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Speciale Durban: Green Fund

DURBAN, COP17. CGIL, LEGAMBIENTE E FAIR: “NECESSARIO UN ACCORDO VINCOLANTE SUL CLIMA, DA SUBITO OPERATIVO IL GREEN FUND E LA WTO NON PUO’ CONDIZIONARE I NEGOZIATI DELLE COP”

[Durban/COP17, 8 Dicembre 2011]. Ad un giorno dalla fine dei negoziati della 17a Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite in corso a Durban, in Sudafrica, le delegazioni governative stanno lavorando per trovare un accordo che possa consentire alla comunità internazionale di avere strumenti efficaci nella lotta contro il cambiamento climatico, come richiesto dal panel di scienziati dell’IPCC e dagli ultimi rapporti dell’UNEP, sulla necessità di tagliare radicalmente le emissioni di gas climalteranti.

Diversi sono i capitoli sul tavolo negoziale, come il second commitment period del Protocollo di Kyoto, che dal 2013 dovrebbe imporre nuovi impegni di riduzione ai Paesi industrializzati in base al concetto di “responsabilità storica e differenziata”; il Green Fund, che dovrebbe essere reso operativo con uno stanziamento di 100 miliardi di dollari all’anno per adattamento e mitigazione e l’importanza di una shared vision condivisa che renda operativa una transizione verso una società zero-carbon, capace di rispettare i diritti dell’ambiente, delle comunità umane e delle culture indigene.

CGIL, Legambiente e Fair, presenti alla COP di Durban come organizzazioni osservatrici, spingono perchè da Durban si esca con un accordo legalmente ed operativamente vincolante già dal 2013 sulla base del Protocollo di Kyoto.

“Il protocollo di Kyoto è l’unico accordo internazionale vincolante per la lotta al cambiamento climatico, uno strumento che seppur da aggiornare permette una cornice legale all’interno della quale coinvolgere tutti i Paesi membri della Convenzione” spiega Maurizio Gubbiotti, responsabile dipartimento internazionale di Legambiente, “un second commitment period, come previsto e rilanciato anche nella road map di Bali, è elemento sostanziale per mantenere efficace la lotta al cambiamento climatico, sulla base di una responsabilità dei Paesi storicamente inquinatori”.

E’ necessario un Green Fund operativo già da subito, secondo CGIL, Legambiente e Fair, basato soprattutto su fondi pubblici nuovi ed aggiuntivi e sotto l’egida dell’UNFCCC, che eviti ogni intervento di Banca Mondiale e di altre istituzioni internazionali nella gestione del Fondo stesso. Il Green Fund, di 100 miliardi di dollari all’anno, sebbene sottostimato rispetto alle reali esigenze dovrebbe stanziare, e non mobilizzare fondi, e dedicarli specificamente alla lotta al cambiamento climatico ed all’adattamento.

“Per quanto riguarda il Green Fund occorre che altri Paesi, oltre alla Germania, si impegnino concretamente nel suo finanziamento” dichiara Oriella Savoldi, responsabile dipartimento ambiente e territorio della CGIL, “a sostegno dell’equa transizione che non può essere scaricata sui Paesi del Sud del mondo e neppure sui lavoratori, le lavoratrici e le fasce sociali più deboli.”

Di sostanziale importanza è poi la legittimità delle decisioni prese all’interno della COP, che non dovrebbero essere sottoposte all’interferenza di altre organizzazioni internazionali. “Nella bozza di shared vision appena diffusa” dichiara Alberto Zoratti, responsabile clima ed economia dell’organizzazione equosolidale Fair, “c’è un chiaro accenno alla necessità che le scelte prese in sede COP siano condizionate dalle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Un precedente molto pericoloso”, precisa Zoratti, “che metterebbe nelle mani di un’organizzazione orientata alla liberalizzazione dei mercati e fuori dalle Nazioni Unite un percorso multilaterale che va salvaguardato e non sottoposto ad una visione del mondo, peraltro in crisi”.

