conto.

Ora che stiamo avviandoci a convivere con la “terza guerra mondiale” domandiamoci: che impatto hanno i fossili, il militarismo e la guerra sull’ambiente e la crisi climatica, nel momento in cui stiamo valicando il limite di 1,5 °C per attestarci oltre 2,5°C? E’ ancora accettabile l’annientamento di popoli, territori, coltivazioni, animali, in oltre 200 territori in armi nel mondo, uno dei quali dentro l’Europa?

La sicurezza energetica e climatica che i governi continuano a perseguire è un concetto a carattere prevalentemente nazionale che rafforza le dinamiche a favore della militarizzazione dei confini e descrive la migrazione su larga scala come “il problema più preoccupante associato all’aumento delle temperature e del livello del mare”.

I piani di sicurezza climatica si nutrono di narrazioni di paura e di un mondo a somma zero in cui non tutti possano sopravvivere. Ad essa, purtroppo, ritengo si possa orientare l’attuale governo in carica, se non ci sarà un’opposizione sociale e politica all’altezza.

La giustizia climatica, al contrario, non contempla la guerra e adotta un approccio incentrato su forme pacifiche e non violente di risoluzione dei conflitti. Alla ricerca urgente di soluzioni praticabili come le energie naturali e le comunità energetiche, che ci permettano di prosperare in pace e di proteggere i più vulnerabili. La manifestazione del 5 novembre avrà al centro anche queste riflessioni.

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La guerra in Ucraina è sempre più energivora: attenzione all’illusione nucleare

Mentre la guerra in Ucraina ostenta un ulteriore inasprimento e prefigura da ambo le parti un suo prolungamento che un Kissinger preoccupato azzarda a definire “guerra infinita”, si incomincia a riflettere su quanto sia energivoro il “capitalismo della sorveglianza”, che sembra tener banco nella contesa per la supremazia globale (v. Andreas Maln, Come far saltare un oleodotto, ed. Ponte alle Grazie). Siamo al cospetto di un conflitto armato a tutto campo, in allargamento spaziale e temporale e sempre più energivoro, che si pone di fronte ad un passaggio fatale dagli esplosivi inorganici e chimici, già ad altissima densità energetica, verso quelli nucleari, incontrollabili per potenza irreversibilmente distruttiva.

La guerra ha un impatto ecologico devastante: se diventasse nucleare la specie umana scomparirebbe ed è anche perciò che l’impiego civile della fissione nei reattori non può essere disconnesso dalla destinazione dei suoi prodotti ad uso bellico. Già allo stato attuale, solo in Ucraina, la pressione che il conflitto esercita sulle foreste per il taglio indiscriminato di alberi e per gli incendi della vegetazione, lo spostamento di attrezzature, mezzi pesanti, munizioni nonché l’allestimento di operazioni militari che disperdono incessantemente con ordigni chimici e infestanti distruzione e morte, fanno stimare un aumento superiore al 10% delle emissioni totali dovute alle sole attività militari. Un danno grosso modo equivalente alle emissioni di climalteranti in 10 anni di attività della popolazione subsahariana.

Se lo scenario politico post pandemia e globalizzazione si affidasse alle guerre e non venisse sconfitto dal ritorno della pace, allora il modello energetico del Green New Deal della Ue fallirà e il cambiamento climatico sarà ancora più brusco, alimentato da uno scontro tra blocchi che ricorrerebbero a qualunque forma di energia (fossili, ma anche atomiche) per concorrere all’egemonia sul pianeta. Purtroppo, le decisioni ultime dei cobelligeranti della guerra in corso rischiano concretamente di archiviare l’ottenimento di risultati tangibili in tema di contrasto al global warming per i prossimi due-tre decenni.

L’illusione nucleare vorrebbe deviare un movimento che cerca la prospettiva dell’ecologia integrale assieme alla pace, le energie rinnovabili assieme alle comunità energetiche e che riempirà di giovani soprattutto le piazze del 5 novembre. Non c’era di meglio, per rompere questo messaggio in formazione, che assoldare all’atomo – con determinazione sospetta – la leggerezza con cui Greta Thunberg ha “aperto” al mantenimento in vita dei reattori già in funzione in Germania. Stiamo ai fatti: in una intervista l’attivista svedese si limita a dire che “Se l’alternativa è tornare al carbone meglio lasciare accese le centrali per la produzione di energia atomica”. Di fronte al clamore scatenato dalla sua dichiarazione, Greta ha precisato che “Oggi, come sempre, è importante fare attenzione a coloro che ascoltano la scomoda verità solo quando rientra nella loro agenda”. Forse faceva riferimento anche alle nove colonne di Repubblica del 12 ottobre e al Foglio che titolava “Per la prima volta l’Italia ha una maggioranza favorevole al nucleare (che ora piace anche a Greta)”.

