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Il denaro è l’ossigeno per il fuoco del riscaldamento globale

In queste giornate di forte emozione e coinvolgimento create dall’entrata in campo di un nuovo movimento schiettamente giovanile che si organizza su un terreno colpevolmente ignorato dai governanti delle generazioni passate, lascio alla testimonianza diretta degli eventi che si manifestano nelle assemblee e nelle piazze di tutto il Pianeta il compito di trasmettere il loro potentissimo messaggio di fondo. Qui invece vorrei riflettere su un aspetto poco trattato quando si parla dell’emergenza climatica e si afferma – giustamente – che non esiste una soluzione «di mercato» ai disastri ambientali. Vorrei, cioè trattare il ruolo che il capitale finanziario e le banche hanno nel dare continuità al sistema dei fossili, ostacolando la decarbonizzazione che deve avvenire in orizzonti temporali vicinissimi.

Bill Mckibben, un ambientalista statunitense attivo anche come scrittore e giornalista, definito nel 2010 dal Boston Globe come “probabilmente l’ambientalista più influente della nazione”, ha lavorato sul cambiamento climatico per trent’anni e dice di aver imparato a liberare la sua angoscia e a tenerla sotto controllo. Ma, negli ultimi mesi, ammette che la sua angoscia vera riguarda i suoi figli. Lo scorso autunno gli scienziati climatici di tutto il mondo hanno affermato che, se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati nell’accordo sul clima di Parigi del 2015, abbiamo a disposizione un numero di anni che non vanno al di là delle dita delle mie mani.

Nel mondo di Trump e Putin e Bolsonaro e delle compagnie di combustibili fossili che li sostengono, sembra impossibile modificare il quadro che si prospetta. Invece non è nemmeno tecnologicamente impossibile: nell’ultimo decennio è stato abbassato il prezzo dell’energia solare ed eolica rispettivamente del novanta e settanta per cento. Ma non basta, se oltre alla tecnologia non muta la direzione dell’economia capitalista e se non entra in campo, assieme ai movimenti planetari degli studenti e delle donne il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori che sentano la riconversione ecologica come il principale obbiettivo contrattuale.

C’è un ruolo delle banche e della finanza, che di frequente viene occultato e che ritarda le misure urgenti per combattere il cambiamento climatico in corso. Chi concentra la maggior parte del denaro e della ricchezza creata a spese del lavoro e della natura, ha un potere che potrebbe essere esercitato in pochi mesi se cessasse di finanziare i fossili.

Mckibben suggerisce che la chiave per interrompere il flusso di carbonio nell’atmosfera sia quella di interrompere il flusso di denaro verso carbone, petrolio e gas.

L’industria ha nelle sue riserve cinque volte più carbonio di quanto il consenso scientifico pensi che possiamo tranquillamente bruciare. Un’istituzione religiosa dopo l’altra si è spogliata di petrolio e gas e Papa Francesco ha convocato i dirigenti del settore energetico in Vaticano per dire loro che devono lasciare il carbone sottoterra.

Ma il sistema bancario si è unito alle industrie del fossile per impedirne l’uscita di scena. Nei tre anni trascorsi dalla fine dei colloqui sul clima di Parigi, la banca Chase ha investito 196 miliardi di dollari in finanziamenti per l’industria dei combustibili fossili, molti dei quali per finanziare nuove iniziative estreme: trivellazioni in acque ultra-profonde, estrazione di petrolio artico, trivellazioni nell’Adriatico ( v. https://www.newyorker.com/news/daily-comment/money-is-the-oxygen-on-which-the-fire-of-global-warming-burns 4/14 ). Nei fatti, Jamie Dimon, il C.E.O. di JPMorgan Chase, è un barone del petrolio, carbone e gas quasi senza pari. Lo stesso vale per le attività di gestione patrimoniale e assicurativa: senza di esse le società di combustibili fossili rimarrebbero quasi letteralmente a corto di gas.

Nei tre anni successivi alla firma dell’accordo sul clima di Parigi i prestiti delle banche all’industria sono aumentati ogni anno e gran parte del denaro va verso le forme più estreme di sviluppo energetico. Tutti sanno che prima o poi l’era dei combustibili fossili finirà e se una banca gigantesca come Chase o altre analoghe si ritirasse, invierebbe un segnale inconfondibile di un imminente “bolla del carbonio” con danni gravi per i vettori ferroviari, i proprietari di porti e le imprese appaltatrici di carbone o dipendenti dal gas”. Un danno che tuttavia impallidirebbe a fronte del tipo di previsioni su quel che resterebbe del Pianeta se l’industria dei combustibili fossili continuasse sul suo percorso attuale per un altro decennio.

