Archivi tag: sviluppo

La transizione energetica in Italia: tra strategie di conservazione e comunità emergenti

Con una postilla sul referendum del 17 aprile 2016

a cura di Giovanni Carrosio

Siamo nel mezzo di una crisi energetica, forse la piùimportante nella storia dell’umanità. Faccio riferimento al concetto di crisi, così come è stato adoperato da Immanuel Wallerstein: una fase nella quale le contraddizioni interne al sistema energetico dominante non possono piùessere risolte ristrutturando il sistema tale e quale, ma inducono ad un periodo di transizione caratterizzato da instabilitàe oscillazioni sempre più estreme tra varie alternative possibili di uscita dalla crisi. Una fase nella quale il sistema è aperto a diverse soluzioni alternative, ognuna delle quali èintrinsecamente possibile: si fronteggiano progetti di egemonia differenti, alcuni con più possibilità di affermazione, perchésorretti da poteri ancora dominanti, altri più fragili, perché decisamente discontinui rispetto ad essi.

Nei periodi di transizione, chi del sistema è parte, sia in una logica consociativa che antagonistica (movimenti sociali, forze politiche organizzate, gruppi di interesse economici, governi e istituzioni, cittadini e comunità locali) esercita un ruolo importante: in base alla composizione delle pressioni esercitate, il sistema prende un orientamento che con il tempo si fa dominante. I periodi di transizione possono essere anche molto lunghi, certamente caotici: il sistema oscilla in modo disordinato spinto da logiche contraddittorie, ma a un certo punto, il risultato delle pressioni diventa coerente e ci si ritrova collocati in un sistema energetico differente.

Assai difficile prevedere quali saranno i caratteri peculiari del nuovo sistema, non siamo ancora in una fase matura della transizione, e per questo i movimenti sociali, le nuove eco-imprese e le comunità locali hanno ancora molte possibilità per orientarne la direzione. Ciòche dobbiamo fare è innanzitutto cercare di comprendere in modo analitico ciò che sta succedendo. Èindispensabile uno sforzo di analisi per collocare le nostre scelte nel presente, affinché le cose prendano verosimilmente il corso che auspichiamo.

Le ragioni della crisi energetica

La crisi energetica prende forma per una serie di ragioni interne ed esterne al sistema: sono ragioni interne l’esaurimento delle risorse e la crescita della domanda globale di energia; sono invece fattori esterni il cambiamento climatico, la nascita di gruppi di pressione che orientano il proprio agire politico per modificare il sistema energetico, le lotte ambientali portate avanti dalle comunità contro i danni ambientali provocati da grandi impianti per la produzione di energia.

Proviamo ad approfondire i vari fattori citati. Il progressivo esaurimento delle risorse fossili è uno dei fattori predominanti della crisi: su di esso esistono proiezioni condivise, nonostante sia molto difficile fare delle previsioni. I paesi detentori delle risorse fossili tendono a minimizzare i dati che mostrano la scarsità di risorse, così come le grandi compagnie di estrazione. La maggior parte degli scienziati, tuttavia, concorda su proiezioni che ci vedono nel pieno del picco del petrolio, con conseguenze imprevedibili sulla scala temporale: è difficile prevedere quando vi saranno conseguenze irreversibili sui sistemi socio-politici e con quale velocità. L’andamento del prezzo del petrolio sarà un nodo cruciale di accelerazione o rallentamento della crisi energetica: controllarne le dinamiche significa anche governare la crisi. Esistono perciò forze organizzate che certamente hanno più potere di altre nell’orientare il sistema durante la transizione. Il secondo fattore, strettamente connesso al primo, è l’incremento dei consumi da parte dei paesi emergenti. Il fatto che Cina, India e Brasile abbiano sempre più bisogno di energia per dare gambe alla crescita economica, introduce un elemento di instabilità nel sistema energetico globale. Non solo le risorse fossili sono in esaurimento, ma il numero di pretendenti si allarga ed i consumi globali crescono vorticosamente. Le instabilitàche si producono sono soprattutto di natura geopolitica, dovute alla contraddizione tra sicurezza energetica degli stati nazionali e contrazione delle risorse disponibili e alle conseguenti tensioni tra stati per l’accaparramento di nuovi giacimenti. I recenti accadimenti in Ucraina ci mostrano con forza come la competizione per le risorse produca conseguenze geopolitiche incontrollabili. E le drammatiche tensioni che continuano a generarsi a partire dal Medio-Oriente, con l’avanzata del terrorismo di Daesh che si sorregge su un’economia petro- terroristica, ci ricordano come il legame tra consumatori occidentali di energia e padroni dei pozzi sia fatto di intrecci che producono commistioni e zone d’ombra tra apocalittiche categorie etiche come quella del Bene e del Male.

