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Sole o petrolio per produrre il cibo?

Relazione di Mario Agostinelli al seminario “Cibo e sostenibilità ambientale”, Milano – 6 novembre 2010

1. I CONFLITTI

Oggi c’è un conflitto molto acuto per la destinazione ad usi energetici di Terra, Acqua e Foreste. Si trascura abitualmente l’implicazione energetica della produzione di cibo, in particolare quello legato all’allevamento. Non esiste al riguardo “narrazione” adeguata. Ad esempio, l’abbattimento di foreste per produrre energia, ha l’effetto di rilasciare in atmosfera carbonio che altrimenti sarebbe sequestrato, in modo non molto diverso da quello che si ha con l’estrazione e la combustione di combustibili fossili. Le bioenergie possono ridurre l’anidride carbonica atmosferica, se le piante e il suolo riescono ad assorbire più anidride carbonica di quella che avrebbero assorbito senza le bioenergie stesse. In alternativa, le bioenergie possono essere prodotti con residui vegetali, che si sarebbero altrimenti decomposti, rilasciando carbonio in atmosfera. Che il suolo e le piante sequestrino carbonio supplementare per compensare le emissioni della combustione di biomassa, dipende dal tasso di crescita delle piante e dell’assorbimento del carbonio nella biomassa e nel suolo. D’altra parte, l’abbattimento di foreste per produrre energia, sia per bruciare il legno direttamente nelle centrali o per sostituire la foreste con colture bioenergetiche, ha l’effetto di rilasciare in atmosfera carbonio che altrimenti sarebbe sequestrato, in modo non molto diverso da quello che si ha con l’estrazione e la combustione di combustibili fossili. Questo crea un debito di carbonio, può ridurre l’assorbimento di carbonio da parte della foresta, e possono quindi aumentare le emissioni nette di gas serra per un lungo periodo di tempo prolungato, incompatibile con gli obiettivi di riduzione indicati per i prossimi decenni. La lezione è che ogni legge o regolamento volto a ridurre le emissioni di gas serra, deve includere una differenziazione delle emissioni da bioenergia in base all’origine della biomassa.

2. LA RIVOLTA DEL CIBO

La crisi alimentare del 2007-2008 ha rimesso cibo e agricoltura al centro della scena. La fiammata dei prezzi che la caratterizzò è stata analizzata come evento congiunturale, ma oggi appare come debolezza del sistema di governance globale che non contrasta le previsioni di prezzi elevati per i generi alimentari nel prossimo decennio e di contemporanea compressione dei redditi dei produttori agricoli.

Le distorsioni della filiera, caratterizzata da una crescente concentrazione, il dirottamento della risorsa alimentare verso tuttora crescenti utilizzi energetici e verso una ipertrofica zootecnia industriale, così come i fenomeni speculativi che agiscono a livello finanziario e tramite l’accaparramento di derrate nei periodi di scalata dei listini, contribuiscono a dare un carattere strutturale alla fragilità del sistema agroalimentare. L’offerta –mercantile- di sementi di varietà migliorate, non escluse quelle transgeniche, di pesticidi e fertilizzanti assumerebbe così un carattere umanitario per garantire messi crescenti a un’umanità sempre afflitta da problemi demografici. Vetrina per questa retorica è l’Africa. L’assunto è che se nel 2050 saremo più di 9 miliardi avremo bisogno di molto più cibo che solo una modernizzazione complessiva dell’apparato produttivo può garantire. Vittime predestinate di questo approccio sono i produttori di cibo, per definizione pre-moderni, e il contributo che il lavoro e il presidio sul territorio rurale offrono, rimpiazzati da tecnologie, capitali ed energia fossile.