Quando si riflette sulla dimensione di questi problemi, appare in tutta la sua povertà di strategia la dimensione della politica energetica nazionale, che garantisce la costruzione di gasdotti come il TAP o la riconversione delle centrali a carbone in impianti a gas fossile come previsto per Civitavecchia, con la prospettiva di un ritorno degli investimenti a 25 anni, quando le tariffe pagate dai cittadini in bolletta continueranno magari ad essere incassate, mentre la natura non avrà più risorse sufficienti a rigenerarsi.

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14 ottobre a Milano: “Amazzonia depredata. Cause, responsabilità, prospettive”

Milano, 14 ottobre 2019, ore 18.00 – 20.00

Camera del lavoro, Corso di Porta Vittoria 43

Lunedì 14 ottobre, presso la Camera del Lavoro di Milano, una delegazione di leader indigeni dell’Amazzonia brasiliana – in Italia per partecipare al Sinodo panamazzonico convocato da Papa Francesco in Vaticano – incontrerà i cittadini milanesi per testimoniare della devastazione ambientale in corso nelle regione amazzonica, del progressivo impoverimento del bioma e del genocidio dei popoli originari.

È essenziale costruire una mobilitazione plurale a difesa della Casa Comune, di cui l’Amazzonia rappresenta il cuore e il simbolo. Occorre chiedere politiche nazionali e comunitarie che fermino la deforestazione e la distruzione estrattivista, tutelino la biodiversità e riconoscano il ruolo delle comunità indigene, della loro cultura e della loro spiritualità.

All’incontro parteciperanno Jeremias Dos Santos, del Popolo Mura; Ernestina Afonso De Souza, del Popolo Macuxi; Aloir Pacini, missionario del CIMI.

Coordinerà i lavori Andrea Di Stefano, di Valori.it

Interverranno Roberta Turi (segretaria generale della Fiom di Milano), José Luiz del Roio (Comitato internazionale Lula Livre), Daniela Padoan (Associazione Laudato Si’), Maurizio Fraboni (Acopiama Manaus – a tutela del Guaranà nativo), Antonio Pacor (Collettivo FocusPuller).

L’evento è organizzato da: Camera del Lavoro Milano, da FIOM CGIL Milano, Collettivo Focus Puller, Associazione Laudato Si’, CIMI – Consiglio Missionario Indigenista Brasile, Acopiama.

Con la collaborazione di Greenpeace Italia e Fridays For Future Milano.

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Cambiamenti climatici, le banche tifano per i combustibili fossili. Ma la natura non può più aspettare

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

In queste giornate di forti emozioni e coinvolgimento, creati dall’entrata in campo di un nuovo movimento schiettamente giovanile che si organizza su un terreno colpevolmente ignorato dai governanti delle generazioni passate, lascio alla testimonianza diretta degli eventi che si manifestano nelle assemblee e nelle piazze di tutto il pianeta il compito di trasmettere il loro potentissimo messaggio di fondo. Qui invece vorrei riflettere su un aspetto poco trattato quando si parla dell’emergenza climatica e si afferma – giustamente – che non esiste una soluzione “di mercato” ai disastri ambientali. Vorrei, cioè trattare il ruolo che il capitale finanziario e le banche hanno nel dare continuità al sistema dei fossili, ostacolando la decarbonizzazione che deve avvenire in orizzonti temporali vicinissimi.

Bill Mckibben, un ambientalista statunitense attivo anche come scrittore e giornalista, definito nel 2010 dal Boston Globe come “probabilmente l’ambientalista più influente della nazione”, ha lavorato sul cambiamento climatico per 30 anni e dice di aver imparato a liberare la sua angoscia e a tenerla sotto controllo. Ma, negli ultimi mesi, ammette che la sua angoscia vera riguarda i suoi figli. Lo scorso autunno gli scienziati climatici di tutto il mondo hanno affermato che, se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati nell’accordo sul clima di Parigi del 2015, abbiamo a disposizione un numero di anni che non vanno al di là delle dita delle mie mani.