Un fattore esterno al sistema energetico rende il quadro ancora più complesso: mi riferisco al climate change, ovvero alle alterazioni che le emissioni per la produzione di energia da fonti fossili hanno provocato al clima. Gli effetti del riscaldamento del pianeta sono ormai tangibili: essi prendono forma nel caos climatico, che si manifesta con eventi estremi sempre più frequenti, capaci di mettere in ginocchio intere regioni del pianeta. L’esistenza della specie umana sulla terra rischia di diventare assai difficile, a causa dell’innalzamento dei mari, dell’inaridimento di vaste porzioni di terra, di temperature sempre piu elevate e dell’erosione del saggio di produttività dell’agricoltura, che potrebbe mettere in serio pericolo la sicurezza alimentare su scala globale. Le conseguenze economiche di questi eventi atmosferici, che attirano l’attenzione dei poteri dominanti piùdelle catastrofiche conseguenze ambientali, non sono piùtrascurabili e pongono il tema della lotta al cambiamento climatico e delle strategie di mitigazione e adattamento al centro dell’agenda politica di una parte delle organizzazioni internazionali. Una delle principali misure per ridurre le emissioni in atmosfera riguarda proprio il settore energetico: diminuire drasticamente i consumi e convertire il sistema fossile verso un sistema carbon free è l’obiettivo prioritario per provare a mitigare il cambiamento climatico. Queste esigenze si scontrano però con quelle dei paesi emergenti, di molti governi e con gli interessi di grandi gruppi industriali: i paesi emergenti pretendono di perseverare sulla strada della crescita, come l’Occidente ha fatto nel corso degli ultimi due secoli; i governi occidentali e grandi gruppi economici temono che un’applicazione rigorosa del protocollo di Kyoto li porti a perdere l’egemonia sul sistema economico globale.

Esistono ancora due fattori esterni, che si manifestano come frattura tra sistema energetico dominante e società. In primo luogo, crescono le opposizioni delle comunità locali alla ricerca di nuovi siti estrattivi, alla costruzione di nuove infrastrutture energetiche, alla presenza di impianti inquinanti. Ne sono un esempio, nel caso italiano, i movimenti contro la conversione a carbone delle centrali di Porto Tolle, La Spezia, Rossano Calabro, Civitavecchia; i comitati che si battono per la conversione ecologica del sito minerario del Sulcis, la rete di associazioni che contesta la costruzione di rigassificatori al largo delle coste, i cittadini organizzati che si oppongono alle attività estrattive dell’ENI in Basilicata. In secondo luogo, prende forma un consumerismo critico dell’energia. Nascono gruppi di consumatori ed associazioni che reclamano energia pulita e giusta. Alcuni esercitano pressione sui grandi gruppi che gestiscono le risorse fossili e si organizzano per acquisti collettivi di piccoli dispositivi per la micro-generazione di energia da fonti rinnovabili – per esempio le cooperative Retenergie – oppure danno vita a cooperative di consumo di energia 100% etica e rinnovabile – come ènostra, che consente ai propri soci di staccarsi dai tradizionali fornitori di energia elettrica. Altri, si organizzano in forme comunitarie per il raggiungimento dell’autonomia energetica su scala locale, diventando co-produttori di energia. Le associazioni in particolare – come Energia Felice, Comitato Sìalle Rinnovabili No al Nucleare – si mobilitano in positivo per la piena attuazione del referendum sul nucleare. Accanto ai movimenti sociali per l’alternativa energetica, vi è una fitta rete di imprese medio-piccole, che cercano spazio tra le pieghe non presidiate dal sistema dominante: professionisti, installatori, produttori di micro-dispositivi, certificatori energetici, appartenenti alla filiera della nuova edilizia a consumi zero.

Un altro fronte, spesso sottovalutato dai movimenti sociali e loro potenziale alleato, è dato dal riposizionamento di grandi imprese ad alto tasso di innovazione tecnologica, come Siemens, che stanno investendo in nuove tecnologie legate alle smart grid, dando una spinta dall’interno del mondo industriale alla transizione. Si tratta di operazioni spesso ambivalenti, portate avanti anche da colossi del settore energetico tradizionale – pensiamo ai concentratori solari luminescenti di ENI – che fanno parte allo stesso tempo di strategie di conservazione (si veda prossimo paragrafo), e di operazioni che aprono contraddizioni e dissociazione di interessi all’interno dello stesso regime energetico.