L’interconnessione delle molteplici crisi che emergono in questi anni –ambientale, climatica, economica, sociale, occupazionale, oltre che alimentare- rendono piuttosto evidente come una produzione di piccola scala, diffusa, inclusiva, ecologica presenti soluzioni e ammortizzatori per molte di tali tensioni. Un miliardo e trecento milioni di produttori di cibo non possono più essere visti come bacino di manodopera di sostituzione per l’industria (tra l’altro ormai impossibile da assorbire) o retaggio di un passato, ma come la componente chiave di un rilancio dell’attività agropastorale capace di leggere e curare il caos climatico, di gestire e valorizzare le risorse naturali, di alimentare i mercati interni accorciando e ricontestualizzando anche culturalmente le dinamiche di consumo alimentare

3. IL CONSUMO ENEGETICO

Le componenti dell’agricoltura industriale moderna più energivore sono la produzione di concimi chimici azotati, le macchine agricole e l’irrigazione artificiale con pompe a motore. Rappresentano più del 90% di tutta l’energia consumata direttamente o indirettamente dall’agricoltura e ne costituiscono gli elementi essenziali. Le emissioni di anidride carbonica provenienti dall’uso di combustibili fossili per fini agricoli in Inghilterra e in Germania toccano rispettivamente 46 e 53 chilogrammi l’ettaro, mentre sono solo 7 chili, cioè sette volte di meno nei sistemi agricoli non meccanizzati.

La produzione di cereali e legumi con l’agricoltura moderna richiede da 6 a 10 volte più energia che coi metodi agricoli durevoli. Si può ribattere che adottare fonti di energia rinnovabili, come l’eolica e il solare, le onde del mare e le pile a combustibile permetterebbe di evitare il consumo di energia per proteggere il nostro clima. Dobbiamo sviluppare un sistema agricolo che non provochi danni al clima e anzi sia in grado di contribuire a ricostruire la fertilità del suolo. Coloro che sono impregnati dall’ideologia del progresso si sorprenderanno nel sapere che un sistema del genere è molto simile a quelli praticati una volta dai nostri lontani antenati e ancora in atto nelle zone più isolate del terzo mondo, che sono riuscite a restare, in certa misura almeno, fuori dall’orbita del sistema industriale.

I piccoli agricoltori sono degli ammirevoli amministratori delle loro risorse di terra, capitale, fertilizzanti ed acqua. Che piaccia o no, l’agricoltura industriale moderna è destinata a scomparire. Si dimostra sempre meno efficiente. Infatti, i concimi chimici hanno rendimenti decrescenti. Nel 1999 la produzione mondiale di grano è diminuita per il secondo anno di seguito, scendendo a 589 milioni di tonnellate, cioè il 2% in meno rispetto al 1998. Un’altra ragione per la quale l’agricoltura industriale è destinata a sparire, anche senza cambiamento climatico, è la sua vulnerabilità agli aumenti del prezzo del petrolio L’agricoltura senza petrolio, anche quella tradizionale, è la soluzione ai problemi della fame.

4. CIBO E ENERGIA

Ambiente ed economia, del resto, sono legati dalla quantità di risorse che la terra mette a disposizione di ciascun essere vivente, anche se la fame nel mondo non è solo una questione di quantità di risorse, ma di distribuzione. Scrive Rifkin: “milioni di occidentali consumano hamburger e bistecche in quantità incalcolabili, ignari dell’effetto delle loro abitudini sulla biosfera e sulla sopravvivenza della vita nel pianeta. Ogni chilo di carne è prodotto a spese di una foresta bruciata, di un territorio eroso, di un campo isterilito, di un fiume disseccato, di milioni di tonnellate di anidride carbonica e metano rilasciate nell’atmosfera”. La produzione di carne è responsabile da sola del 18% delle emissioni globali di gas.

