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Dopo il Referendum

a cura di Andrea Fontana

Paolo Pileri, docente del Politecnico di Milano ed editorialista per Altreconomia ha commentato i risultati del referendum scrivendo tra l’altro: “occorre al più presto immaginare come impostare una nuova narrazione ambientale decisamente diversa da ieri, perché quella non ha funzionato. Occorre trovare modo di spiegare che con ambiente e sostenibilità si lavora, si fa società, si cresce, si mitigano le disuguaglianze e si migliora. Ovviamente occorre investire molto, molto di più, in cultura ambientale”.

Sono perfettamente d’accordo, anche se l’ultima frase per me ha tre parole di troppo, le ultime.

Se è quasi sempre giusto non cambiare la squadra che vince, è sacrosanto riformare quelle perennemente sconfitte. Occorre analizzare con spietata obiettività quale sia stato il contributo di chi si è speso per cercare di raggiungere un quorum apparentemente impossibile all’ultimo referendum. Ho già avuto modo di dire che considero maldestra l’idea di aver voluto identificare con il movimento NoTriv la campagna referendaria. Intendiamoci, ai NoTriv va tutta la mia stima e la mia solidarietà, ma il quesito era un altro. Non si trattava di stabilire se autorizzare o no le trivellazioni. Quelle sono già state autorizzate, purtroppo anche oltre le 12 miglia e sulla terraferma. Il quesito era sulla durata delle concessioni, se fosse corretto regalare a compagnie, straniere o nazionali poco importa, la possibilità di svincolarsi all’infinito dall’impegno di ripristinare le condizioni ambientali dei siti dove hanno ottenuto le concessioni per installare trivelle e piattaforme. Se è logico, rispetto all’interesse comune, permettere che le compagnie petrolifere possano, in assoluta legalità grazie alla clausola della franchigia annua, evitare di pagare anche le pur minime royalties previste dallo Stato italiano.

Invece siamo finiti a parlare delle cozze, del pericolo di eventuali sversamenti di petrolio in mare quando il 90% delle piattaforme interessate estraggono gas. Ci siamo fatti trascinare in una diatriba da stadio tra tifosi di Renzi e oppositori, manco fosse la Juve. Eravamo anche stati fortunati. Un ministro del Governo guidato dal triunvirato dell’astensione (Napolitano, Renzi e Boschi) si è fatto beccare, al momento giusto, con le mani nella marmellata da intercettazioni imbarazzanti, come un Moggi qualsiasi.

Non siamo stati capaci di sfruttare neppure il contributo del pontefice, che pure gode di grande influenza e con l’enciclica Laudato sì ha sostenuto con chiarezza e profonda capacità di analisi quasi tutte le tesi che ci stanno a cuore.

Inoltre, non credo che i temi dell’ambiente e della sostenibilità non interessino il grande pubblico, potrebbero avere, al contrario un grande fascino. Sono anche convinto che almeno l’ottanta per cento degli italiani, con una frequenza scolastica elementare, sappia perfettamente quanto siano scarse le nostre materie prime e che l’unico convinto si possa competere con oligarchi russi e sceicchi nel gioco di chi ha il pozzo più grosso sia Corrado Passera, l’ex ministro dello sviluppo economico autore della Strategia Energetica Nazionale in vigore dai tempi del governo Monti.

Insomma, mi pare evidente che ci siano stati errori tattici e strategici rilevanti. Occorrerebbe però sapere su quali forze si può realmente contare per una svolta dai contenuti radicali che, se vengono continuamente sfumati, non risultano discriminanti per andare a votare.

Sinceramente mi sento di ringraziare Greenpeace e pochi altri per l’impegno profuso. In particolare Andrea Boraschi ha svolto un gran lavoro confrontandosi in modo pacato e intelligente ogni volta che gli è stata data l’opportunità di dire la sua in un dibattito. Grazie alle strategie non convenzionali di marketing e comunicazione di Grennpeace, spesso quest’opportunità se l’è creata dal nulla. Forte è stato il tentativo di approfondire oltre il 17 Aprile la posta in gioco, come nel caso dell’e-book promosso da Angelo Consoli. Di più avrebbero potuto fare, secondo me, WWF e Legambiente, le maggiori associazioni ambientaliste sul territorio. Probabilmente ha fatto poco anche la Chiesa. Non so quanti fedeli abbiamo accolto l’appello dei vescovi che hanno invitato a informarsi e ad andare a votare. Non so quanti parroci abbiano letto l’enciclica e quanti ne abbiano preso spunto per tradurne il messaggio in una azione diffusa.

