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Fukushima, bombe, transizione ecologica: l’Italia rimane vittima di un governo incompetente

di Mario Agostinelli e Alfiero Grandi

Una notizia gravissima per l’ambiente, già sotto stress per la crisi climatica, come l’inizio del versamento nell’Oceano Pacifico delle acque inquinate dalla radioattività della centrale nucleare di Fukushima sta passando senza suscitare purtroppo le reazioni che merita.

L’incidente nucleare di Fukushima in Giappone non solo ha confermato la pericolosità delle centrali nucleari civili in quanto tali, perché sottoposte a pericoli di varia natura nel loro funzionamento, ma anche la possibilità di eventi naturali eccezionali come fu il terremoto e poi lo tsunami che ne seguì. Dopo 12 anni non solo il Giappone ha ripreso la produzione di energia attraverso il nucleare “dimenticando” vittime e un territorio enorme inquinato, ma ha scelto di gettare in mare una grande quantità di acqua inquinata da radioattività, finora custodita in grandi contenitori in territorio giapponese, scaricando su tutta la popolazione mondiale le conseguenze dell’incidente, incurante delle proteste e sicuro che la potente lobby del nucleare appoggerà questa scelta sciagurata, perché altrimenti dovrebbe ammettere i pericoli che gravano su tutta la popolazione mondiale.

Erano possibili altre scelte, senza mettere a rischio le acque dell’oceano Pacifico, con l’obiettivo di gestire in sicurezza le conseguenze dell’incidente nucleare.

Il governo italiano, come purtroppo tanti altri, nel sostanziale silenzio dell’Europa non ha preso alcuna iniziativa. Non risulta che l’ineffabile riunione del G7 abbia discusso l’argomento per dissuadere il Giappone dal fare una scelta pericolosa, le cui conseguenze possono essere devastanti, ad esempio minacciando di bloccare l’acquisto di pesce pescato dal Giappone e in particolare mettendo sotto sorveglianza quello proveniente dal Pacifico, per evitare almeno il sushi inquinato dal nucleare.

Un conto sono eventi naturali che non si è in grado di contrastare, altro sono scelte fatte a freddo che mettono a rischio una parte del mondo e forse non solo quella, visto che come sappiamo le trasmigrazioni di pesci (basta pensare al granchio blu) e di piante è all’ordine del giorno. Le relazioni sempre più strette e frequenti portano a situazioni sconosciute, se poi l’inquinamento radioattivo viene diffuso nelle acque le conseguenze potrebbero essere pesanti e diffuse.

Non solo il governo italiano non si è occupato di un avvenimento di prima grandezza come questo: non ha neanche trovato modo di dissentire dalle bombe all’uranio impoverito che la Gran Bretagna ha deciso unilateralmente di inviare in Ucraina, come se non ci fossero già stati migliaia di militari che li hanno usati, oltre che tanti civili, ammalati di cancro, anche italiani. Si poteva almeno ripetere il dissenso della presidente del Consiglio manifestato sull’invio delle bombe a grappolo inviate dagli Usa in Ucraina (vietate dalla convenzione internazionale) anche sulle bombe a uranio impoverito, invece silenzio di tomba.

Del resto questo governo si caratterizza per avere un ministro dell’Ambiente del tutto incapace e comunque senza peso politico. L’Italia dovrebbe puntare senza ritardi sulla scelta delle energie rinnovabili che darebbero un risultato di autentica autonomia nazionale dalle fonti fossili, invece il peso degli interessi legati ai combustibili fossili è sempre più forte e gli investimenti sulle energie rinnovabili, proprio perché dipendono da fonti naturali, sono in grave ritardo, come dimostrano i dati degli ultimi anni. In particolare non si capisce quale sia il coordinamento tra i ministri dello Sviluppo e quello dell’Ambiente che dovrebbero insieme costruire una strategia sull’auto del futuro, più in generale sulla mobilità, e su questa base cercare intese con le aziende e i sindacati sulle condizioni da realizzare per garantire una transizione ecologica accelerata, mentre ogni occasione è buona per cercare di ritardare, di rinviare, facendo rimanere l’Italia isolata dai paesi più avanzati in Europa.