Le strategie di conservazione: grandi imprese, carbon lock-in e la trappola del gas

Abbiamo giàdetto come la transizione energetica non sia un processo univoco. Il passaggio da un sistema incentrato sulle risorse fossili ad uno fondato prevalentemente su quelle rinnovabili èun percorso accidentato, con fasi di accelerazione, fasi di stallo e momenti di arretramento. Nei periodi di transizione operano tante forze: resistenza e cambiamento si scontrano. Le forze dominanti adottano diverse strategie per non perdere l’egemonia sul sistema energetico. Alcuni parlano di carbon lock-in, come quell’insieme di azioni funzionali alla conservazione del sistema tecno- istituzionale che sfrutta le fonti fossili. Per riprodursi incontrastato, questo sistema agisce su diversi fronti.

Il primo èpiù tangibile: si tratta della strenua conservazione dell’esistente, soprattutto laddove non esistono forti opposizioni politiche e sociali capaci di mettere in discussione le loro attività e i sistemi regolativi sono molto permissivi sotto il profilo ambientale. La Strategia Energetica Nazionale di Passera va ampiamente in questa direzione, prevedendo anche la sottrazione della materia energetica alle regioni per un ri-accentramento decisionale. Il caso lucano ci rimanda a questo tema: un’area socialmente fragile, dove non esistono consistenti risorse di mobilitazione capaci di rimettere in discussione le attività dell’ENI.

Il secondo fronte èpiù subdolo, perché propagandato spesso come cambiamento in una direzione di sostenibilita. Si tratta dell’ammodernamento dell’esistente, secondo i principi della modernizzazione ecologica. I grandi investimenti in ricerca e sviluppo per la diffusione di tecnologie di cattura e stoccaggio di CO2 nelle centrali a carbone, sono un esempio di come i grandi gruppi orientano la ricerca sulle tecnologie per combattere il cambiamento climatico in una logica di preservazione della propria egemonia. Il carbon capture and storage consente di continuare a produrre energia da carbone, rendendo il processo meno inquinante in termini di emissioni. Si tratta di una innovazione interna al percorso tecnologico del carbone, che ne consente la sopravvivenza anche in ambienti più ostili, dove le pressioni sociali sono forti e le normative ambientali più stringenti. In questo caso si innova per conservare, affinché la produzione di energia da carbone non venga sostituita da sistemi tecnologici alternativi. Su questa tecnologia esistono controversie scientifiche importanti. Molti scienziati e analisti ritengono che lo stoccaggio di anidride carbonica nel sottosuolo non sia affatto sicuro: alcuni paventano un legame tra incremento del rischio sismico ed esperimenti di storage. Si tratta pertanto di una soluzione difficilmente percorribile al fine di ridurre le emissioni climalteranti, ma sulla quale si riversano enormi quantità di denaro per ricerca e sviluppo (a discapito della ricerca su risparmio e rinnovabili). Ancora una volta, perciò, non si trova soluzione ad un problema ambientale, ma lo si sposta su un altro versante non ancora saturo.

Il terzo fronte èdi apertura nei confronti delle rinnovabili e di condizionamento delle politiche di incentivazione e di regolazione. Il sistema dominante entra nel mercato delle rinnovabili, per orientarlo e governarlo, imprimendo accelerazioni e provocando fasi di stallo a seconda delle proprie esigenze. Il tentativo di governare le rinnovabili è funzionale a costruire un sistema nel quale esse ricoprano un ruolo esiziale e complementare. Enel, per esempio, ha da qualche anno dato vita alla società controllata Enel GreenPower, con l’obiettivo di investire nelle energie rinnovabili, mantenendo il controllo sul mercato dell’energia. Gli investimenti nelle rinnovabili cresciuti con forza negli ultimi cinque anni, hanno provocato una destabilizzazione del sistema elettrico nazionale, con importanti problemi di gestione della rete. I grandi gruppi hanno investito in produzione di energia, senza intervenire sullo stoccaggio e l’ammodernamento delle reti. In questo modo, contribuiscono a diffondere una immagine falsata sulle rinnovabili creando un clima di delegittimazione. L’immagine che trasmettono è di inaffidabilità e incapacità di garantire la continuità nella fornitura di energia.