Dopo aver dispensato le mie perle di saggezza (almeno l’autoironia è rimasta) vorrei porre una domanda a chi ha avuto la pazienza di arrivare fino a qui: come pensiamo di avviare una nuova narrazione dei temi legati all’ambiente, all’etica, all’ecologia, all’energia e all’economia se i comunicatori restano sempre gli stessi che, per chiudere con un’altra metafora calcistica, sarebbero già stati da un pezzo messi in panchina e perlomeno affiancati, se non sostituiti, dalle promesse delle leve giovanili?

Il dibattito è aperto.

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Appello al Governo sulla Strategia Energetica Nazionale

Appello al Governo sulla Strategia Energetica Nazionale

FIRMA L’APPELLO >>>

Siamo un gruppo di docenti e ricercatori dell’Università e dei Centri di ricerca di Bologna. In virtù della conoscenza acquisita con i nostri studi e la quotidiana consultazione della letteratura scientifica internazionale, sentiamo il dovere di esprimere la nostra opinione sulla crisi energetica e sul modo di uscirne.

Abbiamo quindi scritto al Presidente del Consiglio ed ai Ministri competenti una lettera aperta nella quale critichiamo la politica energetica del Governo e presentiamo proposte alternative.

Chiediamo ai colleghi delle Università e Centri di ricerca di altre sedi e a tutti i cittadini interessati di firmare questo appello nella apposita sezione (firma).

Definire le linee di indirizzo per una valida Strategia Energetica Nazionale è un problema complesso, che deve essere affrontato congiuntamente da almeno cinque prospettive diverse: scientifica, economica, sociale, ambientale e culturale. I punti fondamentali dai quali non si può prescindere sono i seguenti:

1) E’ necessario ridurre il consumo eccessivo e non razionale di energia. Sia i singoli cittadini che le aziende devono essere indotte  a consumare di meno, non solo per i vantaggi economici che ne derivano, ma anche perché il consumo di energia è collegato al consumo di materiali e alla produzione di rifiuti. L’obiettivo fondamentale della riduzione del consumo di energia deve essere perseguito mediante un aumento dell’efficienza energetica e, ancor più, con la creazione  di una cultura della parsimonia, principio di fondamentale importanza per vivere in un mondo che ha risorse limitate.

2) La fine dell’era dei combustibili fossili è inevitabile e ridurne l’uso è urgente per limitare l’inquinamento dell’ambiente e per contenere gli impatti dei cambiamenti climatici che potrebbero avere, in alcuni casi, conseguenze catastrofiche. Ridurre il consumo dei combustibili fossili, che importiamo per il 90%,  significa anche ridurre la dipendenza energetica del nostro paese da altre nazioni e migliorare la bilancia dei pagamenti.

3) E’ necessario promuovere, mediante scelte politiche appropriate, l’uso di fonti energetiche alternative che siano, per quanto possibile, abbondanti, inesauribili, distribuite su tutto il pianeta, non pericolose per l’uomo e per l’ambiente, capaci di sostenere il benessere economico, di colmare le disuguaglianze e di favorire la pace.

4) Allo stato attuale, le possibili fonti di energia alternative ai combustibili fossili sono l’energia nucleare e le energie rinnovabili.

5) L’energia nucleare non ha i requisiti elencati al punto 3 e, proprio per questo, il suo sviluppo incontra serie difficoltà di ordine economico, tecnico, sociale, sanitario e politico; tanto che su scala globale, dopo aver raggiunto un culmine di 635 Mtep (tep = tonnellate equivalenti di petrolio) nel 2006, il consumo di energia nucleare è diminuito a 563 Mtep nel 2013 e non c’è evidenza di un’inversione di tendenza.

6) Le energie rinnovabili non sono più una fonte marginale di energia, come molti vorrebbero far credere: oggi producono il 22% dell’energia elettrica su scala mondiale, il 40% in Italia. Per ottenere il restante 60% dell’energia elettrica che serve in Italia, basterebbe coprire con pannelli fotovoltaici lo 0.5% del territorio, molto meno dei 2000 km2 occupati dai tetti dei 700.000 capannoni industriali e dalle loro pertinenze. Su scala mondiale, il fotovoltaico fornisce energia pari a quella prodotta da 23 centrali, nucleari o a carbone, da 1000 MW e l’eolico pari a quella di 85 centrali; in Italia, l’energia elettrica prodotta dal fotovoltaico è pari a quella prodotta da due centrali da 1000 MW.