L’unica novità è che il ministro Pichetto Fratin, immemore di ben due referendum popolari che hanno bocciato a larga maggioranza il nucleare civile, continua a chiacchierare di una nuova generazione di centrali che oggi non solo non esistono ma sono sostanzialmente simili a quelle esistenti, pericolose e inquinanti e per di più costosissime, di fronte a una penuria di uranio per farle funzionare.

Di questo passo il nostro paese rimarrà fuori dalle scelte più avanzate, non investirà sui settori del futuro e sull’innovazione del lavoro e rimarrà vittima di un governo che pensa di cavarsela sfruttando le maggiori entrate da inflazione senza capire che diventeranno presto maggiori spese e porteranno a una ulteriore divaricazione sociale tra redditi alti e redditi bassi. Ci mancherebbe solo che questo impasto di arretratezza e incompetenza italiana dopo le elezioni diventasse il modello per l’Europa.

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La vera soluzione al problema delle armi nucleari non è la non-proliferazione ma la loro abolizione

di Mario Agostinelli e Luigi Mosca

Abbiamo tutti sentito dire e ripetere che il Trattato di Non-Proliferazione (Tnp) ha avuto un grande successo poiché tutti i paesi l’hanno firmato, eccettuati l’India, il Pakistan e Israele, oltre alla Corea del Nord che è uscita dal Tnp nel 2003. Questo trattato precisa che (articolo VI) “ciascuna delle Parti del trattato si impegna a portare avanti, in buona fede, dei negoziati su delle misure efficaci relative alla cessazione della corsa agli armamenti nucleari a una data ravvicinata e al disarmo nucleare”. I paesi non detentori delle armi nucleari hanno quindi interpretato questo trattato come un processo di eliminazione delle armi nucleari.

Ora, al di là dell’“entusiasmo” iniziale, il Tnp si è rapidamente rivelato inefficace: in effetti, il numero di Stati detentori dell’arma nucleare al momento della sua adozione nel 1968 – i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con diritto di veto: Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e Cina – è pressoché raddoppiato, poiché altri quattro Stati (India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) si sono anch’essi dotati dell’arma nucleare.

Come menzionato più sopra la Corea del Nord, che aveva firmato il Tnp, ne è uscita nel 2003, affermando che la sua “sicurezza” era minacciata. Questa possibilità è prevista nello statuto stesso del Tnp, cosicché questo ritiro potrebbe provocarne altri, a cominciare, per esempio, dall’Iran che, a seguito della violazione dell’Accordo di Vienna del 2015 da parte di Donald Trump nel 2018, ha ripreso l’arricchimento dell’uranio naturale in uranio fissile (U235) sino almeno al livello del 60%, il che significa che la soglia di circa il 90% per la produzione di bombe nucleari potrebbe essere raggiunto abbastanza rapidamente: si tratta soprattutto ora di una scelta politica.

Poi l’Arabia Saudita, che aveva finanziato il programma nucleare militare del Pakistan negli anni 90, è molto preoccupata per l’andamento del programma nucleare iraniano, che potrebbe spingerla a sviluppare un programma equivalente con l’aiuto del Pakistan (un “ritorno dell’ascensore”). Inoltre il Giappone, che si “accontenta” per il momento di rimanere sotto l’”ombrello” degli Usa, dispone però di una forma di “tacita deterrenza nucleare” grazie ai suoi impianti nucleari civili che hanno già permesso di produrre diverse centinaia di chilogrammi di plutonio di qualità militare e uranio altamente arricchito, che poi hanno consegnato agli Stati Uniti. In Corea del Sud, il presidente Yoon Seok-yeol ha recentemente emesso l’auspicio che gli Stati Uniti installino armi nucleari tattiche di fronte alla crescente minaccia della Corea del Nord, senza escludere la possibilità di produrle loro stessi. Inoltre, circa il 70% dell’opinione pubblica, sempre meno fiduciosa nell’“ombrello nucleare” statunitense, si dice favorevole a tali scenari.