5. ALLEVAMENTI

Sappiamo tutti quanto il fumo passivo delle sigarette sia dannoso per la salute, ma per quanto concerne l’impatto ambientale del fumo emesso durante la cottura della carne nei fast-food fino ad oggi non si sapeva ancora molto. Deborah Gross ha lavorato sulla misurazione e sulla comparazione delle particelle solide e liquide emesse durante la cottura dei cibi più diversi con apparecchi commerciali quali forni, piastre e girarrosto. Nel corso di queste prove e della messa a confronto dei vari apparecchi per cuocere la carne ed i cibi, gli studiosi hanno scoperto che i cibi grassi cotti ad alte temperature – in particolare quelli cotti direttamente sulla fiamma – sono quelli che producono il più alto livello di emissioni. Queste pietanze sono tra i più grandi autori di reati ai danni dell’ambiente, ed includono i consumatissimi hamburger ed il pollo fritto: ogni 1,000 libbre di hamburger cotti si producono ben 25 chili di emissioni. Ogni hamburger equivale a 6 metri quadrati di alberi abbattuti e a 75 chili di gas responsabili dell’effetto serra. Ma pensa anche alle tonnellate di grano e soia usate per dar da mangiare alla tua bistecca. E non dimenticare che 840 milioni di persone nel mondo hanno fame e 9 milioni ne hanno tanta da morirne. Il 70% di cereali, soia e semi prodotti ogni anno negli Usa serve a sfamare animali. Non uomini. Mangiare meno carne o, perché no, non mangiarne affatto, non è più solo un segno di rispetto per gli animali. Ogni volta che addentiamo un hamburger si perdono venti o trenta specie vegetali, una dozzina di specie di uccelli, mammiferi e rettili. Dal 1960 a oggi, oltre un quarto delle foreste del Centro-America è stato abbattuto per far posto a pascoli; in Costa Rica i latifondisti hanno abbattuto l’80% della foresta tropicale e in Brasile c’è voluto l’omicidio di Chico Mendes per sollevare attenzione al problema. In Amazzonia la foresta pluviale è stata fagocitata da 15 milioni di ettari di pascolo. Quasi la metà dell’acqua dolce consumata negli States è destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame. È stato calcolato che un chilo di manzo ‘beve’ 3.200 litri d’acqua. Ogni anno gli animali da allevamento consumano 5 mila tonnellate di antibiotici di cui 1.500 per favorirne la crescita. E tutti vanno a finire nelle falde acquifere

Nel bacino del Po ogni anno vengono riversate 190 mila tonnellate di deiezioni animali. Contengono metalli pesanti, antibiotici e ormoni. Un allevamento medio produce 200 tonnellate di sterco al giorno e i bovini sono responsabili dell’effetto serra tanto quanto il traffico veicolare del mondo intero.

È la stessa FAO a fornire un elenco agghiacciante dei problemi causati dagli allevamenti intensivi: riduzione della biodiversità, erosione del terreno, effetto serra, contaminazione delle acque e dei terreni, piogge acide a causa delle emissioni di ammoniaca. Solo un centesimo dell’energia immessa nella carne cotta arriva al nostro organismo: il 99% viene dissipata. Il bestiame è dunque una fonte di alimentazione altamente idrovora ed energivora, una massa bovina che ingurgita tonnellate di acqua ed energia. E lo fa per nutrire solo il 20% della popolazione globale del pianeta.

La domanda di carne sta comunque crescendo. Paesi come la Cina stanno abbandonando riso e soia a favore di abitudini occidentali. Il manzo globale sta diventando una realtà. Si chiama rivoluzione zootecnica: significa spostare nel Sud del mondo la produzione di carne.

6. A KM ZERO

La maggioranza dei cittadini europei è sensibile alla questione ambientale ed è preoccupata per il possibile impatto negativo sull’ecosistema dei prodotti acquistati. Secondo una recente indagine di Eurobarometro, infatti, il 63% degli europei pensa che il cambiamento del clima dovuto all’inquinamento sia un problema estremamente serio. Anche in fatto di cibo l’inquietudine sulle sorti del pianeta si fa sentire sempre più: da qui, per esempio, nasce la moda degli acquisti di prodotti del territorio, cosiddetti “a chilomentro zero”. Meno chilomentri si percorrono per il trasporto, meno si inquina. Vero, ma questo aspetto incide in minima parte sulla capacità inquinante della produzione di un alimento: circa il 10%. La maggior parte delle emissioni di CO2 sono dovute all’uso di fertilizzanti, di gasolio per il funzionamento delle macchine agricole, di energia per gli stabilimenti e così via. Il tema è complesso e non basta ridurlo ad un semplice slogan. Per dare ai consumatori gli strumenti per attuare scelte veramente ecologiche servono serie campagne di informazione. La Coldiretti stima che consumando prodotti locali e di stagione e facendo attenzione agli imballaggi, una famiglia può risparmiare fino a 1000 chili di anidride carbonica (CO2) l’anno poiché, ad esempio, per trasportare con l’aereo a Roma un chilo di mele dal Cile per una distanza di 13mila km si liberano 18,3 kg di CO2 e si consumano 5,8 chili di petrolio, mentre per un kg di kiwi dalla Nuova Zelanda nel viaggio di 18mila chilometri si emettono 24,7 kg di CO2 e si perdono 7,9 chili di petrolio e, infine, per gli arrivi di ogni kg di limoni dall’Argentina si producono 16,2 kg di CO2 e si consumano 5,4 chili di petrolio. Favorire nelle città italiane l’apertura di mercati gestiti direttamente dagli imprenditori agricoli delle campagne, i cosiddetti Farmers Market, risponde alla crescente domanda dei consumatori di combattere la moltiplicazione dei prezzi, di assicurarsi prodotti di qualità e di limitare l’inquinamento ambientale.

