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Energia in Italia: chi decide?

Da Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2010

“Due tycoon-oligarchi, con un rapporto personale che scavalca le istituzioni dei loro Paesi. Berlusconi e Putin hanno trovato nell’energia il terreno per un business condiviso. Eni e Gazprom sono diventati il centro dei loro interessi comuni”. “C’è la convinzione che Berlusconi e i suoi accoliti traggano cospicui profitti personali da molti contratti di fornitura energetica tra Italia e Russia”.

Queste le rivelazioni di WikiLeaks che il nostro Presidente del Consiglio e il presidente dell’Eni, Scaroni, liquidano con fastidio come pure illazioni o banalità. Altro che minimizzare! Questo è il segno di quanto in basso sia caduta la democrazia e di come sia scaduto il senso delle istituzioni in Italia. Se nientemeno che il futuro energetico di una delle prime dieci potenze del mondo è sottratto al Parlamento (da decenni non c’è uno straccio di Piano Energetico Nazionale) e pochi boiardi di stato possono scodinzolare dietro a un premier chiacchierato senza nemmeno dover riferire in sedi pubbliche, è ora di preoccuparsi. Inoltre i rapporti pubblicati dal sito di Assange riferiscono che l’ambasciatore americano considera le scelte energetiche italiane come semplice appannaggio di Berlusconi e di come queste siano condivise tra lui e pochi manager nominati dal Governo. Si parla anche di alcuni fiduciari personali collocati a Mosca dentro le banche e gli enti di rappresentanza che svolgono l’azione esecutiva per conto del Premier e dei suoi “amici imprenditori”. Scelte energetiche che spiegano i rapporti privilegiati del cavaliere con despoti e personaggi autoritari come Gheddafi, Putin e Erdogan, tutti fautori del rilancio delle fonti fossili e del sistema delle grandi opere come i gasdotti e le megacentrali. Tutti in campo per sostenere il nucleare come loro necessario partner del futuro. Già, perché la questione sempre tenuta ai margini del dibattito sul nucleare è la necessità ormai assodata di passare da un sistema di fornitura di energia sostenuto da ingenti risorse finanziarie (fortemente centralizzato e sempre più autoritario) ad uno alternativo, fondato sul risparmio familiare e sull’autoproduzione, decentrato sul territorio, governato democraticamente e integrato nei cicli naturali.

Atomo o sole. In fondo è qui che si gioca la partita per il modello di società che si vuole costruire: valutando i costi e i benefici, compiendo scelte tecnologiche a favore dell’ambiente piuttosto che del profitto. Come può un Paese discutere serenamente di scelte decisive per il suo futuro, se gli è negata la possibilità di influenzare e controllare gli oligarchi che determinano la politica estera e stabiliscono perfino accordi militari sulla base di interessi e affari di circoli ristretti? Come ci si può fidare di questi personaggi che hanno deciso senza discussione e trasparenza di fare dell’Italia la piattaforma in Europa del gas e del petrolio (da sostituire domani con l’uranio anziché con le rinnovabili), espandendo ancora le grandi infrastrutture e la concentrazione finanziaria e restringendo invece l’ambito dei meccanismi decisionali? Berlusconi quando sigla l’accordo per i reattori EPR con la Francia (oltre 60 miliardi a consuntivo!) semplicemente pensa a procrastinare il sistema che lo vede già promotore, con le lobby che lo circondano, di affari enormi (20 miliardi per il gasdotto Southstream con la Russia e 8 miliardi per Nabucco con la Turchia). Queste decisioni, però, sono incompatibili con una significativa diffusione degli impianti eolici e solari e con il 20% di risparmio energetico programmati dall’UE. Ecco spiegata allora la propaganda che un tycoon-imprenditore sosterrà per convincere gli Italiani a passare all’atomo e si giustifica la voce che circola sui 20 milioni messi a bilancio da Enel per raggiungere gli studenti delle scuole e le massaie nelle loro case. Un ente elettrico che si espande con partecipazioni atomiche all’Est e che – benedicente Putin – sigla un accordo per un reattore a Kaliningrad, mentre la Sogin pensa al trasporto di scorie nel Kazakistan. Da questi dati, si coglie un altro nesso che deve mettere in allarme chi si batte per l’acqua pubblica e chi sta raccogliendo firme per le rinnovabili . Le “utilities” (ex municipalizzate) come A2A, sperano, per risanare i loro bilanci, di entrare nel business nucleare e partecipare così a una torta offerta dal governo con i soldi pubblici. Così come sperano nel mantenimento del decreto Ronchi per la messa a gara dell’acqua, onde rimpinguare i profitti in calo con la gestione del servizio idrico, l’affare del futuro.