Perché un bilancio così negativo del Tnp? In realtà non c’è da stupirsi: il Tnp è fondato su di una base che da un lato è ingiusta e, dall’altro, perversa. L’ingiustizia: in virtù di quale diritto i cinque Stati iniziali, già ampiamente in possesso di armi nucleari, potevano chiedere agli altri paesi di rinunciare definitivamente a qualsiasi arma nucleare se essi stessi non erano disposti a rinunciarvi realmente? È vero che il Trattato di Non Proliferazione includeva un impegno da parte delle cinque potenze nucleari di eliminare le proprie armi (come si è visto, attraverso l’articolo VI), ma questa promessa, a carattere non veramente costrittivo, non era altro che un inganno, come l’esperienza successiva ha ampiamente provato.

La perversità: il Tnp prevede un aiuto ai paesi firmatari che lo richiedono per sviluppare sul loro territorio il “nucleare civile”, condizione questa perversa poiché il nucleare civile può essere una via privilegiata verso il nucleare militare. In effetti l’“aiuto” allo sviluppo del nucleare civile ha, da un lato, rappresentato un’apertura di mercati a forte rendimento economico per i cinque paesi già nuclearizzati: si veda l’esempio degli Stati Uniti verso il Giappone, per di più con i risultati che si cominciano a vedere (Fukushima…). D’altro lato, le infrastrutture fornite dal Canada sono servite all’India per dotarsi dell’arma nucleare; la Francia ha collaborato, tra gli altri, con Israele su diversi aspetti… E attualmente un paese che si procurasse delle istallazioni per l’arricchimento dell’Uranio (centrifughe), oppure per la separazione del Plutonio, disporrebbe di mezzi importanti per sviluppare un programma militare.

Inoltre la malafede degli Stati dotati dell’arma nucleare è evidente soprattutto nelle loro attività per la modernizzazione delle loro armi. Mentre il Tnp prevede l’apertura di negoziati “in buona fede” in vista dell’eliminazione delle armi nucleari, la decisione di modernizzarle esprime invece chiaramente una volontà di non abbandonarle. È ad esempio il caso della Francia, che modernizza le sue attrezzature e addirittura ha aumentato la portata dei suoi missili da 6000 chilometri (gli M45) a 9000 chilometri (gli M51) in violazione flagrante del Tnp.

Quanto all’Italia, il fatto di “ospitare” delle bombe nucleari Usa, gestite in un quadro di cooperazione Usa-Italia, la pone in stato di violazione dell’Articolo II del Tnp. Inoltre le “vecchie” bombe B61, puramente gravitazionali, vengono attualmente sostituite dalle moderne B61-12, teleguidate e la cui potenza può essere regolata tra 0,3 Kton (50 volte inferiore a quella di Hiroshima) e circa 50 Kton. Ora questa possibilità anche di abbassare il livello della potenza rende queste bombe delle “mini-nukes”, molto più adatte a essere usate sul campo di battaglia!

La conseguenza evidente di tutto ciò è che la vera soluzione al problema delle armi nucleari non è semplicemente quella della “non-proliferazione”, ma quella dell’abolizione di tutte le armi nucleari. È ciò che ha stabilito sul piano giuridico il successivo Trattato di Proibizione della Armi Nucleari (Tpan), adottato dall’Assemblea Générale delle Nazioni Unite il 7 luglio 2017 ed entrato in vigore il 22 gennaio 2021, rendendo le armi nucleari illegali sul piano del Diritto Internazionale.

In conclusione, le dottrine della deterrenza nucleare sono intrinsecamente proliferanti: infatti, l’affermazione che il possesso di armi nucleari è essenziale per la sicurezza di uno Stato implica automaticamente che anche tutti gli altri Stati del mondo debbano possederle! Questo è quindi il principale “motore” della proliferazione nucleare. Invece, per garantire la sicurezza umana, non è la minaccia, ma esattamente il contrario che deve essere realizzato: come diceva giustamente Gorbaciov, “per ottenere la propria sicurezza, ogni Stato deve contribuire alla sicurezza di tutti gli altri”.