7) La transizione dai combustibili fossili e dal nucleare alle energie rinnovabili sta già avvenendo, sia pure con tempi diversi, in tutti i paesi del mondo. In particolare, l’Unione Europea (UE) ha già da tempo messo in atto una strategia basata sui punti sopra elencati (il Pacchetto Clima Energia 20 20 20, l’Energy Roadmap 2050).

L’Italia non ha carbone, ha pochissimo petrolio e gas, non ha uranio, ma ha tanto sole e le tecnologie solari altro non sono che industria manifatturiera. Quindi l’Italia – Paese povero di materie prime che storicamente ha basato sull’industria manifatturiera e sul commercio i suoi periodi di prosperità economica e prominenza internazionale – ha un’occasione straordinaria per trarre enorme vantaggio dalla transizione energetica in atto, uscendo dalla drammatica crisi economica in cui si è avvitata. E’ del tutto evidente che il futuro economico, industriale e occupazionale del nostro Paese deve essere basato sullo sviluppo delle energie rinnovabili e non su quello di risorse energetiche convenzionali che non possediamo in quantità significative.

Purtroppo la Strategia Energetica Nazionale, che l’attuale governo ha ereditato da quelli precedenti e che apparentemente ha assunto, non sembra seguire questa strada. In particolare, il recente decreto Sblocca Italia agli articoli 36-38, oltre a promuovere la creazione di grandi infrastrutture per permettere il transito e l’accumulo di gas proveniente dall’estero, facilita e addirittura incoraggia le attività di estrazione  di petrolio e gas in tutto il territorio nazionale: in particolare, in aree densamente popolate come l’Emilia-Romagna, in zone dove sono presenti città di inestimabile importanza storica, culturale ed artistica come Venezia e Ravenna, in zone fragili e preziose come la laguna veneta e il delta del Po e lungo tutta la costa del mare Adriatico dal Veneto al Gargano, le regioni del centro-sud e gran parte della Sicilia (http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/cartografia/tavole/titoli/titoli.pdf)

Il decreto attribuisce un carattere strategico alle concessioni di ricerca e sfruttamento di idrocarburi, semplifica gli iter autorizzativi, toglie potere alle regioni e prolunga i tempi delle concessioni con proroghe che potrebbero arrivare fino a 50 anni. Tutto ciò in contrasto con le affermazioni di voler ridurre le emissioni di gas serra e, cosa ancor più grave, senza considerare che le attività di trivellazione ed estrazione ostacolano e, in caso di incidenti, potrebbero addirittura compromettere la nostra più importante fonte di ricchezza nazionale: il turismo. D’altra parte il decreto non prende in considerazione la necessità di creare una cultura del risparmio energetico e più in generale della sostenibilità ecologica e non semplifica le procedure che ostacolano lo sviluppo delle energie rinnovabili.

Mentre fonti governative parlano di un “mare di petrolio” che giace sotto l’Italia, secondo la BP Statistical Review del giugno 2014 le riserve di combustibili fossili sfruttabili nel nostro paese ammontano a 290 Mtep. Poiché il consumo di energia primaria annuale è di 159 Mtep, queste ipotetiche riserve corrispondono al consumo di meno di due anni. Spalmate su un periodo di 20 anni, ammontano a circa il 9% del consumo annuale di energia primaria. Si tratta quindi di una risorsa molto limitata, il cui sfruttamento potrebbe produrre danni molto più ingenti dei benefici che può apportare.

Il mancato apporto di questa risorsa marginale potrebbe essere facilmente compensato, senza il rischio di creare problemi, riducendo i consumi. Ad esempio, come accade nei Paesi del Nord Europa, mediante una più diffusa riqualificazione energetica degli edifici, la riduzione del limite di velocità sulle autostrade, incoraggiando i cittadini ad acquistare auto che consumino e inquinino meno, incentivando l’uso delle biciclette e dei mezzi pubblici, trasferendo gradualmente parte del trasporto merci dalla strada alla rotaia o a collegamenti marittimi e, soprattutto, mettendo in atto una campagna di informazione e formazione culturale, a partire dalle scuole, per mettere in luce i vantaggi della riduzione dei consumi individuali e collettivi e dello sviluppo delle fonti rinnovabili rispetto al consumo di combustibili fossili e ad una estesa trivellazione del territorio.