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Speciale Durban: 7 dicembre

Alberto Zoratti, da Durban

Un breve resoconto dalla COP17 di Durban. Oggi al Conference Center sta continuando l’High Level Segment con la presenza di Capi di stato e ministri dell’ambiente dei Paesi di mezzo mondo. Il Canada ha confermato la sua uscita da Kyoto, il Giappone il suo rifiuto di un second commitment period, gli Stati Uniti, al solito, stanno a guardare ma la posizione è chiara. Che succederà non è chiaro, ma se la prospettiva va in questa direzione il rischio di rimandare tutto al Qatar (prossima possibile COP) è probabile, salvando le apparenze ma dimenticando la sostanza. Giochi ancora aperti sul Green Fund, forse l’unica cosa che, a Durban, potrebbe vedere un minimo di luce. Da capire quanto accettabile.

Articoli di approfondimento:

 

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Speciale Durban: notizie sul clima

Durban. Il negoziato dell’incertezza

A Durban domina l’incertezza. Ed un documento preparato sabato scorso mostra ai negoziatori l’immane lavoro che hanno davanti. Riuscirà la COP17 ad essere inserita negli annali delle Conferenze che contano? Troppo presto per saperlo, ma i risultati sostanziali sembrano lontani. E mentre si attende l’arrivo delle alte sfere politiche, la Cina lancia la sfida: “Pronti a impegni vincolanti”. E ora, i Paesi industrializzati, che cosa faranno?

Quando il clima finanzia WalMart

Un fondo dedicato della Banca Mondiale finanzia la costruzione di un grande parco eolico in una delle zone più povere del Messico. Il 7% della popolazione, che non ha accesso all’elettricità, potrà continuare a non vederne l’ombra. In compenso WalMart avrà energia a buon mercato. E’ la denuncia dell’Ong britannica World Development Movement, che nell’utimo report pubblicato mostra come potrebbero essere utilizzati i fondi dedicati alla lotta al cambiamento climatico se lasciati alla buona volontà di grandi istituzioni internazionali ed imprese.

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Crisi, clima, governo Monti e attacchi alle rinnovabili

di Mario Agostinelli e Giovanni Carrosio

In questi giorni di inebriamento per la cultura (?!) bocconiana si evidenzia drammaticamente la mancanza di autonomia, se non la subalternità della sinistra, non solo per la debolezza delle sue risposte politiche, ma per il silenzio dei suoi intellettuali, o per il rigetto di posizioni critiche travolte dalla banalità delle argomentazioni dei sacerdoti del mercato. Qui mi limito a riprendere alcune valutazioni sugli incentivi alle rinnovabili che vengono fatte girare come se non fossero dettate da interessi corposi che hanno rappresentanza nel “governo tecnico” e non sono contrastate come deludenti ripetizioni a sostegno del modello che ci ha portato alla crisi.

Per tutto l’anno, il professor Giorgio Ragazzi – Professore associato di Scienza delle Finanze all’Università di Bergamo, che in passato ha lavorato come Economista al Fondo Monetario Internazionale ed è stato Direttore Esecutivo della Banca Mondiale e dirigente (settore finanza) della Montedison, ascoltatissimo consigliere per l’energia dell’area montiana – si è sbizzarrito sugli attacchi alle energie rinnovabili ed alle politiche di incentivazione del settore, su importanti riviste on line come lavoce.info e nelmerito.com. Le sue posizioni non riflettono necessariamente la linea delle due testate, che si presentano come mezzi pluralistici di divulgazione di riflessioni accademiche, ma certamente hanno una importante visibilità nel dibattito pubblico. È allora importante affrontare le critiche con ordine, mettendo in evidenza come il suo ragionamento sia parziale, conservatore e acritico rispetto al sistema energetico basato sulle fonti fossili e viziato da una prospettiva economicistica di breve termine che non gli permette di vedere i reali benefici economici, sociali ed ambientali delle energie rinnovabili e come le politiche di incentivazione messe in atto rappresentino un investimento per il futuro e non un costo irragionevole per il presente.