* Fisico delle particelle elementari e attivista di Ican

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Sulla fusione nucleare ho letto sciocchezze a fiumi: una mistificazione che può fare gravi danni

Abbiamo una comprensione teorica della fusione nucleare da oltre un secolo, ma siamo ben lontani dal poterla impiegare come fonte elettrica continua e controllabile. Eppure, Repubblica, lo scorso 14 dicembre, titolava: “Viaggio nel futuro, un bicchiere d’acqua ci scalderà per un anno. Nessun governo potrà più ricattare gli altri usando il petrolio o il gas come pistole”. Banalizzando e dando corpo a scenari irrealizzabili al presente e perfino scientificamente azzardati, una voce importante si è unita al coro fastidioso e incosciente di prostrazione del giornalismo nostrano all’annuncio che “l’Occidente” per definizione (gli Stati Uniti) è vicino, in solitaria, a realizzare il miracolo dell’energia del sole, così abbondante da tracimare da enormi impianti e da procrastinare il mito della crescita per un futuro senza limiti di contenimento.

“Ci vorranno almeno 30 anni” afferma invece Stefano Atzeni, dell’Università La Sapienza di Roma ed io ritengo che sia un grave errore da parte dei media tentare di capovolgere la sensazione diffusa che, invece, con la pandemia la guerra e il clima il tempo venga a mancare, se non si muta al presente, non fra 30 anni, il paradigma energetico dei fossili e del nucleare, rigidamente centralizzato ed a grande spreco.

E’ vero che il test realizzato al NIF (i laboratori di Livermore) ha prodotto più energia con la fusione di quella fornita ai laser utilizzati per provocare la reazione stessa. Ma è pur vero che, se si considera tutta l’energia impiegata e non solo quella che incide sul target, anziché un guadagno netto, si ha un rendimento da numero decimale. E non sarebbe inutile osservare che, dopo ogni singola “iniezione”, occorre raffreddare il sistema ottico e ripristinarne le condizioni normali, con tempi non inferiori al giorno.

Il profluvio di sciocchezze date alla stampa risulta fuorviante e di non trascurabile danno, in particolare nella fase in cui siamo. Si è scritto e detto che “il processo avviene a velocità superiore a quella della luce” (Repubblica), che si impiega “acqua pesante, cioè non distillata da usarsi come materia prima: anche quella di mare” (Rampini sul Corriere) e, ancora, che “una mezza palla da basket” – evidentemente magica – sarebbe dovuta entrare nel “cilindretto lungo pochi millimetri” (Ansa), oppure, che “la fusione inerziale non genera radioattività, non produce scorie” (Descalzi, ceo Eni).

Questo modo di procedere tra scienza a spanne e tecnologia un tanto al chilo, ha innescato un processo politico di coinvolgimento e informazione dei cittadini con l’obbiettivo di mettere sotto il tappeto le emergenze cui dobbiamo porre adesso riparo, a partire dal ripristino della pace e dall’eccessivo riscaldamento climatico. Un popolo incolpevolmente disinformato, una casta di giornalisti incompetenti ma pronti a propalare il mainstream predicato dall’Amministrazione Usa, una diffusione di miti energetici venturi, hanno occultato la “strada verso l’inferno” che stiamo percorrendo “col piede sull‘acceleratore”, come ha affermato il presidente dell’Onu Gutierrez alla Cop 27 in Egitto.

Sono tantissime le sfide tecnologiche che devono ancora essere superate, sia per la fusione a contenimento inerziale con i laser (quella che ha portato al risultato ottenuto a Livermore) sia per la fusione a confinamento magnetico (la tecnica del reattore Iter in costruzione a Cadarache in Francia).

Per averne un’idea, vale la pena di confrontare quello che davvero avviene nel nucleo del Sole a 150 milioni di Km da noi rispetto a quanto possiamo disporre sulla piccola Terra che gli ruota attorno. All’interno della nostra stella c’è un plasma di protoni, che, a quattro per volta, si fondono per dare un nucleo di elio, con un difetto di massa di 0,007 (che si traduce in energia secondo la famosa formula di Einstein E=mc2) grazie ad una temperatura di 16 milioni di gradi e, soprattutto, grazie ad una pressione elevatissima, intorno a 500 miliardi di atmosfere, dovuta all’enorme massa del Sole. Queste condizioni sono estreme su scala umana e pertanto non possono essere riprodotte.

