Conferenza di Doha, politica e governi a mani vuote

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano 28 novembre 2012

Nientemeno che la Banca Mondiale ha allertato sulle conseguenze di una mancata drastica riduzione di emissioni di anidride carbonica ed ha perciò esortato i governi di 119 Paesi riuniti in questi giorni a Doha – la capitale del Qatar che ha l’impronta di CO2 pro capite più alta al mondo, soprattutto a causa del suo petrolio – ad accettare tagli più profondi del previsto per i cosiddetti gas ad effetto serra. Tuttavia, secondo il capodelegazione USA, “gli Stati Uniti non intendono andare oltre il 3% rispetto ai loro obiettivi di emissione”. Al contrario, lo studio britannico del Tyndall Centre suggerisce che il Nord industrializzato dovrebbe fare tagli del 70 per cento entro il 2020, mentre la maggior parte degli altri Paesi dovrebbe fare tagli analoghi, un decennio più tardi.

I negoziati di Doha sono più complessi che mai perché si pongono tre obiettivi che nessuno dei protagonisti politici interpreta come irrinunciabili e da conquistare dando battaglia agli irresponsabili negazionisti. Il primo è di concordare obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2020, come cornice avanzata per un rinnovo certo del Protocollo di Kyoto. Il secondo obiettivo è di preparare il terreno per un nuovo trattato globale sul clima post-2020. Il terzo è di garantire l’assistenza tecnica e finanziaria per aiutare i Paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni di carbonio e adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici, come la siccità, le inondazioni e la perdita di produttività agricola.

Sennonché, mentre per salvare le banche, il mondo finanziario e le ricchezze frutto di speculazione, sono stati immessi soldi pubblici dell’ordine del PIL di intere nazioni, per il 2013 i governi hanno già preannunciato che non ci sono soldi per l’ambiente e il clima. È un segno di miopia gravissima, poiché l’obiettivo climatico di limitare l’aumento della temperatura globale entro i 2°C sta diventando sempre più difficile e più costoso. E col crescere della temperatura del pianeta, l’acqua stessa, soggetta a sempre più elevate evaporazioni, sta diventando un parametro decisivo per valutare la fattibilità dei progetti energetici. Questo perché la crescita economica e demografica sta intensificando la concorrenza per accaparrarsi le risorse idriche ormai scarse e destinate conflittualmente all’agricoltura, all’alimentazione diretta e/o alla produzione elettrica.

Perfino l’Unione Europea non si impegna a rinnovare il finanziamento del Fondo per il Clima che si esaurisce a fine anno. “Ovviamente, quando l’intera popolazione UE è in fase di proteste contro l’austerità, non è esattamente il momento di parlare di finanziamento verde”, ha detto improvvidamente il commissario per l’ambiente Connie Hedegaard. In compenso, il Regno Unito e alcuni altri Stati membri puntano a iniziative in cui le fonti di finanziamento pubblico e privato si fondono. Clima come affare, quindi, non come priorità politica e responsabilità verso le future generazioni.

Non è nemmeno in prospettiva una proroga di Kyoto, data la contrarietà di Stati Uniti, Canada, Russia e Giappone. È la mancanza di fiducia e di coesione uno dei principali nodi del momento. Eppure le recenti relazioni scientifiche sul cambiamento climatico mostrano in modo drammatico che il mondo sta rapidamente tornando indietro sui suoi obiettivi di taglio alle emissione di CO2 e, se questo trend non si inverte bruscamente, il mondo dovrà affrontare le conseguenze devastanti di un mondo più caldo di 4° C.

In assenza di un reale protagonismo della politica, troppo legata agli interessi delle grandi lobby fossili, è la società civile che sta facendo la differenza. Dalle comunità che sostengono l’agricoltura locale e sostenibile in tutto il mondo, per arrivare alle transition town tanto diffuse in Europa, fino alle proposte alternative di fornitura energetica, come ha dimostrato l’esperienza di Co-energia, associazione legata alle reti dell’economia solidale italiana, che permette di poter abbandonare un colosso energetico come Enel per alternative più sostenibili e low-carbon. Cambiamento dello stile di vita assieme alla mobilitazione sociale: solo così, sembra possibile dare una spinta decisiva ad una transizione ecologica sempre più ineludibile e sempre più lontana dalla visione della politica. Ma lo sanno i nostrani e ruspanti contendenti delle primarie che proprio in questi giorni sull’altra sponda del Mediterraneo si gioca una partita drammatica sul futuro del pianeta?

Condividi