L’unica via percorribile per stimolare una reale innovazione nelle aziende, sostenere l’economia e l’occupazione, diminuire l’inquinamento, evitare futuri aumenti del costo dell’energia,  ridurre la dipendenza energetica dell’Italia da altri paesi, ottemperare alle direttive europee concernenti la produzione di gas serra e custodire l’incalcolabile valore paesaggistico delle nostre terre e dei nostri mari consiste nella rinuncia definitiva ad estrarre le nostre esigue riserve di combustibili fossili e in un intenso impegno verso efficienza, risparmio energetico, sviluppo delle energie rinnovabili e della green economy.

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Nuove trivelle in Lombardia?

Questo articolo è tratto da www.salviamoilpaesaggio.it

Il preoccupante interesse per l’oro nero, insostenibile ed insensato, non si limita al Canale di Sicilia ma sbarca anche nella pianura lombarda, già martoriata da cemento e nuove autostrade. Un’analisi delle zone interessate con un approfondimento per la situazione nella zona est della Provincia di Milano.

PETROLIO LOMBARDO, MINACCIA OSCURA

La notizia pubblicata su Corriere Ambiente lo scorso 4 Ottobre porta all’attenzione di tutti il fatto che anche la Lombardia è a rischio trivelle. Riaffiorano interessi per petrolio e gas nelle stesse aree già sondate qualche decennio fa. Siti operativi già attivi in passato e nuove richieste in fase di valutazione: si allunga l’ombra di una minaccia oscura che interessa numerose provincie e spaventa anche oltre confine, in Svizzera.

Perché è ripresa la “corsa al petrolio”? Qual è la situazione?
Cosa sanno i cittadini? Quali sono i rischi?

I NUMERI E LE PROVINCIE INTERESSATE

L’articolo sopracitato ricorda che su tutto il territorio lombardo sono ben 25 i nuovi sitisotto esame da parte del Ministero dello Sviluppo Economico, da ovest ad est, che si aggiungono alle 17 concessioni vigenti per la coltivazione di idrocarburi e 7 per lo stoccaggio di gas.
Una dettagliata planimetria colloca sul territorio lombardo siti attivi, permessi di ricerca già concessi e nuove richieste in esame.

Al momento sembrano “salve” solo le provincie di Lecco e Sondrio, anche se va ricordato che è di pochi anni fa l’assalto provato e respinto a Montevecchia (LC) dove la società australiana Po Valley era intenzionata ad effettuare pericolose ricerche in un area di grande valenza paesaggistica del Parco del Curone.

Le nuove istanze che interessano le provincie di Como e Varese spaventano oltreconfine. Nel Canton Ticino infatti non solo le associazioni ambientaliste, ma anche gli enti istituzionali, manifestano preoccupazione per una scelta, quella di puntare ancora sulle fonti fossili, che genera problemi ambientali locali e non risolve, anzi peggiora, i problemi climatici globali. I comuni svizzeri potrebbero anche attivarsi per presentare osservazioni ufficiali nelle istanze in corso.

Lo scenario complessivo sembra quello di una regione che prova a togliere alla Basilicata il titolo di “Texas d’Italia”.

L’EST MILANESE E LA SUA STORIA PETROLIFERA

Analizzando le informazioni riportate sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico in merito alle istanze in corso e il dettagliato archivio storico si scopre che:

– per la “ricerca di idrocarburi” figura un lungo elenco storico dei pozzi dal 1895 al 2011. Nelle provincie di Milano e Monza e Brianza sono ben 264 di cui uno rispettivamente a Monza, Lissone, Burago e Carugate e ben 31 nel solo comune di Brugherio dove risulta anche una concessione per lo stoccaggio di gas.

– per la “coltivazione di idrocarburi” sono elencate 17 concessioni, tra cui una riferita al comune di Pessano con Bornago, ambito d’interesse di ENI già da qualche anno. Una concessione che copre però un’area molto ampia che giunge fino al Vimercatese (Burago Molgora, Agrate Brianza e Caponago).

Tra le nuove istanze di “permesso di ricerca in terraferma” ce n’è una, arrivata alla fase di conferenza dei servizi, che fa riferimento al comune di Melzo, il cosiddetto “Progetto Melzo” della società italo-americana Mac Oil. L’istanza interessa, anche in questo caso, una serie di comuni della zona (Bellusco, Busnago, Cambiago, Cavenago di Brianza, Ornago e il già citato comune di Pessano con Bornago) e coinvolge anche alcuni comuni della provincia di Bergamo.