Qui, nei nostri laboratori più avanzati, cerchiamo di ovviare alla impossibile replicabilità del processo di fusione solare, imitandone il principio, ma ricorrendo a due rari isotropi dell’idrogeno – deuterio e trizio – i cui nuclei arrivano a fatica a compenetrarsi alle temperature e pressioni massime cui può giungere la nostra tecnologia più raffinata. L’esperimento a Livermore ha per la prima volta registrato un ritorno di energia, ma la continuità del processo non è affatto all’orizzonte, nonostante l’imponenza degli impianti e l’intensità dei finanziamenti.

Si pensi che il Nif – situato, in California – ha le dimensioni di uno stadio ed è costato oltre 4 miliardi di dollari. Il suo ruolo nella ricerca di armi nucleari ne ha fatto un progetto controverso tant’è vero che il Sole 24 ore si chiede se “gli annunci dell’amministrazione Biden sulla fusione nucleare non siano un messaggio diretto a Vladimir Putin, che non ha niente a che fare con la crisi energetica in corso, ma, piuttosto, con i continui riferimenti del Cremlino a un attacco nucleare”.

E si rifletta sul fatto che Iter, il progetto concorrente a confinamento magnetico, è dotato di enormi toroidi percorsi da correnti di elevatissima intensità ed ha dimensioni di 20 metri di diametro e 10 metri di altezza con una capienza di circa 1000 m3. Se dovesse fornire energia con continuità, produrrebbe tonnellate di materiale radioattivo, essendo una intensissima sorgente di neutroni, che si arrestano solo sulla prima parete solida che incontrano.

Crea una certa apprensione la costruzione di “miraggi e società sempre più tecnocratiche, all’interno delle quali si starebbero perdendo i vincoli d’appartenenza e la possibilità di essere artigiani di legami e rompere le spirali che annebbiano i sensi”, come afferma Bergoglio. Temo che le mistificazioni sul “grande” risultato della fusione nucleare Usa rischino di allontanarci da quel che occorre fare già da ora con le fonti rinnovabili, accontentandoci del reattore a fusione che rimane a 150 milioni di Km. di distanza: il Sole.

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Nucleare, tra le istituzioni è in atto una potente distrazione dell’opinione pubblica

Che il prossimo decennio sia decisivo per la storia umana lo scrive nell’introduzione il documento in 80 pagine sulla strategia di difesa Usa (Dns), centrato in gran parte sull’impiego dell’arma nucleare. Decisivo lo sarà, credo, perché incombono sul pianeta tre emergenze indifferibili se irrisolte: il brusco cambiamento climatico, la possibilità di una guerra nucleare, una crescente e insopportabile ingiustizia sociale. Ma, se si guardano i nostri telegiornali o si ascoltano le dichiarazioni finali dei summit sul clima o dei G20, sembrerebbe che il tema di fondo del prossimo decennio debba essere quello della contesa per la supremazia militare ed economica tra Usa e Cina, con la Russia ridotta a potenza regionale o peggio. Geopolitica al top e biosfera e natura retrocesse a preda del vincitore.

Una simile distorsione nell’interpretare l’epoca attuale comporta un arretramento di civiltà, un ignobile spreco di risorse necessarie alla sopravvivenza, la predisposizione alla guerra come soluzione della “concorrenza” tra blocchi in corsa per l’egemonia globale. La pace, che è il diritto sociale da cui dipende la fruizione di ogni diritto individuale, sociale ed ambientale viene collocata ai margini, forse perché i governanti della parte più ricca dell’umanità arrivano a pensare che non ci sia spazio per tutti nel futuro del Pianeta.

Nel solco di una così terrificante ipotesi, mai palesemente esplicitata, la guerra provocata dall’invasione russa dell’Ucraina non troverà fine e anzi si allargherà a nuovi cobelligeranti, mentre la società, sotto il segno di atroci sofferenze, distoglierà lo sguardo dal fare di dove abitiamo un luogo vivibile, ben oltre il prossimo decennio. E’ in atto una potentissima “distrazione” dell’opinione pubblica, che si rivela anche attraverso un lessico profondamente incisivo che passa addirittura dalle istituzioni. Ormai il nazionalismo riarmato è la forma di competizione proposta ai popoli dentro i loro confini: nella Defence National Strategy Usa (Dns) la parola “nostra patria” compare 59 volte e i nemici sono chiamati “concorrenti”, mentre i militari sono definiti “forza lavoro” ed è l’esercito che deve occuparsi di “resilienza al clima”; da noi, più timidamente, il governo titola i nuovi ministeri con parole come “sicurezza energetica”, “sovranità alimentare”, “merito”, che non alludono certo all’inclusione e alla fraternità universale. Ne segue che la democrazia liberale e lo spirito imprenditoriale diventano l’orizzonte da estendere, ma non superare, affinché “tutti la pensino allo stesso modo” e la crescita prosegua per i più attrezzati.