Nel mondo di Trump, Putin, Bolsonaro e delle compagnie di combustibili fossili che li sostengono, sembra impossibile modificare il quadro che si prospetta. Invece non è nemmeno tecnologicamente impossibile: nell’ultimo decennio è stato abbassato il prezzo dell’energia solare ed eolica rispettivamente del 90 e 70 per cento. Ma non basta, se oltre alla tecnologia non muta la direzione dell’economia capitalista e se non entra in campo, assieme ai movimenti planetari degli studenti e delle donne, il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori che sentano la riconversione ecologica come il principale obiettivo contrattuale.

C’è un ruolo delle banche e della finanza, che di frequente viene occultato e che ritarda le misure urgenti per combattere il cambiamento climatico in corso. Chi concentra la maggior parte del denaro e della ricchezza creata a spese del lavoro e della natura, ha un potere che potrebbe essere esercitato in pochi mesi se cessasse di finanziare i fossili. Mckibben suggerisce che la chiave per interrompere il flusso di carbonio nell’atmosfera sia quella di interrompere il flusso di denaro verso carbone, petrolio e gas.

L’industria ha nelle sue riserve cinque volte più carbonio di quanto il consenso scientifico pensi che possiamo tranquillamente bruciare. Un’istituzione religiosa dopo l’altra si è spogliata di petrolio e gas e Papa Francesco ha convocato i dirigenti del settore energetico in Vaticano per dire loro che devono lasciare il carbone sottoterra.

Ma il sistema bancario si è unito alle industrie del fossile per impedirne l’uscita di scena. Nei tre anni trascorsi dalla fine dei colloqui sul clima di Parigi, la banca Chase ha investito 196 miliardi di dollari in finanziamenti per l’industria dei combustibili fossili, molti dei quali per finanziare nuove iniziative estreme: trivellazioni in acque ultra-profonde, estrazione di petrolio artico, trivellazioni nell’Adriatico. Nei fatti Jamie Dimon, il Ceo di JPMorgan Chase, è un barone del petrolio, carbone e gas quasi senza pari. Lo stesso vale per le attività di gestione patrimoniale e assicurativa: senza di esse le società di combustibili fossili rimarrebbero quasi letteralmente a corto di gas.

Nei tre anni successivi alla firma dell’accordo sul clima di Parigi, i prestiti delle banche all’industria sono aumentati ogni anno e gran parte del denaro va verso le forme più estreme di sviluppo energetico. Tutti sanno che prima o poi l’era dei combustibili fossili finirà, e se una banca gigantesca come Chase – o altre analoghe – si ritirasse, invierebbe un segnale inconfondibile di un’imminente “bolla del carbonio”, con danni gravi per i vettori ferroviari, i proprietari di porti e le imprese appaltatrici di carbone o dipendenti dal gas. Un danno che tuttavia impallidirebbe a fronte del tipo di previsioni su quel che resterebbe del pianeta se l’industria dei combustibili fossili continuasse sul suo percorso attuale per un altro decennio.

Quando si riflette sulla dimensione di questi problemi, appare in tutta la sua povertà di strategia la dimensione della politica energetica nazionale, che garantisce la costruzione di gasdotti come il Tap o la riconversione delle centrali a carbone in impianti a gas fossile come previsto per Civitavecchia, con la prospettiva di un ritorno degli investimenti a 25 anni, quando le tariffe pagate dai cittadini in bolletta continueranno magari a essere incassate, mentre la natura non avrà più risorse sufficienti a rigenerarsi.

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Clima: mettere gli indigenti alla canna del gas

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

In un articolo del The Guardian del 26 luglio compare una notizia che dà conto di come l’emissione di climalteranti da fossili possa venire spacciata – se non come un’attrattiva – almeno per un ripiego conveniente per la quota di popolazione più indigente e, di sovente, meno informata sul pericolo del cambiamento climatico. La vicenda è così rappresentativa di una manipolazione dell’opinione pubblica e dell’irriducibilità del negazionismo climatico da essere riferita in dettaglio.