PESSANO CON BORNAGO: CORSI E RICORSI

Giuseppe Moretti del Circolo Legambiente “Il Molgora” di Pessano con Bornago ci racconta che l’Eni fece un carotaggio in quella zona già negli anni 70. La campagna fu poi abbandonata e il pozzo fu chiuso e sigillato.
Dopo anni, nel 2001, arrivò una proposta di riattivazione, finalizzata all’estrazione di gas che prevedeva inoltre la realizzazione di un’annessa centrale.

Ci fu l’opposizione dei cittadini e numerose proteste: furono convocate assemblee pubbliche in cui partecipò anche Eni. L’impianto proposto era troppo vicino alle abitazioni ed era inoltre nell’area del Parco del Molgora. L’impatto sarebbe stato devastante: oltre al traffico degli automezzi generato, il paesaggio sarebbe stato sconvolto da una torcia continuamente accesa come quella che si vede nella classica immagine dei pozzi petroliferi del medio oriente. La società fortunatamente rinunciò.

Ora le associazioni locali, alla luce anche delle notizie attuali, continuano a seguire con attenzione le vicende e non abbassano la guardia.

POCA INFORMAZIONE, TANTA PREOCCUPAZIONE

Sono poche le informazioni sull’argomento reperibili dalla stampa locale e dai comuni interessati, che abbiamo interpellato direttamente per conoscere l’avanzamento dei procedimenti in corso e le posizioni delle Amministrazioni Locali senza avere però alcun riscontro.

Per la zona del Vimercatese un recente articolo de “Il Cittadino”, conferma che il permesso di ricerca per Melzo ha ottenuto il via libera del Ministero. Sfruttando studi già fatti, saranno nuovamente oggetto di indagine le stratificazioni in cui potrebbero essere contenuti idrocarburi, confidando in risultati migliori della campagne di ricerca dei decenni scorsi.

Nella bassa bergamasca, interessata dal “Progetto Melzo”, cresce in rete la preoccupazione e la protesta: anche qui in diversi comuni (Arzago, Casirate, Fara Gera d’Adda, Treviglio e Calvenzano) riaffiorano situazioni che sembravano, dopo anni di silenzio, definitivamente accantonate.

GEOLOGIA ED ECONOMIA

La Pianura Padana ha geologicamente le caratteristiche per contenere idrocarburi, ma è tutta da valutare la quantità estraibile, su cui ovviamente vige il riservo da parte delle compagnie. Nei decenni scorsi sono state fatte numerose indagini e l’area è stata anche sfruttata. Ora però i residui ancora estraibili potrebbero trovarsi ad elevate profondità con forte possibilità di insuccesso.

Ma il prezzo del petrolio così alto e le discutibili agevolazioni dovute alle scelte governative italiane (bassi oneri di estrazioni rispetto ad altri paesi ed esigui obblighi di compensazione ambientale, le royalties) spingono comunque le compagnie, anche e soprattutto straniere, ad investire nuovamente.

La strategia energetica nazione proposta dal Governo ed in particolare dal ministro Passera è nuova sulla carta ma di vecchia concezione: prospetta infatti uno scenario futuro basato ancora principalmente sulle fonti fossili e non sulle rinnovabili. Una scelta esclusivamente economica, che mira a far cassa.

Ma per i territorio le previsioni non sono buone: più che una pioggia di soldi, il rischio è di una pioggia nera ed inquinante come quella che nel 1994 colpì Trecate (NO) dopo l’esplosione di un pozzo di trivellazione dell’AGIP.

PERICOLOSO MIRAGGIO

Le società petrolifere credono nel miraggio ed investono miliardi di euro, e promettono nuovi posti di lavoro, nuove entrate per lo Stato e risparmi in bolletta.

Ma se tutto questo sarà realizzato quale sarà il prezzo in termini di salute, inquinamento e sfruttamento del territorio?

Ogni compensazione economica sarebbe comunque insufficiente a giustificare il definitivo colpo di grazia per un territorio già devastato dalla cementificazione e inquinamento: occupare infatti le esigue aree agricole e libere con i nuovi pozzi, i relativi cantieri e gli impianti altamente inquinanti necessari ad estrazione, stoccaggio e trasporto di petrolio e gas, sarebbe insostenibile.

 

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