7. PROGETTO MILLE ORTI IN AFRICA

Perché 1000 orti in Africa?

È il progetto ideale per riuscire a ragionare su grandi numeri: mille orti in più di 20 paesi è un campione sufficiente per poter fare un lavoro di analisi e confronto e, quindi, una proposta sull’agricoltura locale in Africa, che sia supportata da dati e da esperienze concrete.

L’orto è il progetto più adatto perché:

• ha tempi di realizzazione relativamente rapidi (in un anno si vedono già i primi risultati, mentre il percorso di un Presidio, ad esempio, è più complesso e lento)

• ha un basso livello di conflittualità, perché non c’è competizione fra i vari soggetti

• è un’esperienza comunitaria, che spesso riunisce generazioni diverse e contesti sociali diversi (insegnanti,studenti e contadini, ad esempio)

• permette di lavorare sul recupero e la promozione del germoplasma locale

• permette di sperimentare forme di agricoltura sostenibili

• permette di lavorare sul tema della diversificazione colturale (proponendo orti che mettano insieme ortaggi, frutta, erbe aromatiche e medicinali, tintorie)

• permette di lavorare sul tema dell’equilibrio fra sovranità alimentare e mercato

• permette di lavorare sulla produzione di trasformati di qualità (nelle stagioni in cui ci saranno prodotti in eccedenza)

• permette di lavorare sul tema della diversificazione dei mercati (prodotti diversi e packaging diversi per diverse tipologie di mercato)

• permette di sperimentare tecniche di formazione e modelli di comunicazione adatti al contesto africano (fumetti, radio, teatro…)

In Africa, gli orti possono rappresentare un’interessante fonte di cibo sano e a portata di mano e un integrazione di reddito per le comunità locali. Partendo a tale presupposto gli orti di Terra Madre hanno l’ obiettivo di soffermersi su concetti quali la conoscenza e l’ utilizzo dei prodotti locali e della biodiversità, il rispetto dell’ambiente, l’uso sostenibile del suolo e dell’acqua, la salvaguardia delle ricette tradizionali.

Milano 6 novembre 2010, Mario Agostinelli

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“Cibo e sostenibilità ambientale” a Milano

Sabato 6 novembre, Palazzo Reale, Milano

Intervento di Gianni Tamino, Università di Padova

La “rivoluzione verde” ha comportato oltre ad un incremento di produttività anche un notevole aumento dei consumi di acqua e di energia in agricoltura.
Secondo Giampietro e Pimentel (1993), la “rivoluzione verde” ha aumentato in media di 50 volte il flusso di energia rispetto all’agricoltura tradizionale e nel sistema alimentare degli Stati Uniti sono necessarie fino a 10 calorie di energia fossile per produrre una caloria di cibo consegnata al consumatore.
I maggiori consumi di energia e acqua riguardano la produzione di prodotti animali, soprattutto negli allevamenti intensivi, dove gli animali sono alimentati con mangimi a base di soia e mais, spesso OGM. Per esempio, una porzione di cane è stata ottenuta con una quantità di cereali e legumi sufficienti per alimentare 8-10 persone.
Mettere in discussione l’agricoltura industriale richiede la messa in discussione di tutto il modello economico, fondato sull’illusione che le risorse del pianeta siano infinite.
La felicità, che dovrebbe essere l’obiettivo di una società umana solidale, non dipende da quanto si consuma, ma dalla possibilità di soddisfare i bisogni essenziali, tra cui quello di convivenza, di convivialità, di vivere bene insieme con gli altri. È evidente che, se qualcuno consuma troppo, inevitabilmente una gran parte di esseri umani non ha accesso ai consumi essenziali, come l’acqua e il cibo, e quindi si crea una condizione di pesante ingiustizia.