Ai tre fronti di conservazione va aggiunta la trappola del gas: ovvero, l’idea dominante per cui il passaggio dalle fonti fossili alle rinnovabili richieda una fonte di transizione rappresentata dal gas naturale. Ma gli ingenti investimenti che stanno facendo le grandi imprese fossili con il consenso di alleanze interstatali su questo fronte sono un ulteriore tentativo di bloccare la transizione. L’imponente apparato tecno-istituzionale del gas naturale si impone come nuovo dispositivo di conservazione del sistema fossile. L’Italia si trova al centro di questa strategia, con l’ambizione di diventare hub strategico del gas per il resto d’Europa. Rientrano in questo obiettivo i tre rigassificatori entrati in funzione negli ultimi anni (Panigaglia, Porto Tolle e Livorno), i quattro approvati (Porto Empedocle, Gioia Tauro, Priolo Gargallo, Trieste, Capobianco) e i cinque ancora in fase progettuale (Ravenna, Taranto, Monfalcone, Rosignano, Porto Recanati). A questi va aggiunto il Trans Adriatic Pipeline (TAP), un progetto di gasdotto che dalla Grecia dovrebbe passare per l’Albania, immergersi nel Mar Adriatico per poi rispuntare in Puglia, in uno dei tratti di costa piu belli e incontaminati del Salento. Il TAP èsolo un segmento di un’opera ancora più grande, un serpentone di 3.500 chilometri che una volta completato porterà in Europa il gas che si trova al largo dell’Azerbaigian, nel Mar Caspio. In un secondo momento il Corridoio potrebbe comprendere anche il gasdotto Trans-Caspian, dal settembre 2011 oggetto di un negoziato diretto tra la Commissione europea e il governo del Turkmenistan. Gli altri due tratti si chiamano Trans Anatolian Gas Pipeline (TANAP) che, come dice il nome, interesserà il territorio turco, e Southern Caucasus Gas Pipeline, che parte dal Mar Caspio e passa per le Georgia.

L’alternativa energetica: risparmio, micro-generazione e comunità locali

Di fronte alla pervasività del sistema dominante e alla sussunzione delle rinnovabili all’interno di una strategia di conservazione, sembra impossibile intervenire dal basso per orientare la transizione energetica verso un sistema energetico democratico, giusto e libero dal carbonio. Nella lunga transizione dal carbone ai giorni nostri, i soggetti del cambiamento sono mutati.

Un bravo storico della Columbia University, Timothy Mitchell, nel suo libro “Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil (2012)”, ha delineato una relazione molto stretta tra l’avvento del carbone e l’importanza della classe operaia come soggetto politico organizzato all’interno delle democrazie occidentali. Il ciclo del carbone permetteva alla classe operaia di poter rivendicare diritti attraverso lo sciopero in una serie di nodi centrali del ciclo produttivo, dalla sua estrazione fino all’utilizzo nelle centrali. Bloccare una sola di queste fasi significava far mancare energia a tutto il sistema produttivo di uno stato nazionale. Pensiamo a quanta risonanza e valore simbolico ha avuto ancora negli anni 1984-1985 lo scontro tra i minatori del carbone e la Tatcher, che voleva chiudere – ed effettivamente chiuse – tutti i siti minerari in Inghilterra non solo per ragioni economiche, ma per sottrarre ai lavoratori un terreno di lotta attraverso cui rivendicare diritti e democrazia. E non a caso, la chiusura delle miniere prevedeva una transizione energetica verso petrolio e nucleare, fonti energetiche che richiedono un sistema di potere molto concentrato.

Per Mitchell il declino tardo novecentesco del movimento operaio come forza del cambiamento ha una delle cause proprio nel mutamento del sistema energetico e nel passaggio dalla centralità del carbone a quella del petrolio. Quest’ultima, fonte poco controllabile socialmente perché dislocata soprattutto nei paesi mediorientali e bisognosa di un apparato militare per gestirne le implicazioni geopolitiche, ha fatto sì che i lavoratori e i cittadini dei paesi occidentali perdessero la possibilità di controllare l’elemento primario per il funzionamento degli apparati sociali e produttivi della società contemporanea.