Mario Agostinelli

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Incontro pubblico con Raj Patel a Milano

DA CANCUN ALL’EXPO. IL VALORE DELLE COSE TRA CLIMA, CIBO E TERRITORI

Mercoledì 1 dicembre, incontro pubblico con Raj Patel (scrittore, attivista ed economista, autore de “I padroni del cibo”, “Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo” e di “Food Rebellions”) alle ore 20.30, presso il Centro Sociale Casaloca (Viale Sarca 183, Milano)
Intervengono inoltre: Mario Agostinelli, Giorgio Ferraresi, Roberto Masciadri, Luca Trada. A seguire, proiezione del film “Il mondo secondo Monsanto” di Marie-Monique Robin.

Organizza: Associazione Ya Basta! Italia
Info: www.casaloca.it

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La Corte Costituzionale non dà un via libera al nucleare

Una nota di commento sulla recentissima sentenza della Corte Costituzionale in materia di rapporti stato/regioni sul nucleare

La recente sentenza della Corte Costituzionale n.331/2010  ha dichiarato  la illegittimità costituzionale delle leggi regionale della Puglia, Basilicata e Campania contro l’installazione di centrali nucleari nel proprio territorio.  Questa sentenza è stata letta in primo luogo dai mass media, ma anche da osservatori interessati (fronte governativo e industriali in primo luogo) come la sconfitta definitiva (almeno in termini giuridici) dei poteri regionali e locali sulla decisione del Governo di ripartire con il nucleare nel nostro paese.

Non è così, almeno per il momento, e con le note che seguono cercherò sinteticamente di spiegare perché.

Secondo la sentenza le suddette leggi regionali, con analoghe formule, vietano l’installazione sul territorio regionale di impianti di produzione di energia nucleare, di fabbricazione del combustibile nucleare, di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, di depositi di materiali e rifiuti radioattivi, salvo che venga previamente raggiunta un’intesa con lo Stato in merito alla localizzazione. Tali leggi regionali secondo la sentenza in esame, riproducono in parte il contenuto di analoghe norme regionali, finalizzate a precludere la presenza sul territorio di pertinenza di materiali nucleari e già oggetto di sentenze della Corte (n. 247 del 2006 e n. 62 del 2005); in altra parte, invece, se ne distinguono, poiché, rispetto alle prime, aggiungono che il divieto non ha carattere assoluto, ma recede, ove sia raggiunta l’intesa tra Stato e Regione interessata.

Sotto il profilo del rapporto materia interessata/competenze la Corte ribadisce quanto già affermato nella precedente giurisprudenza :

  • la gestione delle scorie radioattive rientra nella materia ambiente di competenza esclusiva dello stato (sentenza 62/2005)
  • gli impianti di produzione nucleare rientrano nella materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. (sentenza n. 278 del 2010).

Comunque in entrambi i casi, secondo la Corte Costituzionale, la disciplina della Intesa Stato Regioni spetta allo Stato. Infatti secondo questa ultima sentenza: “ la disciplina normativa di queste forme collaborative e dell’intesa stessa, spetta al legislatore che sia titolare della competenza legislativa in materia: si tratta, vale a dire, del legislatore statale, sia laddove questi sia chiamato a dettare una disciplina esaustiva con riferimento alla tutela dell’ambiente, sia laddove la legge nazionale si debba limitare ai principi fondamentali, con riferimento all’energia. Anche in quest’ultimo caso, infatti, determinare le forme ed i modi della collaborazione, nonché le vie per superare l’eventuale stallo ingenerato dal perdurante dissenso tra le parti, caratterizza, quale principio fondamentale, l’assetto normativo vigente e le stesse opportunità di efficace conseguimento degli obiettivi prioritari, affidati dalla Costituzione alle cure del legislatore statale.”

La Corte, confermando la precedente pronuncia (sentenza 278/2010), precisa che nell’esercizio della suddetta competenza il legislatore statale deve garantire adeguate forme di coinvolgimento della Regione interessata. Conclude la Corte Costituzionale affermando che le Regioni potranno sollevare questioni di incostituzionalità su tale disciplina statale a cominciare dal recente dlgs n. 31 del 2010 nel quale andrà rinvenuta, in rapporto con la legge delega n. 99 del 2009, la vigente disciplina di realizzazione degli impianti e dei depositi,

Per capire quindi i reali poteri regionali di interdizione occorre, salvo un futuro pronunciamento specifico della Corte Costituzionale, mettere a confronto i principi che la stessa Corte Costituzionale ha stabilito in materia di disciplina statale delle Intese Stato Regioni nella materia energia (con particolare riferimento a quella nucleare) con il dlgs 31/2010 che appunto ha disciplinato la procedura di autorizzazione delle centrali nucleari prevedendo che la mancata Intesa possa essere superata con un Dpr (Decreto Presidente della Repubblica)  previa delibera del Consiglio dei Ministri.