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Convegno “Recuperare per rigenerare”

“Recuperare per Rigenerare” – Il consumo del suolo in Italia di fronte alla sfida dei cambiamenti climatici

a cura del Gruppo di Lavoro Protocollo di Kyoto ed Enti Locali di Kyoto Club in collaborazione con Legambiente.

Rimini, 4 Novembre 2010

Il territorio italiano negli ultimi 30anni è stato segnato da un continuo e crescente consumo del suolo causa di una attività urbanistica che privilegia l’edificazione selvaggia, la realizzazione di nuove infrastrutture, favorendo così lo sprawl anziché una pianificazione sostenibile. Le crescenti sfide climatiche richiedono di pianificare per non sprecare, di preservare il suolo rimasto libero e recuperare gli edifici esistenti. Proteggere il suolo libero significa: ridurre le emissioni, grazie alle aree protette e il suolo come sink di carbonio, bloccare l’impermeabilizzazione del suolo, permettendo alle acque di rifornire le falde.

Pianificare un uso sostenibile del suolo significa: migliorare il consumo di energia locale e la produzione da fonti rinnovabili attraverso la costituzione di reti intelligenti, migliorare la qualità dei trasporti riducendo i consumi di combustibili e delle emissioni climalteranti. Recuperare l’esistente per Rigenerare l’economia del nostro paese, garantendo un futuro sostenibile alle generazioni che verranno.

Giovedì 4 novembre (ore 9,30 – 13,15) – Sala Copenaghen

Programma:

Introduce: Alessandro Vezzil, Responsabile GdL Enti Locali Kyoto Club,

Saluti: Sabrina Freda, Assessore Ambiente, riqualificazione urbana Regione Emilia-Romagna*

ore 10.15 – 11.15
Prima Parte: “Quadro Normativo Europeo e Italiano”

Coordina ed introduce: Sergio Cannavò, copresidente del Centro Azione Giuridica di Legambiente
“Dimensione Europea – Soil Framework Directive e Natura2000”

Sen. Roberto Della Seta: Capogruppo in Commissione Ambiente del Senato*
Senatore Antonio D’Alì Solina: Presidente Commissione Ambiente Senato*
Federico Oliva – Presidente INU ( Istituto Nazionale di Urbanistica)*
Paolo Buzzetti – Presidente ANCE (Edilizia)*

Ore 11.15 – 11.30 Pausa

Ore 11.30 – 13.00
Seconda Parte: “Il ruolo degli Enti Locali e rapporto con le attività economiche”

Coordina e conclude: Anna Donati – Resp. GdL Mobilità Sostenibile Kyoto Club
“Provincie e Comuni virtuosi”

Maurizio Fontanili – Presidente Provincia di Mantova
Antonio Saitta – Presidente Provincia di Torino
Domenico Finiguerra – Sindaco di Cassinetta di Lugagnano (MI)\Campagna Stop Al Consumo di Territorio
“L’economia del suolo: Edilzia, Trasporti ed Energia”
Paolo Strina – Sindaco di Osnago (LC)*
“L’economia del suolo: Edilzia, Trasporti ed Energia”
Gianni Silvestrini – Direttore Scientifico Kyoto Club
Mario Agostinelli – Portavoce Contratto Mondiale per l’Energia e il Clima (Infrastrutture Energetiche)

Domande e dibattito aperto 13.00 – 13.15

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Meno 90% di emissioni entro il 2030

Un percorso da imitare in Italia: l’esercizio inglese del “meno 90% di emissioni entro il 2030”

Nel libro Heat (pubblicato nel 2007 da Penguin) il giornalista e ambientalista inglese George Monbiot conduce un interessante esercizio rispetto alla situazione delle emissioni di gas serra – e dunque del modello energetico – del suo paese: verificare se in ogni settore si possano ridurre del 90% entro il 2030 le emissioni di gas serra allo stato attuale delle tecnologie e senza contare sulle compensazioni e sul commercio di carbonio (un facile meccanismo di indulgenze). Perché meno 90% entro il 2030, se tutti parlano di percentuali di riduzione molto minori? (La richiesta di riduzione più elevata ai paesi Ocse (ricchi), che rientrano nell’Annex I del Protocollo di Kyoto è quella della Bolivia: chiede ai ricchi una riduzione del 50% entro il 2020).