Come si collochino oggi i lavoratori nella transizione energetica, se forza di cambiamento o di conservazione, è un elemento che richiederebbe un approfondimento. Se il conflitto è tra decentramento dei sistemi produttivi – fino ai micro-dispositivi famigliari – e centralizzazione emergono nuovi soggetti: i cittadini e le comunità locali, insieme ai professionisti e alle piccole e medie imprese, hanno ampi spazi di agibilità politica dentro il paradigma della transizione. Essi mettono in luce una serie di antinomie che ci portano oltre la dialettica tra capitale e lavoro: decentramento/accentramento, risparmio/produzione, autonomia/dipendenza, sovranità energetica/sicurezza energetica. Dentro questa cornice concettuale, il modello “fordista” di produzione di energia entra certamente in crisi con tutte le sue componenti, anche quella del lavoro e della sua rappresentanza. E cambiano anche le forme e i fini delle lotte. Il risparmio energetico diventa lo strumento più forte per orientare la transizione dal basso (si veda Leonardo Becchetti, Il mercato siamo noi. Politiche per un’economia della felicità) mettendo in discussione il patto produttivistico tra imprese fossili e lavoro. Risparmiare energia significa rendere superflua una buona parte della produzione, riducendo il peso che le grandi imprese energetiche hanno sull’ambiente. Con le nuove tecnologie e adottando comportamenti virtuosi è possibile ridurre drasticamente i consumi di energia mantenendo inalterata la qualità delle nostre vite. Fare pressione per ambiziose politiche di risparmio energetico su più livelli è molto importante. Ma è altrettanto importante mobilitare cittadini e comunità locali perché adottino strategie di risparmio. Il risparmio di energia è una forma di critica materiale al sistema energetico dominante: bisogna riflettere come mai fino ad oggi le mobilitazioni locali contro il biocidio delle grandi imprese di energia non hanno promosso forme di lotta inedite e generalizzabili come lo sciopero dei contatori; può essere mobilitato un patrimonio di creatività per innovare le forme di protesta, in modo tale da sottrarre al sistema fossile la linfa vitale. Il secondo strumento per orientare la transizione energetica è la produzione di energia in forma decentrata, a livello di comunità o di singole famiglie. In Italia, ad esempio, vi è stata una straordinaria diffusione del fotovoltaico.

Questa diffusione ha avuto certamente connotati ambivalenti: ci sono state speculazioni sugli incentivi da parte di fondi di investimento e imprese multinazionali e una buona parte della potenza installata è rappresentata da impianti a terra, che hanno occupato terreni agricoli talvolta molto fertili. La questione importante che pochi osservatori hanno messo in evidenza, è che circa 200 mila famiglie, grazie al sistema di incentivazione, hanno installato piccoli impianti raggiungendo l’autonomia energetica della propria abitazione. Le motivazioni possono essere molteplici, ma la cosa che conta è che queste persone sono uscite dal sistema fossile per la produzione di energia domestica. Su un livello più alto, è necessario ripensare l’interazione tra utenti ed ex municipalizzate, soprattutto nel Nord Italia. Le più importanti multi-utilities del Paese si muovono ormai come imprese de-territorializzate e rappresentano uno dei freni più importanti alla transizione energetica.

La rivendicazione di spazi di democrazia all’interno di questi gruppi, attraverso la partecipazione diretta dei cittadini, è un elemento fondamentale per gestire a livello locale la transizione, invertendo la deriva produttivistica che queste imprese hanno assunto e riportando la lettura dei bisogni delle comunità locali al centro delle strategie imprenditoriali. Altrettanto importante, conoscere e mettere in rete le comunità locali che hanno adottato in modo autonomo azioni collettive per la produzione ed il risparmio di energia locale: nei piccoli comuni delle aree interne del Paese, esistono tanti progetti ed esperienze concrete di socializzazione dell’energia e di comunità in transizione verso un sistema libero dal carbonio. In altre zone, emergono esperienze come i Gruppi d’Acquisto di energia verde, o ancora i GAS per l’acquisto collettivo di micro- dispositivi energetici. Si fanno largo imprese sociali che operano nel settore del risparmio, e nuove cooperative di produzione e consumo, per la realizzazione di impianti fotovoltaici, mini- idroelettrici, eolici attraverso forme di azionariato popolare.

Legare queste esperienze di pratica dell’alternativa energetica alle lotte contro il biocidio provocato dal sistema energetico dominante è allora strategico, al fine di intervenire nella crisi energetica ed aprire inedite vie d’uscita, che si pongano come alternativa alle diverse facce assunte dalla predominante spinta alla conservazione.