La Corte in successive sentenze ha fissato alcuni principi in materia di Intesa  Stato Regioni nella materia energia prevedendo:

  1. che la mancata Intesa con la Regione costituisca: “ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento – come,  del  resto, ha riconosciuto anche l’Avvocatura dello Stato – a causa  del  particolarissimo  impatto che una struttura produttiva di questo  tipo  ha su tutta una serie di funzioni regionali relative al governo del territorio, alla tutela della salute, alla valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, al turismo, etc” (Corte Costituzionale n. 6/2004 relativa al c.d. decreto sblocca centrali)
  2. l’Intesa deve realizzarsi con la Regione territorialmente interessata e non può essere spostata in organismi diversi come la Conferenza Unificata Stato Regioni – Città  (Corte Costituzionale n. 62 del 2005 relativa alle leggi regionali in contrasto con la legislazione nazionale sul deposito nazionale per le scorie nucleari)
  3. occorre sempre la Intesa con la Regione soprattutto quando la decisione in oggetto possa avere un impatto potenziale significativo sulle competenze regionali anche in termini finanziari e sicuramente una scelta come quella di una centrale nucleare può realizzare tale impatto: basti pensare alle questione del rischio, dell’approntamento delle infrastrutture stradali, dell’organizzazione del sistema dei controlli, delle modifiche alla destinazione urbanistica dei territori interessati dal sito etc. (sentenza Corte Costituzionale 339/2009)

Ora questi principi non pare siano stati compiutamente rispettati dal dlgs 31/2010 che forse doveva essere l’atto effettivamente da impugnare da parte delle Regioni e non la legge delega 99/2009 come peraltro sottilmente la stessa sentenza della Corte Costituzionale (331/2010)  rileva nelle sue motivazioni. Infatti la Corte Costituzionale (con sentenza 278/2010 sulla legge delega per la strategia energetica nucleare) ha affermato che il potere sostitutivo dello Stato potrà “superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverossia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà (sentenza n. 303 del 2003” .

Inoltre tali principi dovranno altresì essere rispettati in sede di  decisioni dei singoli siti ed impianti e questo permetterà alle Regioni un largo spazio di manovra per opporsi alla installazione delle centrali nucleari sui propri territori visto che “ la scelta dello specifico impianto da realizzare in concreto  rientra a tutti gli  effetti  nell’ambito del procedimento di autorizzazione unica retto, e per tale via si offre alla codeterminazione dell’atto da parte della Regione interessata, una volta che il legislatore delegato abbia provveduto ad introdurre la relativa intesa”. (sentenza Corte Costituzionale 278/2010).

Se a questi principi da rispettare si aggiunge quello più recente sull’impossibilità di utilizzare capitali privati consistenti per realizzare impianti energetici urgenti  e strategici (sentenza Corte Costituzionale 215/2010), possiamo dire che anche da un punto di vista giuridico la partita del nucleare sia tutt’altro che chiusa.

Marco Grondacci
Giurista ambientale

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A qualcuno piace caldo

Mentre il pianeta continua a surriscaldarsi, l’Italia si avvia a fare l’ennesima brutta figura in materia di politiche climatiche. Nelle ultime dichiarazioni di Corrado Clini, Direttore Generale del Ministero dell’Ambiente, l’Italia sembra avviata a “tirare il freno” all’azione europea volta a ridurre le emissioni che surriscaldano il pianeta. In discussione c’è l’aumento delle riduzioni dei gas serra, dal 20% al 30% entro il 2030. L’aumento dell’impegno europeo al 30% ha almeno tre motivi.

Il primo è che il 20% risulta insufficiente nelle negoziazioni internazionali: molti paesi in via di sviluppo hanno fatto notare che la responsabilità “storica” dell’Europa – ma anche di Stati Uniti e di altri paesi OCSE – è tale che le riduzioni già promesse non sono sufficienti se si vuole arrivare ad una suddivisione equa degli sforzi.

Il secondo è che la crisi ha ridotto notevolmente le emissioni europee e l’impegno del 30% ora è raggiungibile senza sforzi eccessivi.

Il terzo motivo è stato scritto nero su bianco da tre ministri di Francia, Germania e Regno Unito (Jean-Louis Borloo, Norbert Röttgen e Chris Huhne) che in luglio hanno pubblicato un appello: con impegni blandi, l’Europa potrebbeperdere la corsa nella competizione per un mondo low carbon con Paesi come la Cina, il Giappone e gli Stati Uniti”. Della stessa idea 27 tra le maggiori aziende europee (fra cui l’italiana Barilla) che poche settimane fa hanno pubblicato su Financial Times, Le Monde e Frankfurter Allgemeine Zeitung una lettera–appello di sostegno al nuovo obiettivo, con argomenti molto concreti: “il futuro vantaggio competitivo dell’Unione Europea dipende dalla capacità di incoraggiare e consentire alle sue imprese di guidare la trasformazione dell’economia mondiale che avverrà nei prossimi due decenni, e non di nascondersi da essa”.