Il ragionamento di Monbiot, basato su stime di istituti di ricerca come il Potsdam, è questo: i due gradi di aumento della temperatura terrestre, soglia vista come senza ritorno (e già piuttosto alta per molti) potrebbero essere raggiunti già nel 2030 a meno di drastici tagli. Intanto, nel 2030 la capacità totale di assorbimento di carbonio da parte della biosfera sarà ridotta dai 4 miliardi di tonnellate all’anno a 2,7 miliardi di tonnellate (secondo il Met Office). Per mantenere dunque l’equilibrio a quel punto, senza aggiungere altri gas serra ogni anno, la popolazione mondiale non dovrebbe emettere più di 2,7 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno. Il mondo è intorno a 7 (ndr: ma solo per quanto riguarda le emissioni da combustione di fossili. Per l’Ipcc (RAPPORTO 2007)  le proporzioni delle emissioni totali di gas serra sono: emissioni totali annuali 49 mld tCO2eq/anno, emissioni fossili di CO2: 27.7 mld ton/anno; da deforestazione:  8.5 mld tCO2eq/anno; di metano: 7 mld tCO2eq/anno; di N2O: 3.9 mld tCO2eq/anno; altra CO2: 1.3 mld tCO2/anno; F-gas: 0.5 mld tCO2/anno).

Quindi la riduzione delle emissioni dovrebbe essere pari al 60%. Ma poi, nel 2030 la popolazione mondiale sarà di 8,2 miliardi di persone. Dividendo il pozzo di carbonio totale, 2,7 miliardi, per il numero di terrestri, si trova che per raggiungere una stabilizzazione nelle emissioni (già non di per sé sufficiente…) il peso delle emissioni pro capite (siamo tutti uguali come esseri viventi o qualcuno ritiene che una parte degli umani – per esempio noi – abbia più diritti di emissione?) non dovrebbe superare le 0,33 tonnellate di carbonio all’anno. Si noti che per tradurre il carbonio in anidride carbonica, occorre moltiplicare per 3,667: quindi le emissioni pro capite massime accettabili sarebbero intorno alle 1,2 tonnellate all’anno. Nei paesi ricchi, anche in Italia, questo significa appunto una riduzione del 90%, più o meno. Allora Monbiot percorre, settore per settore, la vita produttiva e di consumo del suo paese: dall’elettricità (che fa funzionare anche l’industria) ai trasporti, dal riscaldamento alla grande distribuzione, e cerca passo passo di verificare se con soluzioni strutturali come il risparmio energetico e il passaggio alle energie rinnovabili, e anche con cambiamenti negli stili di vita, questa riduzione si possa verificare. La risposta è sì. Tranne che per un singolo settore al quale riserva un intero capitolo anche per il loro crescente peso per il clima: gli aerei. Il settore non è riformabile, occorrerà soltanto tagliare e molto (sta succedendo il contrario, una minoranza dei terrestri vola forsennatamente). Monbiot non si occupa, salvo per la parte commercio, un settore importante: l’agricoltura e l’alimentazione. Nondimeno, il suo esercizio sarebbe da imitare per l’Italia…

A cura di Marina Correggia

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Articolo da Il Fatto Quotidiano

FACCIAMO DERAGLIARE IL TRENO DEL NUCLEARE

dal Blog di Mario Agostinelli

È partito il treno del nucleare”, titolava giorni fa un giornale aziendale dell’Enel. Per la verità, più che un treno lo definirei una littorina, ma avendo il governo approntato un solo binario (non sono ammessi contradditori alla comunicazione filo-nucleare) il rischio che arrivi a destinazione traballante e con macchinisti inesperti – tipo l’ancor ambizioso Veronesi alla guida dell’Agenzia – è più che reale. Bisogna allora che ci si doti di una strategia comunicativa adeguata, sapendo che il Cavaliere farà di tutto per “convincere gli Italiani” che guardano le sue televisioni. Innanzitutto, bisogna non essere ripetitivi e non dar nulla per scontato, oltre a delineare alternative desiderabili. Così, di tanto in tanto, su questo blog riprenderò distinti argomenti su cui sembra concentrarsi la ricerca di consenso per il cosiddetto Rinascimento (!) nucleare. Oggi mi vorrei concentrare sulle ragioni politico-culturali del rilancio dell’atomo e sulla propaganda bugiarda sulla riduzione dei costi e delle bollette elettriche che ci regaleranno i megareattori francesi.