Postilla: il referendum del 17 aprile 2016 nella transizione energetica

Il referendum del 17 aprile – al di là del perimetro ristretto del quesito sul quale siamo chiamati ad esprimerci – rappresenta un voto sulla transizione energetica. Quel giorno siamo chiamati a fare una scelta di campo: con il mondo ormai decadente delle fossili, o per una alternativa energetica ancora in gran parte da scrivere, ma sulla quale i cittadini, le eco-imprese, le comunità locali, i movimenti sociali possono realmente incidere nella sua definizione. E sarà anche l’occasione per chiedere con forza l’attuazione degli impegni presi durante la Conferenza di Parigi, COP21. Arturo Lorenzoni, economista dell’energia dello IEFE – Bocconi, coglie questa macroscopica contraddizione “applaudiamo al timido accordo raggiunto a Parigi alla Cop21, auspicando un’azione efficace per decarbonizzare l’economia, oppure ignoriamo i vincoli climatici e continuiamo a guardare all’economia attuale, preservandone equilibri e traiettorie tecnologiche? Le due cose non sono conciliabili, per quanto il nostro governo provi a difendere la sua posizione altalenante”.

Allo stesso modo, Giovanna Ricoveri, nell’ultimo editoriale della rivista Ecologia Politica, ci ricorda come il referendum rappresenta una occasione per invertire la politica ambientale del governo italiano, che da una parte sottoscrive l’impegno preso alla Conferenza di Parigi per contenere la febbre della Terra e dall’altra non solo incentiva le fonti energetiche fossili a discapito delle rinnovabili, ma invita i cittadini a non andare a votare affinché il referendum fallisca.

La vittoria del SI al referendum del 17 aprile prossimo sarà un ulteriore tassello per orientare la transizione energetica verso un modello democratico e giusto, che guarda al futuro e al lavoro, come avrebbe detto un grande profeta liberale e socialista del nostro paese, Aldo Capitini, un voto per l’omnicrazia (energetica).

Condividi

Il nuovo paradigma: trasformare l’economia per vivere nel tempo dei limiti

a cura di Gianni Silvestrini

Il capitalismo ha avuto come sua ragion d’essere l’aumento continuo della crescita dell’economia. Anche il socialismo russo e quello cinese, all’insegna rispettivamente degli slogan “elettrificazione più soviet” e “non importa di che colore sia il gatto purché catturi il topo”, hanno perseguito una logica di aumento del Pil, scandita dagli obiettivi dei piani quinquennali.

Il nuovo paradigma: trasformare l’economia per vivere nel tempo dei limiti

Ma il ventunesimo secolo porta con sé problemi nuovi, che esigono risposte differenti. La popolazione raggiungerà il suo massimo, alcune risorse come cibo, acqua, petrolio, diversi minerali, diventeranno sempre più difficili da ottenere. Ma, soprattutto, l’uomo dovrà fare i conti per la prima volta con un limite autoimposto, la necessità di contenere la produzione di gas climalteranti.

Se la storia passata ha visto la rovina di intere popolazioni di fronte a limiti mal gestiti (i Maya, i Vichinghi, gli abitanti dell’Isola di Pasqua, ecc.) (Diamond Jared, “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere”, Einaudi 2005) nella storia recente molte difficoltà sono state superate grazie ad innovazioni sempre più sorprendenti ed efficaci. E c’è da aspettarsi che nei prossimi decenni le straordinarie potenzialità come descritte nel libro “2 °C“, dalla rivoluzione digitale a quella dell’uso delle risorse, contribuiranno ad affrontare le varie criticità. Salvo una, la concentrazione di gas climalteranti in atmosfera, che richiederà un approccio radicalmente nuovo.

Questo vincolo, che non era stato esplicitamente considerato nei “Limiti dello sviluppo” del 1972 (Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, JorgenRanders, William W. Behrens III (1972), The Limits to Growth. New York, Universe Books. Traduzione italiana: I limiti dello sviluppo, Milano, Mondadori, 1972), avrà un effetto profondo sulle economie. Nel corso dei secoli, a parte i casi citati di scomparsa di intere civiltà, il raggiungimento di un limite (risorse idriche, boschive, prodotti agricoli …) ha determinato lo spostamento delle popolazioni alla ricerca di habitat più consoni, magari strappandoli a chi già vi abitava, o ha stimolato innovazioni in grado di superare le difficoltà.

Gli equilibri climatici, per la prima volta nella storia dell’uomo, obbligheranno ad unaprofonda riconversione delle economie perché non possiamo pensare realisticamente di spostarci su un altro pianeta. Fortunatamente, come si è detto, siamo entrati in una fase di evoluzione tecnologica di tale portata da lasciare intravvedere la possibilità di una transizione virtuosa, naturalmente con caratteristiche molto differenziate nei vari paesi.

Certo il rallentamento della crescita esponenziale delle emissioni climalteranti, registrata negli ultimi decenni, e la successiva spinta ad una loro forte riduzione rappresentano una sfida di dimensioni colossali, difficile da vincere se la rivoluzione digitale non sarà accompagnata da altre decisive trasformazioni.