Sul piano comunicativo si tratta di cosa non da poco: il volto del movimento ambientalista di Fridays for Future è consapevole che le sue affermazioni faranno discutere, anche se si era riferita al ricorso al metano e all’atomo come “false soluzioni, necessarie tuttavia al posto del carbone”. Greta pecca di leggerezza e si nasconde dietro ad una ambiguità mai ben risolta anche nel movimento FFF, che si concentra quasi esclusivamente sulle emissioni climalteranti, anziché, più complessivamente, sull’energia interna del pianeta che può essere deturpata per milioni di anni dalle scorie radioattive. La mia convinzione è che nel rapporto sul futuro della conversione ecologica non si possa rimanere inchiodati solo su una prevista riduzione di CO2/KWh a fronte della durata di secoli di radiazioni che intaccano il genoma e ridisegnano le forme della vita (e della morte). Provo a rivolgere a Greta e ai suoi meravigliosi attivisti tre obiezioni perché non cedano su un compromesso che ha alle spalle grandi potentati economici e militari, che insidiano già ora l’esito dei conflitti armati e il limite della natura.

Per farlo, mi riferisco al caso francese – “tutto nucleare” – che è alle prese con tre insolute questioni:

1- mantenere il funzionamento dei reattori di seconda generazione in servizio da oltre 40 anni. In Francia, dei 56 reattori del parco nucleare, quasi due terzi hanno raggiunto una vita operativa di oltre 31 anni (11 hanno superato i 40 anni). Gli organismi territoriali di competenza non hanno nessun potere giuridico per scongiurare incidenti.

2- smantellare i reattori non più in funzione. E’ tuttora in corso lo smantellamento degli impianti di prima generazione inizialmente prevista per il 2036. Ma la fine dello smantellamento dovrebbe essere a lungo posticipata a causa delle difficoltà segnalate per la sicurezza del personale addetto allo smantellamento, e la difficoltà a garantire la totale bonifica dei siti.

3- affrontare la saturazione dei siti di stoccaggio delle scorie radioattive e la forte opposizione da parte delle associazioni antinucleari (Sortir du nucléaire et al.) al progetto di stoccaggio sotterraneo Cigéo (a Bure, nella Meuse), che ha fatto sì che non sia stato finora validato.

Tutto ciò ha impatti economici, sulla salute e sull’incolumità imprecisabili e a debito delle nuove generazioni.

Infine, un’osservazione sullo sviluppo di piccoli reattori nucleari (Small Modular Reactors o SMR) caratterizzati dalla loro relativamente bassa potenza e dalla loro costruzione modulare (IV generazione). Il materiale fissile è il Plutonio239, ed una volta introdotta una carica iniziale, viene rigenerato grazie alla presenza di un materiale fertilizzante (generalmente Uranio238) irradiato dai neutroni nelle reazioni di fissione e che deve essere periodicamente rinnovato.

Oltre alla radio-tossicità molto elevata del Plutonio, la dispersione più ‘capillare’ dell’inquinamento (scorie + smantellamenti) sarebbe ancora nettamente più difficile da gestire e controllare che per i reattori attualmente in servizio. Senza dimenticare che ogni impianto nucleare di potenza può diventare bersaglio, accidentale o volontario, di attacchi militari o terroristici con esiti catastrofici.

Dobbiamo contare sulla straordinaria opera di divulgazione e suggestione di Greta, ma impedire che il complesso industrial-militare se ne possa fare strumentalmente scudo per una ripresa di tecnologie energetiche centralizzate, che escludono la partecipazione, che minano la riproduzione della vita.

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Nord Stream, così si rompe un equilibrio ancora negoziabile della guerra in Ucraina

Forse pochi hanno notato come i media stiano – comprensibilmente – demonizzando la mossa oscena di Putin di annessione alla Russia di regioni ucraine, ma lascino in ombra l’amputazione per sabotaggio del collegamento tra la Russia e l’Europa dei due metanodotti del Baltico. Dal punto di vista “politico e militare”, le implicazioni sembrerebbero non essere confrontabili: ma, a ben guardare, stanno purtroppo in relazione. Di fatto, questi due fattori – da una parte l’espansione territoriale della Russia verso il Mar Nero, dall’altra il blocco dei canali energetici da oriente verso l’Europa – convergono ogni volta che la crisi raggiunge un punto di svolta e la guerra fa un balzo in avanti verso il baratro, come confermano i due missili lanciati sul parcheggio di un convoglio umanitario a Vinnytsia, e la minaccia dell’”atomica strategica” dietro l’angolo. Dal punto di vista “fisico”, sabotare un tubo di un metro di diametro caricato di metano e immerso con tutte le precauzioni in mare per 1200 km si risolve in un’esplosione di qualche centinaio di chilogrammi di tritolo applicata all’infrastruttura da apparati segreti ed invisibili, mentre la modifica dei confini nel Donbass, pur rappresentata dalla modifica di un tratto di matita sulla carta geografica cui viene associato un colore diverso, ha comportato massacri feroci e combattimenti cruenti sul terreno.