Perché mai i leader di governo occidentali che nel perdurare della crisi constatano un declino di consenso tra gli elettori, si ostinano a scaricarne i costi sui lavoratori e i pensionati, a difendere strenuamente le banche, mentre, contemporaneamente, ridanno attualità al nucleare? Vale per il tentennante Obama che sulla scia di Bush riapre all’atomo, per la Merkel che guida la svolta liberista in Europa e prolunga di 12 anni la vita dei suoi reattori, per l’impopolare e antipopolare Sarkozy che piazza all’estero, ovunque possibile, gli Epr francesi sempre più costosi. E, naturalmente, vale per il Cavaliere e i suoi sodali, che imbarcano medici, scienziati, giornalisti ed economisti per una operazione mediatica in grande stile a favore del “nucleare meno costoso e più sicuro”, che dovrebbe piazzare impianti e scorie dalla pianura padana alle coste adriatiche e tirreniche.

Chi predica tagli e rigore a senso unico e alimenta l’illusione di una crescita a dispetto della salute e dell’ambiente naturale, in realtà ha deciso di non cambiare nulla e di curare la malattia con le ricette che l’hanno provocata, prospettando un futuro che, per mantenere il dominio dei poteri attuali, comporterà più autoritarismo, più ingiustizia sociale, guasti climatici sempre maggiori. E quale tecnologia è più congeniale a questo scenario di una produzione di energia militarizzata come quella nucleare e celebrativa fino al gigantismo del modello centralizzato delle fonti fossili oggi alla frutta? Non c’è bisogno di consenso democratico, ma basta il controllo dei media per assicurare un ordine che ha nella continuità del mito della crescita e nell’immutabilità della politica economica e industriale la sua giustificazione. E qui casca l’asino. È vero che le centrali atomiche hanno un fascino simbolico ed evocano illimitata potenza, ma solo in un immaginario che non regge alla prova dei fatti. Perciò i loro sostenitori sono obbligati a manipolare e nascondere l’informazione e a fare della bugia mediatica il terreno su cui giocare la partita. Spiegare che si lavora per un prossimo nucleare sicuro significa ammettere che quello attuale non lo è. Ed equivale a impedire che si realizzi un sistema energetico già disponibile, alternativo alle infrastrutture degli affari, decentrato, rinnovabile, integrato nei cicli naturali, governato democraticamente.

Per quanto riguarda i costi, i giornali hanno dato grande evidenza a uno studio commissionato da Enel e Edf e presentato dallo Studio Ambrosetti al Forum di Cernobbio per convincerci degli effetti miracolosi del nucleare sull’economia agonizzante. Il rapporto appare francamente bugiardo, poiché fa riferimento ad alcuni studi non propriamente aggiornati per prevedere un costo di produzione nucleare pari a 60 €/MWh, quando le stime più recenti del governo statunitense (Energy Outlook 2010) indicano che nel 2020 l’elettricità nucleare (86 €/MWh) sarà più costosa dell’eolico, del gas e del carbone. Inoltre, quando si parla di mettere in linea 13 mila MW di nucleare come nel piano del Governo, significa pensare di mandare in pensione una bella fetta di centrali esistenti, visto che attualmente abbiamo il doppio delle centrali necessarie e che anche per questo il costo del MW termico è alto, non potendo sfruttare appieno la potenza degli impianti. A proposito di bolletta non è mai sufficiente ripetere che i prezzi italiani dei consumi domestici (la bolletta che ciascuno di noi riceve a casa) sono mediamente inferiori del 4% ai livelli medi europei per consumi popolari. Solo per consumi superiori (2.500-5.000 kWh) i prezzi si collocano sopra della media europea, a livello di danesi, irlandesi, austriaci e tedeschi (che il nucleare ce l’hanno). E allora, perché nella crisi in corso dovremmo desiderare che da una parte ci abbassino salari e pensioni, e dall’altra ci tolgano diritti e democrazia, facendoci anche pagare più cara la luce?

A cura di Mario Agostinelli

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