In un cambiamento così denso di potenza è l’energia che fa da padrone, anche sotto la forma più incontrollabile delle armi. Così, se la bomba nucleare non è più solo un elemento di deterrenza – come lo è stata fino ad ieri dopo Hiroshima e Nagasaki – allora entra in gioco sia come dissuasore tattico che addirittura come occorrenza di “first strike” quando le minacce del nemico mettono in discussione una supremazia affermata e da esibire (“deterrenza integrata” è la ridefinizione nella Dns). Nella prospettiva di un mondo caratterizzato dalla presenza della vita, una tale discontinuità è enorme. In questo quadro “scosso” è facile far scivolare l’opinione pubblica verso il nucleare civile, da fissione o fusione che sia, raccontato come praticabile e difendibile quanto l’uso incontenibile delle armi – fino a quella atomica (si pensi che il presidente della Lombardia Fontana ha dichiarato di essere disponibile a valutare un reattore nucleare in Lombardia).

Assunto questo rischio, la guerra locale assume già dimensione globale. E il rilancio dei fossili fa parte di un “ritorno al prima” che la pandemia sembrava avere esorcizzato. Pertanto, mentre viene sanzionato e tolto di mezzo il gas russo, non si programma affatto il rilancio delle rinnovabili, ma si acquista addirittura metano liquido estratto da pozzi oltremarini e localmente rigassificato, con un bilancio energetico ed economico disastroso (il prezzo che gli europei pagano per il gas è quattro volte quello quotato negli Stati Uniti).

Ci si accorge solo ora che la transizione energetica in tempo di guerra sta diventando anche una guerra commerciale Usa-Ue (vedi l’articolo di F. Saraceno su Domani del 4 dicembre). Che l’energia sia un bene pubblico strategico è diventato chiaro con lo scoppio della guerra in Ucraina, che ha rotto le cuciture con la Russia del modello energetico tedesco e italiano e di altre regioni continentali, mentre un’estate di siccità e problemi di manutenzione in vari impianti hanno messo in discussione anche la riproducibilità del modello francese, progettato attorno al nucleare.

L’energia più economica è diventata un enorme vantaggio competitivo per le aziende americane. Biden ha varato una legge che prevede 800 miliardi di aiuti federali per un volume di investimenti industriali da 1.700 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Si tratta di un grande sforzo nella direzione della manifattura, per tutto ciò che ha a che fare con la transizione energetica: pannelli, turbine eoliche, idrogeno, nucleare, batterie, auto elettriche, cattura delle emissioni, biocarburanti, estrazione e raffinazione delle materie prime strategiche, auto elettriche, semiconduttori. Al confronto, il Recovery europeo da 800 miliardi – di cui gran parte solo per acquistare e installare tecnologie fatte all’estero – sparisce. Le aziende europee di grandi dimensioni stanno pianificando nuovi investimenti negli Stati Uniti o addirittura trasferendo le loro attività esistenti alle fabbriche americane: Enel (Italia), Safran (Francia), Northvolt (Svezia), Iberdrola (Spagna) e la multinazionale tedesca Basf ne sono un esempio.

C’è bisogno di un robusto ritorno della politica sul lavoro, l’occupazione, la riconversione ecologica, inserito nella ricerca ostinata della pace. Robert Habeck, vice-cancelliere tedesco, ha dichiarato all’AdnKronos: “È finita la fase in cui molti pensavano che i mercati comandassero e la politica dovesse starne fuori (…). Quando si tratta di energia, commercio, infrastrutture, non esistono decisioni impolitiche”.

In Italia, invece, si discute al più di condoni e mini-cunei fiscali, soglie del contante, quota 103 per la pensione, al più di aiuti in bolletta, perdendo di vista le politiche industriali e, per insana abitudine, cancellando il giorno dopo quel che è accaduto il giorno prima, come è avvenuto per la grande manifestazione del 5 novembre a Roma per il cessate il fuoco.