Con una indiscutibile efferatezza la SoCalGas, la più grande utility americana per il gas (fornisce gas naturale a quasi 22 milioni di consumatori nella sola California), nota per essere il più fiero nemico del ricorso all’elettricità fornita dalle fonti rinnovabili, sta cercando di contrastare gli sforzi per limitare l’uso del gas naturale in California. Per farlo è arrivata al punto di costituire e finanziare un gruppo di consumatori che, beneficiando del titolo e dei vantaggi delle società “no profit”, nel loro statuto si sono dati l’obiettivo di spingere verso “soluzioni energetiche equilibrate”, consistenti nella diffusione di gas fossile in sostituzione di altri fossili maggiormente climalteranti.

E’ noto come nello stato della California il ruolo delle amministrazioni locali abbia favorito la diffusione delle rinnovabili, ormai largamente convenienti anche in bolletta, e abbia reso efficiente la rete elettrica in competizione con le reti di distribuzione di petrolio e gas. L’opinione pubblica manifesta ampio consenso alla politica energetica meno “trumpiana” di tutti gli States, ma la reazione delle maggiori corporation energetiche, legate al vecchio carro, non si sono fatte attendere. In particolare, la SoCalGas ha puntato sulle classi sociali più indigenti e meno acculturate e, in un’inedita attività di lobbying a sostegno della diffusione del gas naturale, ha finanziato, con l’aiuto di una società di esperti di pubbliche relazioni, il lancio di un “gruppo di consumatori senza scopo di lucro”, rivolto specificatamente agli insediamenti di immigrati meno facoltosi.

Il compito del gruppo consiste nel propagandare, con l’assistenza di consulenti, l’uso del gas naturale mixato a gas di origine biologica. Quali siano le quote del mix propagandato non è dato sapere ed è anzi considerato un’esca fasulla. L’importante è tener viva la rete di distribuzione attraverso le condotte di proprietà e non far subentrare al suo posto quella elettrica, conveniente sia per prezzo che per gli effetti sul clima.

SoCalGas e C4Bes non negano l’esistenza della crisi climatica. Promuovono l’uso di gas “pulito” e “rinnovabile” sotto forma di metano catturato da caseifici, dagli impianti di trattamento delle acque reflue e dalle discariche e affermano che l’uso di biogas al posto del gas fossile ridurrebbe le emissioni e si dimostrerebbe più economico della piena elettrificazione. Ma il parere degli esperti del ministero per l’Energia a San Francisco afferma che “non si può decarbonizzare la conduttura semplicemente sostituendo il gas naturale fossile con gas rinnovabile” – come informa Michael Boccadoro, direttore dell’associazione per la sostenibilità delle aziende agricole della California “perché il potenziale di biogas da latte sarebbe troppo costoso per essere utilizzato in abitazioni o aziende e, alla fine, dentro i tubi continuerebbe a scorrere in prevalenza gas fossile”.

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Cambiamento climatico, così l’inettitudine dei governi lo accelera

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

Da tempo su questo blog insisto a fornire informazioni sulla gravità del cambiamento climatico e a mettere in evidenza le omissioni e le sottovalutazioni di chi ci governa. In questo inizio estate gli eventi inconsueti e devastanti sulle rive settentrionali del Mediterraneo (tempeste di grandine, tornado, mareggiate sconvolgenti, venti violentissimi e improvvisi) suonano come un allarme annunciato ma disatteso colpevolmente, nell’ossessione di rendere impenetrabili ad altri esseri umani le nostre sponde, risospingendoli anche con ferocia implacabile verso i territori che già il clima e la guerra avevano reso loro impraticabili.

Ora può toccare a noi, se la minaccia climatica non diventa la priorità del futuro più prossimo e le nostre risorse economiche, culturali e sociali non si riconvertono rapidamente verso la cura della casa comune. In questi stessi giorni, oltre 250 esperti del mondo scientifico italiano hanno scritto ai presidenti della repubblica, del senato, della camera e del consiglio, una lettera dal titolo: Il riscaldamento globale è di origine antropica, chiedendo altresì “una urgente riconversione dell’economia in modo da raggiungere il traguardo di zero emissioni nette di gas serra entro il 2050”.

Senonché, invece di cominciare a precisare le date successive, già da domani, per la eliminazione delle fonti climalteranti (chiusura delle centrali a carbone, eliminazione delle prospezioni e delle estrazioni petrolifere, sostituzione della combustione del gas in impianti di nuova progettazione con sistemi di reti rinnovabili e accumuli distribuiti, riconversione degli impianti industriali e progressiva conversione dei consumi individuali e familiari), i nostri rappresentanti hanno continuato a recitare, nel teatro che i media ci allestiscono a ogni ora, l’insopportabile e unica rappresentazione del braccio di ferro intorno al fantasmagorico “contratto di governo”.

