Energie rinnovabili e comunità locali

di Giovanni Carrosio da www.ecologiapolitica.org

Aria, acqua, terra e fuoco, i quattro elementi fondamentali impiegati da Empedocle molti secoli fa per descrivere il mondo in cui viviamo, sono tra loro interconnessi. Il fuoco – l’energia – viene oggi utilizzato dall’uomo e consumato così dissennatamente, in particolare nelle sue forme fossili, da compromettere i cicli della biosfera, dando luogo ad un inarrestabile degrado dell’aria, dell’acqua, della terra. Il processo di privatizzazione dell’energia e di concentrazione economica negli ultimi due secoli è stato pari a quello degli altri elementi. Eppure, all’energia è stata sempre riservata poca attenzione da parte dei movimenti politici e sociali, che si sono mobilitati soprattutto in occidente per contrastare le tecnologie più distruttive, come il nucleare, o per difendere la propria terra dall’industria petrolifera, soprattutto nei Sud del mondo. Un’attenzione insufficiente è stata riservata alla relazione esistente tra energia e potere, tra forme della democrazia e fonti energetiche, tra modelli sociali e modelli energetici, con l’eccezione di alcuni intellettuali e studiosi, come ad esempio Ivan Illich (Energia ed equità, 1981), Barry Commoner (The Politics of Energy, 1979) e più di recente Hermann Scheer (Energy Autonomy: The Economic, Social & Technological Case for Renewable Energy, 2006).

Sulla scia di questi classici del pensiero critico, un bravo storico della Columbia University, Timothy Mitchell, nel suo libro “Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil (2012)”, ha aggiunto un elemento conoscitivo in più, sostenendo una tesi forse troppo deterministica, ma certamente stimolante nel comprendere i nessi tra fonti energetiche e forme della democrazia. Egli ha delineato una relazione molto stretta tra l’avvento del carbone e l’importanza della classe operaia come soggetto politico organizzato all’interno delle democrazie occidentali. Il ciclo del carbone permetteva alla classe operaia di poter rivendicare diritti attraverso lo sciopero in una serie di nodi centrali del ciclo produttivo, dalla sua estrazione fino all’utilizzo nelle centrali. Bloccare una sola di queste fasi significava far mancare energia a tutto il sistema produttivo di uno stato nazionale. Pensiamo a quanta risonanza e valore simbolico ha avuto ancora negli anni 1984-1985 lo scontro tra i minatori del carbone e la Tatcher, che voleva chiudere – ed effettivamente chiuse – tutti i siti minerari in Inghilterra non solo per ragioni economiche, ma per sottrarre ai lavoratori un terreno di lotta attraverso cui rivendicare diritti e democrazia. E non a caso, la chiusura delle miniere prevedeva una transizione energetica verso petrolio e nucleare, fonti energetiche che richiedono un sistema di potere molto concentrato.

Per Mitchell il declino tardo novecentesco del movimento operaio come forza del cambiamento ha una delle cause proprio nel mutamento del sistema energetico e nel passaggio dalla centralità del carbone a quella del petrolio. Quest’ultima, fonte poco controllabile socialmente perché dislocata soprattutto nei paesi mediorientali e bisognosa di un apparato militare per gestirne le implicazioni geopolitiche, ha fatto sì che i lavoratori e i cittadini dei paesi occidentali perdessero la possibilità di controllare l’elemento primario per il funzionamento degli apparati sociali e produttivi della società contemporanea: in seguito alla continua e progressiva sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine in ogni ambito della nostra vita, l’energia è diventata sempre più un elemento fondamentale nella nostra quotidianità.

Ammesso che gli scenari di transizione dal sistema fossile ad un sistema di approvvigionamento energetico basato per lo più su fonti rinnovabili e decentrate siano realistici – molti osservatori sostengono che stiamo assistendo ad una fase di transizione energetica, ma altri ritengono che vi sarà un rigurgito delle fonti fossili grazie a nuove tecniche di estrazione – con le energie rinnovabili si può riaprire la possibilità di controllare democraticamente la produzione di energia. Allo stesso tempo, si riaffaccia la possibilità di risanare una delle fratture metaboliche più significative tra natura e società, che si è aperta a partire dallo sfruttamento ottocentesco delle fonti fossili con la liberazione in atmosfera di enormi quantità di anidride carbonica e l’alterazione forse irreversibile del clima. Certamente il carbone, come sostiene Mitchell, ha consentito alla classe operaia di conquistare diritti, stato sociale e democrazia, ma questo è successo in contraddizione e a discapito degli interessi della natura, rendendo la seconda contraddizione disvelata da James O ’Connor, quella tra ambiente e capitale, un elemento costitutivo delle democrazie occidentali novecentesche.

In Europa e in alcuni paesi emergenti, come Cina, Brasile e India, l’energia prodotta da fonti rinnovabili sta effettivamente crescendo di importanza, conquistando importanti quote all’interno del paniere delle fonti energetiche. Significative politiche di promozione delle nuove fonti rinnovabili hanno fatto sì che eolico, fotovoltaico, biomasse, geotermia si diffondessero rapidamente. La scelta di investire nelle rinnovabili non è stata però inserita all’interno di una alternativa di sistema, e questo ne ha depotenziato notevolmente la portata democratica e ambientale. Le rinnovabili sono state utilizzate fino ad oggi soprattutto come uno strumento di ristrutturazione verde del capitalismo, producendo concentrazioni economiche talvolta in continuità con quelle già esistenti, che agiscono come nuovi padroni del vapore (nel nostro caso padroni del vento, del sole…). Le multinazionali che investono nelle energie rinnovabili si muovono su scala globale, speculando sugli incentivi messi a disposizione dagli stati nazionali, senza alcun tipo di integrazione con i territori, seguendo una logica di economie di scala che sono spesso incompatibili con i sistemi ecologici locali. L’esempio più eclatante sono le grandi centrali a biomasse, che devono importare materia prima dall’estero – integrandosi nella geografia globale del land grabbing – perché sovradimensionate rispetto alla biocapacità locale di fornire risorse.