Pensiamo alle dinamiche che s’innescano in un’economia di guerra. Cambiano i modelli comportamentali, aumentano i vincoli di solidarietà, s’impongono nuove regole. Analogamente, la consapevolezza dell’esistenza di un limite insuperabile, quello sulle emissioni, potrebbe indurre mutamenti profondi nel funzionamento delle società. Ma la necessità di introiettare il concetto del limite non deve essere intesa in senso “pauperistico”. Per fare un esempio, le giornate senz’auto che hanno visto il coinvolgimento di molte centinaia di città italiane ed europee all’inizio del secolo, hanno fatto riscoprire a milioni di abitanti la bellezza delle città liberate dalle auto.

Un altro elemento determinante sarà l’ampliamento dell’economia informale, di quegli spazi dei “beni comuni collaborativi” citati da Rifkin nel suo ultimo libro (L. Rifkin, “La società a costo marginale zero”, Mondadori, 2014) che, se ben gestiti, potrebbero garantire un maggiore equilibrio sociale. Se l’economia di guerra lo ottiene livellando verso il basso, la consapevolezza interiorizzata del limite può indurre unagestione più condivisa dei beni naturali e avviare cambiamenti comportamentali in grado di garantire un benessere equilibrato.

Alla luce di queste considerazioni, prende forma l’idea di una transizione tecnologica, economica e sociale – che potrebbe implicare anche una revisione dei meccanismi di funzionamento del capitalismo. Più volte infatti si è indagata la possibilità di una gestione diversa delle regole del capitale per tenere conto di vincoli ambientali, come hanno fatto Lovins e Hawken in “Capitalismo Naturale” (AmoryLovins, L. Hunter Lovins, Paul Hawken, Edizioni Ambiente, 2001).

Non è certo un’evoluzione scontata. A fronte della necessità di scelte drastiche nel contenimento delle emissioni, va sempre considerato il rischio che più si ritarderà nella definizione di strategie di riduzione delle emissioni, più severe saranno le misure da mettere in atto, fino all’introduzione di divieti destinati a limitare la libertà dei cittadini. Uno scenario preoccupante che può essere evitato accelerando le trasformazioni già avviate in vari settori dell’economia.

Nello scenario di decarbonizzazione, alcuni grandi poteri sono destinati a perdere la loro forza. Pensiamo alle multinazionali dei fossili, alle aziende elettriche, ma anche ad altri comparti industriali, come quello dell’auto. Il settore manifatturiero dovrà puntare a prodotti con caratteristiche diverse, come la maggior durata, e subirà trasformazioni strutturali, con una tendenza al decentramento delle lavorazioni.

La circolarità dei processi e la razionalità nell’uso di risorse sempre più difficilmente accessibili diventerà il nuovo quadro di riferimento. Questo modello sarà particolarmente utile per i paesi emergenti che potrebbero saltare interi passaggi impattanti e energivori, nella produzione energetica e nella manifattura, che hanno caratterizzato lo sviluppo delle economie industrializzate nel secolo scorso. Una possibilità tutt’altro che scontata, ma che in alcuni casi si sta già realizzando.

Questo articolo è un estratto dal libro di Gianni Silvestrini, “2 °C. Innovazioni radicali per vincere la sfida del clima e trasformare l’economia”, Edizioni Ambiente, febbraio 2015.

www.duegradi.it è il sito dedicato al libro. L’estratto è stato pubblicato con il consenso della casa editrice.

Condividi

Elettricità per tutti? Sì, solo se rinnovabile

dal Blog di Mario Agostinelli

Il 19 maggio il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon, mostrando il proprio cellulare ad Oslo davanti al pubblico, ha chiesto: “Che cosa faremmo senza di loro? Siamo tutti dipendenti dall’elettricità per telefoni, luce, riscaldamento, condizionamento e refrigerazione”, ma ancora ci sono miliardi di persone nel mondo che non hanno il vantaggio della maggior parte di questi servizi energetici. Secondo le stime della Banca Mondiale, circa 1,1 miliardi di persone non hanno accesso all’elettricità, e più di 3 miliardi di persone o bruciano legna, sterco e carbonella nei braceri o si affidano ai combustibili più inquinanti come il cherosene per cucinare o riscaldare le loro case.