Le dichiarazioni di Clini sono avvenute alla Camera dei Deputati, in occasione di una conferenza stampa di presentazione del progetto “Come cambia il cambiamento climatico”, promosso dalla Fondazione Formiche. Il libretto che ha riassunto i risultati del progetto, distribuito in allegato al quotidiano Libero, contiene l’introduzione del Direttore Generale, in linea con le dichiarazioni al convegno: non servono nuovi limiti alle emissioni, ma solo azioni tecnologiche volontarie per ridurre le emissioni. E se queste azioni non ci saranno? Non è il caso di cautelarsi imponendo dei limiti a tutela del pianeta? Non è più conveniente anticipare il cambiamento con misure più incisive? Tutte domande cui Clini non sembra interessato a rispondere.

La “brutta figura” dell’Italia non sarebbe una novità. In passato l’Italia si era distinta per l’opposizione al pacchetto clima energia della Commissione Europea, noto come “20-20-20” (20% di riduzione delle emissioni dei gas che surriscaldano il pianeta, 20% di produzione di energia da fonti rinnovabili e 20% di aumento dell’efficienza energetica), che era stato accusato di comportare costi eccessivi per l’economia Italiana.

Nel marzo di quest’anno, ben dopo l’approvazione del Pacchetto, avvenuta all’unanimità, quindi anche con il consenso dell’Italia, in Senato era stata approvata una mozione che chiedeva all’Italia di uscire dalla politica climatica europea sulla base di una presunta “clausola Berlusconi”. La clausola non esisteva, ma questo non impedì alla maggioranza di votare la mozione. Da notare che la maggioranza respinse la mozione del Senatore Francesco Rutelli che, senza dirlo apertamente, aveva copiato nella sua mozione gli impegni finali del G8 dell’Aquila. Dichiarazione che, ironia della sorte, Berlusconi si era vantato di avere personalmente scritto.

Insomma, la confusione regna sovrana al Ministero dell’Ambiente per quanto riguarda le politiche sul clima: le dichiarazioni di Corrado Clini non sono quindi una novità. Il potente Direttore Generale resta incontrastato da 15 anni al Ministero, e ha attraversato tutti i governi e tutti i ministri dell’ambiente.

In passato aveva scommesso sulla mancata approvazione del Protocollo di Kyoto e questa scommessa è costata cara al sistema industriale italiano che si è trovato impreparato all’entrata in vigore dei meccanismi flessibili del Protocollo, come l’emission trading europeo, il sistema di scambio delle quote di emissione in vigore dal 2005.

Il “no” italiano al passaggio a una riduzione del 30% è grave anche perché l’Italia è uno dei paesi che saranno più colpiti dai cambiamenti climatici. Pur se, come visto quest’estate, anche nella fredda Russia le alte temperature possono causare immani disastri, l’aumento previsto nelle temperature e la diminuzione delle precipitazioni possono mettere in crisi molti ecosistemi e le attività agricole di molte aree del mediterraneo, fra cui in particolare il sud Italia.

I deboli argomenti di Corrado Clini contro la politica Europea sul clima hanno forse anche altre spiegazioni. Il Direttore Generale del ministero risulta fra i componenti dell’executive team dell’Istituto Bruno Leoni (sul sito www.brunoleoni.it, Clini risulta come “senior fellow”), un centro studi torinese improntato al liberismo più sfrenato, che opera da anni come lobby contro le politiche climatiche europee, arrivando perfino a rilanciare le tesi dei negazionisti climatici: l’anno scorso ha pubblicato un libro del Presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Klaus, in cui il politico si improvvisava scienziato e negava l’esistenza del riscaldamento globale, con argomenti che hanno fatto sorridere gli scienziati di mezzo mondo. L’Istituto Bruno Leoni è stato candidato al premio “A qualcuno piace caldo” del sito Climalteranti, il premio riservato a chi si distingue nel disinformare sul tema dei cambiamenti climatici.

Se al Consiglio d’Europa del 14 ottobre il no italiano a un maggiore impegno contro i cambiamenti climatici avesse fra gli artefici un “senior fellow” di una nota organizzazione lobbistica, l’Italia non farebbe una gran figura. A Bruxelles i conflitti d’interesse significano ancora qualcosa.

(dal Blog di Mario Agostinelli su Il Fatto Quotidiano online)

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