Ma andiamo con ordine. Al centro della critica di Ragazzi vi sono quattro argomenti principali, che vengono affrontati tenendo insieme una serie di sottotematiche conseguenti volte a rafforzare i motivi di disappunto:

– Il sistema di incentivi alle rinnovabili grava eccessivamente sulle bollette dei consumatori;

– Gli incentivi sono eccessivamente alti rispetto alla capacità produttiva delle energie rinnovabili;

– Le rinnovabili non hanno riscontri positivi sotto il profilo ambientale;

– Non ha senso incentivare nuova produzione di energia in una fase di recessione dei consumi energetici.

Ragazzi non solo ritiene che i prelievi a carico del consumatore per incentivare le rinnovabili siano troppo onerosi, ma considera sbagliata la scelta di scaricare sui consumi i costi di incentivazione.

E’ cosa indubbia che incentivare le rinnovabili scaricando i costi sulle bollette rappresenti una forma di tassazione indiretta di tipo regressivo, poiché i consumi di energia sono scarsamente correlati con i redditi. Ma ritenere sbagliato il metodo di incentivazione significa proporre una strada alternativa, ad esempio proponendo il ricorso alla fiscalità generale, strumento certamente più equo. Oppure imponendo tasse ambientali molto onerose ai grandi inquinatori. Ma in questa fase, dominata da un garbato neo-liberismo, proporre di attingere fondi dalla fiscalità generale sarebbe come strozzare il sistema di incentivazione e tassare ulteriormente le imprese, a detta del mainstream economico, significherebbe intaccare la loro competitività sui mercati internazionali. Difficilmente riusciremo a perseguire queste strade. Il professore, però, non offre proposte alternative perché utilizza la critica del metodo per contestare il merito dell’incentivazione.

Incentivare le energie rinnovabili è sbagliato, a detta sua, per tre motivi: sono poco produttive; non apportano benefici all’ambiente e non serve produrre energia in più in una fase di recessione dei consumi. Ben vengano queste critiche, perché ci consentono di toccare argomentazioni e problematiche che sono taciute da molti.

Valutare i costi di incentivo sulla base dell’energia prodotta è totalmente ingeneroso e miope: l’obiettivo non è avere alcuni Twh oggi, ma sviluppare un settore industriale per il futuro. Il costo del programma energetico, come sostiene il professore Arturo Lorenzoni (IEFE – Bocconi), va rapportato al cambio di paradigma energetico, all’avvio di nuovi settori industriali, all’autonomia energetica dei territori di fronte ad un sempre più alto rischio di shock petrolifero. Per l’energia fotovoltaica, inoltre, il sistema incentivante sta accompagnando il settore verso l’autonomia dagli incentivi, raggiungendo le soglie di economicità per stare sul mercato senza alcun tipo di aiuto.

E non dimentichiamo che le rinnovabili non solo rappresentano un nuovo settore globale sul quale investire per creare occupazione e ricchezza, ma sono anche uno strumento importante per la lotta al cambiamento climatico e per la riduzione delle emissioni di inquinanti in atmosfera. Importanti risvolti ambientali, che il professor Ragazzi nega tirando in ballo “lo scempio di campi agricoli coperti da pannelli, l’invadenza ambientale delle pale eoliche, il rialzo dei prezzi del granturco “bruciato” negli impianti a biomasse con pesanti effetti negativi sull’economia locale delle stalle, per non parlare dell’energia (e conseguente inquinamento) consumata nelle produzioni di pannelli, strutture metalliche, pale eoliche ecc” (vedi qui).