Nonostante i processi dominanti vedano la costituzione di nuove concentrazioni e la permanenza di contraddizioni tra produrre energia da fonti rinnovabili e preservazione dell’ambiente, vi sono segnali importanti che ci dimostrano come le energie rinnovabili possano essere strumento di riappropriazione per le comunità locali del controllo democratico sulla produzione e sul consumo di energia e della ricomposizione della frattura tra sistemi socio-produttivi e sistemi ecologici.

In un recente libro, Livio de Santoli – professore di Fisica alla Sapienza di Roma – ha delineato come le comunità locali possano acquisire autonomia energetica grazie all’adozione di sistemi di micro-generazione da fonti rinnovabili (Le comunità dell’energia, Quodlibet, 2011). Una autonomia energetica, che sul piano politico e sociale diventa appunto democratizzazione economica e possibilità di redistribuire il potere da strutture gerarchiche a sistemi sociali locali.  Il web dell’energia, ovvero la creazione di una rete di nodi mediante la quale organizzare territorialmente la produzione, la distribuzione e il consumo di elettricità e calore, è infatti una prospettiva radicale, che ha l’ambizione di rovesciare l’attuale modello centralistico-gerarchico in nome di una democratizzazione comunitaria e di un’ampia federalizzazione delle risorse.

Intento della nostra rivista è iniziare un percorso conoscitivo per fare luce su come le comunità locali si stanno dotando di sistemi di produzione di energia da fonti rinnovabili, cercando di cogliere la varietà dei modelli socio-organizzativi che vengono adottati su scala locale e le conseguenze che l’introduzione delle rinnovabili di comunità producono anche sul piano politico e sociale.

Iniziamo questo viaggio conoscitivo con una piccola comunità nella provincia di Bolzano, quella di Prato allo Stelvio. Si tratta di una comunità di circa 3.400 anime, in provincia di Bolzano, che soddisfa interamente il proprio fabbisogno di elettricità e calore con le rinnovabili e, attraverso una cooperativa che coinvolge praticamente tutti gli abitanti, gestisce in proprio impianti e rete elettrica, con ricadute positive sul piano ambientale ed economico, grazie alla creazione di circuiti economici locali e alla gestione sostenibile delle risorse.

Storicamente, proprio la posizione geografica di isolamento è diventata una importante virtù. Nel 1925 la rete elettrica nazionale non serviva ancora questa comunità ed è allora, con una piccola centrale idroelettrica da 80 kW, che è iniziata l’esperienza di autarchia energetica partecipata. Da allora viene gestita in completa autonomia la produzione di energia attraverso una cooperativa, Energie Werk Prad – Società Elettrica di Prato, di cui sono soci praticamente tutti gli abitanti (il 90% delle utenze allacciate). Di proprietà della cooperativa, oltre agli impianti di produzione da rinnovabili, è anche la rete elettrica, che si interfaccia con quella nazionale per prelevare energia in certi momenti e per vendere il surplus, ma che può funzionare anche a isola: qui per esempio non si sono nemmeno accorti del black out del 2003.

A produrre più energia di quella che il paese consuma – il 50% il surplus elettrico annuo – è un mix di fonti rinnovabili ben assortito, che sfrutta al meglio le potenzialità offerte dalla posizione geografica del paese, sovrastato dal ghiacciaio dello Stelvio e circondato da boschi e da pascoli: idroelettrico, centrali alimentate con biogas e biomasse di produzione locale, ma anche eolico e fotovoltaico. Il grosso, come si può immaginare, lo fa l’acqua: 4 impianti idroelettrici di piccola e media dimensione, per una potenza complessiva di circa 3,4 MW, alcuni dei quali integrati nel sistema di irrigazione che serve tutta la zona agricola.

Fiore all’occhiello del sistema energetico di Prato allo Stelvio sono poi gli impianti a biomassa, che producono sia elettricità (3,9 milioni di kWh l’anno) che calore (13,9 milioni kWh/anno) per l’impianto di teleriscaldamento che serve l’85% del territorio comunale. A fornire l’energia primaria quasi esclusivamente biomassa di provenienza locale. Il contributo del gasolio all’alimentazione del sistema di cogenerazione, che nel 2001 era di circa l’80%, in 9 anni è stato progressivamente eliminato.

Dei 4 impianti di cogenerazione, riuniti in un unico locale, due – da oltre 1 MW l’uno – funzionano con cippato (oltre la metà dell’energia primaria del sistema) proveniente per il 40% dai boschi comunali e per il resto dagli scarti delle segherie della zona; un altro è alimentato con il biogas prodotto in loco a partire dalle deiezioni animali dei molti allevamenti; il quarto impianto a olii vegetali – in parte acquistati in Italia tramite filiera certificata e in parte ottenuti anche riutilizzando gli olii di frittura degli alberghi locali – viene acceso solo quando il fabbisogno energetico è più alto, ossia d’inverno.

Condividi