Ma perché tutta la stampa occidentale non vuole mettere in rapporto l’isolamento dei canali commerciali con la Russia e l’inverno terribile che ci aspetta, con la recrudescenza della guerra “pazza” – come dice Francesco – se non perché, oltre che nella pretesa di Putin, prevale nella testa di Zelensky e della Nato lo stigma della vittoria a tutti i costi?

Distruggere i due gasdotti è – come l’annessione del Donbass – distruggere un equilibrio ancora negoziabile della guerra in Ucraina: nel caso del metano in particolare, significa distruggere l’asse dell’energia ancora sopravvissuto fra Berlino (Roma?) e Mosca. Intanto i prezzi del gas sul Ttf olandese sono schizzati nuovamente in alto, fino a 208 euro/MWh a seguito del tentativo di destabilizzare ulteriormente l’approvvigionamento energetico dell’Ue. Va detto che finora la Russia, nonostante il calo delle importazioni del suo gas da parte dei Paesi Ue negli ultimi mesi, ha tratto ingentissimi profitti grazie alle elevate quotazioni del combustibile sui mercati, le quali hanno più che compensato la riduzione dei volumi venduti, e che Kiev ha anche sfruttato la situazione per chiedere maggiore sostegno militare contro gli aggressori, mentre il netto incremento dei volumi di Gnl verso la Ue dai mercati internazionali (Usa, Qatar, Azerbaijan e Norvegia in primis) hanno rimpinguato le casse degli apparati militari e fossili di tutti i cobelligeranti. Questo è il bilancio economico perverso della guerra in corso. Peraltro, gli “incidenti” sui gasdotti russi sono avvenuti in concomitanza con il lancio del gasdotto Baltic Pipe: inaugurato ufficialmente martedì 27 settembre a Goleniów, in Polonia, trasporterà fino a 10 miliardi di metri cubi di gas.

È solo una coincidenza? Quel che è certo è che affidarsi al gas è una scelta sempre più rischiosa, a prescindere da chi lo fornisce e come.

Mentre si discute la possibilità di introdurre un tetto Ue ai prezzi del gas – ipotesi che finora ha diviso gli Stati membri – la Commissione europea dovrebbe aumentare iniziative e investimenti per ridurre la domanda di energia e sviluppare le fonti rinnovabili, le uniche in grado di assicurare una maggiore sicurezza e indipendenza energetica, ora che il cordone ombelicale che legava la Russia all’Europa sul gas è stato spezzato e galleggia in alto mare.

Prima di passare a inquietanti considerazioni ecologiche, vorrei ricordare come ormai la politica energetica tedesca non veniva più decisa a Berlino ma a Washington: uscita di scena Angela Merkel, gli Usa hanno avuto campo libero e, con la distruzione dei due gasdotti, è stata preclusa ulteriormente la via del negoziato ed è stata consegnata l’Europa intera alla dipendenza prolungata dalle importazioni di gas soprattutto statunitense, con conseguenze incalcolabili sul tenore di vita della popolazione.

E poi c’è l’aspetto ambientale, anch’esso oscurato. Quello avvenuto a lato della Danimarca è il peggior disastro nel campo dell’emissione di metano. Greenpeace scrive che, secondo calcoli preliminari, il potenziale impatto climatico della fuoriuscita di metano dai Nord Stream potrebbe essere di 30 milioni di tonnellate di CO2eq nell’arco di 20 anni: nel prossimo ventennio, un arco di tempo cruciale per l’azione sul clima, ogni tonnellata di metano emessa avrà impatto pari a 84 tonnellate di CO2eq (pari alle emissioni di gas serra di due milioni di auto in un anno.

Intanto nella UE si discute del price cap del metano. Purtroppo, è sul mercato che la Ue stessa ha chiesto di spostare le modalità e i prezzi di acquisto: ma, essendoci tre mercati regionali d’acquisto, quello russo, ormai tagliato fuori, avrebbe mantenuto prezzi più contenuti. Intanto, si va allargando come conseguenza anche il prezzo dello scambio delle emissioni, con conseguente rincaro del metano bruciato. La notizia data da Cingolani di avere a disposizione quantità di scorte nazionali vicine al 100% non è per nulla rassicurante: innanzitutto, sono state pagate 10 volte rispetto l’anno precedente, mentre – in quasi totale silenzio – la domanda nazionale di greggio russo e di carbone nel 2022 sono aumentate del 112% e del 18% rispettivamente. In definitiva, con un profitto evidente di Usa, Qatar e Norvegia, rallenta la transizione ecologica del Next Generation Ue.

Purtroppo tutti i fattori – economici, commerciali e industrali – si allineano sul risultato più pericoloso, e in un certo senso i fattori dell’espansione territoriale della Russia in Ucraina e del blocco dei canali energetici verso l’Europa convergono ogni volta che la crisi raggiunge un punto di svolta. Ogni settimana più pericoloso. E ogni settimana da tenere sotto la stessa allarmata, se non disperata, apprensione.

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