Va da sé che installare pannelli fotovoltaici su terreni agricoli sia una pratica poco virtuosa e che il sistema incentivante, soprattutto nei passati Conti Energia, abbia favorito le speculazioni nel settore. Ma non possiamo certamente imputare soltanto alle politiche di incentivo la responsabilità delle installazioni sui terreni agricoli: le regioni, le province e i comuni devono fare la loro parte per rendere gli investimenti sui propri territori sostenibili sotto ogni profilo, innanzitutto approvando piani energetici ambiziosi, e le procedure di valutazione degli impatti delle nuove fonti energetiche devono essere basate sulla partecipazione dei cittadini e il ricorso ad esperti immuni dalla pressione dei portatori di interesse. Sulla rimodulazione degli incentivi si può discutere, provando a creare un sistema per cui sia incentivato il medio-piccolo impianto che porta un effetto moltiplicatore sulla nostra economia, piuttosto che i grandi investimenti fatti con capitali stranieri, dove i nostri territori diventano soltanto luoghi di accumulazione di flussi globali di capitale.

È bene non confondere la tutela del paesaggio (sacrosanta) con la questione ambientale e non lanciare allarmi propagandistici sulle bioenergie. Esistono esperienze decisamente negative, per le quali dovevano e dovranno essere previste rigorose procedure di valutazione di impatto ambientale, ma esistono moltissimi casi virtuosi di produzione di energia da biomasse, che consentono alle aziende agricole di raggiungere buoni margini di autonomia dai mercati internazionali per il reperimento di fattori produttivi primari come quello energetico. [Sarà nostra cura scrivere sulle differenze tra cattive e buone pratiche nei prossimi articoli].

È poi falsa l’affermazione che i bilanci energetici della costruzione di pannelli e pale sia negativo. Per le pale eoliche i bilanci sono sempre stati positivi, e per i pannelli ormai abbiamo superato anche quel problema.

Nella critica di Ragazzi c’è un vulnus che lascia molto perplessi: attaccare le rinnovabili senza metterle a confronto con il sistema energetico dominante è una operazione che non ha senso. Vuole dire, il professore, che un campo fotovoltaico è peggio di un pozzo petrolifero? O che un campo eolico è più impattante di una centrale a carbone? Il punto della questione è questo: ci stiamo liberando da un sistema energetico fondato sulla geopolitica di guerra e sui disastri ambientali sistematici. Il costo delle rinnovabili va confrontato con tutti i costi reali che abbiamo dovuto sostenere e che dovremo sostenere ancora. E soprattutto bisognerebbe fare il calcolo dei costi (economici, ambientali e sociali) al lordo dei disastri ambientali, non come se questi non si verificassero. E allora, possiamo calcolare quanto costa l’energia nucleare senza tenere in conto i danni economici, sociali e ambientali di Fukushima? O quelli delle fonti fossili, senza tenere in conto del disastro nel Golfo del Messico?

Infine, Ragazzi sostiene l’inutilità di incentivare ulteriore produzione di energia in una fase di recessione dei consumi. Qui tocca un tasto dolente, pur sbagliando il ragionamento. Le energie rinnovabili devono diventare sostitutive delle energie fossili e non sovraproduzione energetica. Dobbiamo fare sì che ogni Gwh prodotto dalle rinnovabili comporti la soppressione di un Gwh prodotto grazie alle fonti fossili.

Possiamo farlo investendo molto sul risparmio energetico, riducendo anche del 30-40% i consumi energetici, e investendo nelle reti intelligenti. Possiamo farlo creando dei sistemi territoriali di produzione e consumo di energia, adottando piani energetici ambiziosi che prevedano la riduzione dei consumi e la contestuale sostituzione delle energie fossili con quelle rinnovabili. Possiamo farlo pensando ad innovativi modelli organizzativi, lavorando sulle cooperative di consumo, introducendo forme di democrazia partecipativa nella gestione delle ex municipalizzate, per rivendicarne la ormai perduta vocazione territoriale, pensando a nuove relazioni tra grandi città e campagne sulla scorta di quanto sta accadendo per le filiere corte del cibo.

Le rinnovabili, prima di un fatto tecnico-economico, sono un grande fatto sociale. Anche per questo, il loro valore è immenso. Non si può ridurlo ad una insana disputa sul costo degli incentivi.

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