Dal fossile alle rinnovabili /3 – Decarbonizzare: servono fatti, non solo ordini del giorno!

Dobbiamo ringraziare i giovanissimi che sono scesi per le strade in questi mesi per mettere in comunicazione l’urgenza del tempo con l’esigenza di una educazione ambientale diffusa, che navighi tra tutte le materie e produca conoscenza, per una vita buona e la cura del Pianeta in cui essa si srotola tra difficoltà una volta impreviste. Trascurarne l’intuizione di una fase irripetibile e deluderli preluderebbe a un disastro irrecuperabile: questo si avverte quando capita di frequentarne le riunioni. Sono infatti trascorsi invano molti anni di appuntamenti intergovernativi, estenuanti quanto poco produttivi, e oggi la necessaria transizione energetica dai fossili alle rinnovabili di cui ho trattato anche nei due post precedenti – potrebbe non giungere a compimento prima di un drammatico sconvolgimento sociale e ambientale.

L’inconsistenza con cui la classe politica al comando tratta il passaggio epocale in atto non può più essere accettata. In Parlamento è ormai un fiorire di mozioni e ordini del giorno sul clima, infilati senza clamore né impegno vincolante nelle pieghe di un’agenda saturata dalla muscolarità con cui vengono sgomberati e respinti rom e migranti in mezzo a incendi e naufragi. Il 4 aprile la Camera si è addirittura superata, nell’accogliere in forma di auspicio l’azzeramento degli incentivi ai combustibili fossili!

La realtà è ben altra ed è alla sua durezza, insieme costrittiva e devastante, che si deve reagire. Se il riscaldamento globale deve rimanere ben al di sotto dei 2°C, sono diverse le attività a rischio, tutte strutturalmente e non innocuamente connesse allo sviluppo in corso, alle disuguaglianze vistose e agli stili di vita diffusi che non si vogliono abbandonare. Una parte sostanziale delle riserve di combustibili fossili deve essere bloccata sottoterra e ciò vale metaforicamente anche per il capitale delle imprese già investito nel settore. Inoltre, i bruschi cambiamenti del clima già osservati intaccano imprevedibilmente la valorizzazione e l’accesso al capitale fisico e naturale, che non risulta più durevolmente a disposizione, mentre l’incertezza delle previsioni climatiche mette fuori mercato investimenti e grandi opere nei settori densamente energivori o a maggior impatto naturale. Siamo a fronte della crisi irreversibile di un sistema fortemente radicato nella cultura e nella realtà materiale, resistente al cambiamento sia per l’eccessiva capitalizzazione, tuttora concentrata, sia per la consistente occupazione ancora impegnata, sia per l’imponenza delle infrastrutture da smantellare e riconvertire.

A riprova della profondità, della problematicità, ma anche dell’auspicabilità della riconversione energetica, occorre ricordare che secondo un recentissimo studio tre quarti della produzione di carbone degli Stati Uniti – combusta nelle centrali, nelle industrie e per il riscaldamento – è ora più costosa dell’energia solare ed eolica nel fornire elettricità alla popolazione americana. L’Eia, agenzia governativa statunitense, riporta a gennaio che metà delle miniere di carbone degli Stati Uniti ha chiuso negli ultimi dieci anni.

Il penultimo numero di Qualenergia annota che, per tagliare drasticamente le emissioni inquinanti come richiesto dall’ultimo rapporto dell’Ipcc, non si dovrebbe più investire in nuovi impianti fossili. Non si capisce allora come si possa concedere alle centrali a carbone di Civitavecchia e Brindisi di continuare fino al 2040 o, lo ripeto da tempo, al gasdotto Tap di approdare sulle coste pugliesi. Saremmo di fronte alla perpetuazione di un sistema che dà luogo a perdite imperdonabili. A meno che riguardi anche l’Italia lo “scoop” di un recente rapporto pubblicato da una coalizione di gruppi ambientalisti, che ha rivelato che 33 banche globali hanno fornito 1,9 miliardi di dollari in finanziamenti a società del carbone, del petrolio e del gas proprio dopo l’accordo sul clima di Parigi del 2015.

La situazione è allarmante ed è inevitabile adottare provvedimenti strutturali con estrema urgenza. Il rapporto McKinsey argomenta con dettaglio alcune proposte di sostituzioni drastiche nell’uso dei fossili nella produzione di elettricità, nei veicoli, nel riscaldamento e nelle industrie. Secondo gli autori, è indispensabile:

2025. Velocizzare il passaggio all’elettrico per gli autoveicoli e ridurre il ricorso all’auto di proprietà individuale: entro il 2050 il 100% della motorizzazione in Cina, Europa e Nord America dovrà essere elettrica e il 50% si dovrà diffondere nel resto del mondo. Si dovrà intervenire per una maggiore efficienza nel trasporto aereo e marino con riduzione del 50% di emissioni. Assieme all’improcrastinabile riduzione di plastica e al suo riciclaggio, la domanda di petrolio raggiungerebbe il picco prima del 2025.
2026. Diffondere l’elettrificazione del riscaldamento (almeno il 50% in Europa) e il ricorso alle pompe di calore. L’elettrificazione della cucina in Africa deve procedere anche se con maggiori difficoltà. Il ricorso al gas rimane sui livelli attuali e decresce dal 2050.
2027. Il ricorso all’elettricità in siderurgia e nei processi industriali, assieme a processi a temperature meno elevate nella manifattura, produce una riduzione della domanda di carbone, che scende al 19%.
2028. La riduzione dei costi delle rinnovabili e il ricorso a sistemi di immagazzinamento mette fuori competizione i fossili.
2029. Al 2050 la potenza installata viene ridotta almeno del 15%.
2030. Le emissioni di Co2 passerebbero da 32 Gton a 22 Gton nel 2050.

Uno sforzo enorme se teniamo conto del punto da cui partiamo. Eppure, dice McKinsey – tutt’altro che un’accolita di ambientalisti – avremmo bisogno di scendere a 13 Gton al 2050 per non superare i 2°C! Benvenuto allora allo sciopero mondiale del 24 maggio e alla ventata della nuova generazione. Senza di loro non ce la faremmo proprio.

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