Ma mentre i topi ballano la nave prende acqua anche da falle impreviste. Esaminiamone alcune, che ci aiutano a capire come non si stia invertendo la rotta a tempo debito, né a livello globale, né sul piano nazionale.
1. Per inseguire nuovi profitti con l’estrazione di minerali, gas e petrolio dalle zone più inaccessibili e dalle profondità marine o con l’apertura di nuove rotte di navigazione rese praticabili in seguito allo scioglimento delle lande ghiacciate, la quota di fossili non convenzionali – vale a dire estratti e trasportati con bilanci energetici (ed emissioni) sempre più svantaggiosi – è in costante aumento e viene bruciata a ritmi sempre più elevati.
2. Entro la metà di questo secolo, l’aumento di temperatura, anche se moderato, porterà ad un aumento della domanda di energia, sia a livello globale che nella maggior parte delle regioni. Lo rivela uno studio pubblicato su Nature Communications da ricercatori dell’Università Ca’ Foscari, da Cmcc (Italia) e Boston University (Usa). Addirittura, l’effetto non avrà solo ripercussioni geografiche differenti, ma inciderà maggiormente sui redditi bassi. Dato che i cambiamenti climatici porteranno la domanda globale di energia nel 2050 a un aumento compreso tra l’11% e il 27% se il riscaldamento sarà modesto, e tra il 25% e il 58% se il riscaldamento sarà elevato, la domanda riguarderà in particolare l’elettricità per raffreddare gli ambienti nell’industria e nel settore dei servizi. Di conseguenza le imprese e le famiglie richiederanno meno gas naturale e petrolio per via delle minori esigenze di riscaldamento e, viceversa, più energia elettrica per soddisfare le maggiori esigenze di raffreddamento degli ambienti, con una pressione proporzionalmente più elevata sui meno abbienti.

3. Solo ora sono stati comunicati i dati per cui, in media, dal 2014 ogni anno è “sparita” dal polo sud (Antartide) una superficie di ghiaccio antartico pari a circa due volte e mezza l’Italia. Un fenomeno prima trascurato e che sembrava riservato quasi esclusivamente all’Artico. I negazionisti, che hanno sempre ignorato questa complessità, da oggi hanno un alibi in meno.

4. Secondo le Bloomberg Opinion Sparklines del 10 maggio, WattTime ha annunciato che utilizzerà la tecnologia satellitare per misurare l’inquinamento atmosferico da ogni grande centrale elettrica del mondo e per rendere disponibili questi dati al pubblico. Ciò farà venir meno la possibilità per molte centrali elettriche (comprese le nostre) di tener segreto il loro inquinamento e di ignorare la carbon tax.

5. Come riportato dalla stampa, il 14 giugno 2019 la Commissione Europea ha dato il via libera al capacity market italiano che, come impostato a oggi, prevede incentivi fino a 1,4 miliardi di € all’anno per 15 anni alle centrali a gas, esistenti e nuove. Il governo ha deciso di tirare dritto con il benestare dell’Authority, nonostante siano state sollevate proteste subito messe a tacere.

6. Il Coordinamento Nazionale No Triv il 10 Luglio 2019 ha reso noto Il Decreto Ministeriale 15 febbraio 2019, con cui sono state approvate le “linee guida nazionali per la dismissione mineraria delle piattaforme per la coltivazione di idrocarburi in mare e delle infrastrutture connesse”. A oggi l’elenco non è stato reso pubblico. Se si tiene conto che i costi di smantellamento e di bonifica dei siti sono stimati tra i 15 ed 30 milioni di dollari per singola struttura, si può capire come i proprietari Eni ed Edison di oltre 100 piattaforme in funzione possano contare su un tardivo od omesso smantellamento.

Anche senza dover tirare in ballo Erdogan o Putin o Blair, ci domandiamo: come si può procedere – come se niente fosse – a bucare l’Adriatico, sostituire il gas al carbone nelle centrali di Civitavecchia o Spezia o continuare a connettere tubi alla Puglia (Tap) e allestire centrali di pompaggio nel Parco degli Abruzzi?

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