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Tassonomia verde, il Parlamento Ue ha tradito il clima e i cittadini

Il 6 luglio 2022 il Parlamento Europeo si è prestato a una mistificazione che sa di scandalo: non respingendo l’atto delegato della Commissione presieduta da Ursula von der Leyen, nella sessione plenaria ha tradito il clima e i cittadini, approvando a maggioranza una serie di norme sulla finanza sostenibile che convoglieranno miliardi di euro in attività che, accelerando il cambiamento climatico, danneggeranno il pianeta e la vita delle nuove generazioni.

Grandi manifestazioni e centinaia di migliaia di firme in tutta Europa avevano esortato i loro europarlamentari a respingere un “greenwashing” coperto da aiuti pubblici e facilitazioni finanziarie.

L’inclusione del gas fossile nella tassonomia dell’Ue crea un serio pericolo di contrasto con altre leggi dell’Ue, in particolare con gli obblighi previsti dall’Accordo di Parigi, dalla Legge europea sul clima, dal Green New Deal malamente azzoppato.

Con questo atto delegato la direzione è ora segnata, benché l’inclusione di gas e nucleare sia limitata nel tempo e dipenda da condizioni specifiche e requisiti di trasparenza, che quasi sempre rimangono a discrezione delle aziende. Inceneritori, cogeneratori a gas per teleriscaldamento e teleraffreddamento, nuove centrali nucleari e un loro prolungamento del ciclo di vita sono ritornati prepotentemente in gioco e potranno quindi ricevere finanziamenti da parte degli investitori con grande soddisfazione delle lobby energetiche che operano alacremente a Bruxelles.

L’impegno dell’Europa per i cambiamenti climatici rimane invariato: è ancora obbligatorio ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento nel 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, in linea quindi con la legge europea sul clima… almeno sulla carta e con l’ipocrisia che caratterizza ogni contraddizione con gli obiettivi di ecologia integrale.

A votare contro l’inclusione delle due fonti energetiche in tassonomia sono stati 278 eurodeputati. La maggioranza necessaria per bloccare il progetto della Commissione guidata da Ursula von der Leyen era fissata a 353. Greenpeace ha annunciato che intraprenderà un’azione legale contro la Commissione europea. L’associazione ambientalista ha specificato che prima richiederà formalmente una revisione interna. Se il risultato di questa sarà ancora negativo, allora la causa verrà presentata davanti alla Corte di giustizia europea. Ora la discussione passa al Consiglio europeo. Se neanche il Consiglio respingerà la mozione, l’atto delegato sulla tassonomia entrerà in vigore il 1° gennaio 2023. Anche l’associazione “A Sud” ha promosso una campagna legale contro lo Stato italiano, intitolata Giudizio Universale, accusandolo di inazione nei confronti della crisi climatica in corso.

La maggioranza “Ursula” si è però spaccata a metà e anche quella che in Italia sostiene il governo Draghi è divisa. A votare per il rigetto dell’atto delegato sono stati Verdi, Sinistra e S&D. Per mantenere l’atto delegato hanno votato invece Ppe, Ecr, Id e la maggioranza del gruppo Renew. I voti in dissenso nel Ppe sono stati 36, quelli nei socialisti 21.Tra gli italiani Pd (compatto nel voto), M5S e Verdi hanno votato per il rigetto, FI, Fdi, Lega e Iv hanno invece votato a sostegno.

In assenza di una politica che sappia davvero ascoltare e dare seguito alle istanze ambientali, la strada giudiziaria è sempre più percorsa. Ma affinché la partita non sia chiusa occorre una volontà politica degli stati e dei governi, sorretta da una coscienza popolare e da un vasto movimento politico che non si rassegni a sopportare che profitti, capitale e riarmo soffochino le prospettive di vita e l’urgenza di cura del pianeta. Un folto gruppo di ragazze e ragazzi presidiava da due giorni il parlamento a Strasburgo. E’ ora che una adeguata mobilitazione calchi anche le vie e le piazze di un Paese dalle cui montagne si staccano inesorabilmente i ghiacciai.

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