Progressi per le rinnovabili_05-18-world-bank-info-grphc

Martin Krause, direttore del Global Energy Policy Team del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) ha affermato che per raggiungere l’accesso universale all’energia sostenibile entro il 2030 occorre eliminare la povertà estrema e la fame e passare rapidamente alle fonti rinnovabili superando la resistenza delle major dei fossili e del nucleare. Per oltre un miliardo senza elettricità è necessario un approccio mirato e decentrato (cioè mini-reti, sistemi domestici solari, impianti micro-idroelettrici) per raggiungere così anche i più poveri, prevalentemente nelle zone rurali.

Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (UNIDO), l’accesso universale alle fonti energetiche rinnovabili può essere raggiunto ad un costo di circa 48 miliardi di dollari all’anno e 960 miliardi di dollari nel corso di un periodo di 20 anni. Tra il 2010 e il 2012, il numero di persone prive di accesso all’elettricità è sceso da 1.200 a 1.100 milioni: un tasso di progresso molto più veloce rispetto al periodo 1990-2010. In totale, 222 milioni di persone hanno avuto accesso all’elettricità in due anni: per la prima volta una quantità superiore all’aumento della popolazione (138 milioni di persone). Questi miglioramenti, sostiene il rapporto, si sono concentrati in Asia meridionale e Africa sub-sahariana, e soprattutto nelle aree urbane disperse (gli slum). Il tasso di elettrificazione globale è aumentato dall’83% nel 2010 all’85%  nel 2012 ed è per la quasi totalità dovuto alle rinnovabili.

Eppure, secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel mondo si spendono 5300 miliardi di dollari l’anno (10 milioni di dollari ogni minuto!) in sussidi ai combustibili fossili: oltre 100 volte la richiesta per l’accesso universale alle fonti rinnovabili. Il calcolo del FMI è fatto non solo sui sussidi diretti dei governi (oltre 500 milioni) per favorire sul mercato carbone, gas e petrolio, ma anche sui danni ambientali da riparare. Questa definizione di “sussidio” è una straordinaria novità, che dice come deve essere percepita la questione climatica anche in termini economici. Il FMI introduce il concetto di sussidi “post-fiscali”: affermando in sostanza che i governi dovrebbero tassare l’energia – combustibili fossili, principalmente – oltre il loro prezzo di mercato, per tenere conto dell’inquinamento atmosferico, del riscaldamento globale, e di altri danni sociali che provocano.

Gli economisti di solito si riferiscono a questi danni sociali come “esternalità”, ma, al di là del dettaglio del calcolo, una istituzione economico-finanziaria di quel peso contraddice le politiche energetiche che ostacolano le rinnovabili. Intanto da noi si predispongono le perforazioni ad Ombrina Mare!

A cura di Mario Agostinelli

Condividi

Corso di formazione “Energia del futuro e sviluppo sostenibile”

Il corso si prefigge di fornire le informazioni di base necessarie per capire e affrontare il tema delle fonti di energia e del suo legame con lo sviluppo e la sostenibilità. Durante il corso verranno descritte le modalità di produzione attuali (principalmente da fonti fossili) e la prospettiva della produzione futura da fonti rinnovabili (acqua, sole, vento, biomasse) sufficienti per rispondere al fabbisogno energetico dell’Umanità se unita ad un uso consapevole basato sul risparmio e l’eliminazione degli sprechi.

Si mostrerà l’importanza sociale, economica, energetica ed anche occupazionale del settore delle fonti rinnovabili e l’alternativa tra “energia di guerra” (nucleare+fossili) ed “energia di pace” (rinnovabili). Si forniranno utili indicazioni sui principali aspetti legali e fiscali che disciplinano il settore energetico. Alcuni esempi di impianti e di esperienze già realizzate oltre all’illustrazione di alcune soluzioni tecnologiche futuribili completeranno il corso.

Organizzazione: Carolina Balladares (Terra Nuestra)
Direttore: Alfonso Navarra (Energia Felice)
Periodo di svolgimento: marzo/aprile 2015
Sede: sala conferenze, via Marsala 8 – Milano
Incontri: n. 4 da 2 ore

Il corso è gratuito ed è necessaria l’iscrizione congiunta alle associazioni “Terra Nuestra” ed “Energia Felice”

PROGRAMMA (in formato PDF)

1° incontro 26 marzo 2015
Ore 18.30 – 20.30
Alfonso Navarra c/o Carmen Gargiulo c/o Maurizio Colleoni

  • Presentazione del corso
  • La sostenibilità dal quartiere all’edificio
  • Costo del riscaldamento e isolamento termico
  • Pompe di calore e pannelli termico solari
  • Risparmio energetico nel quadro normativo nazionale

2° incontro 2 aprile 2015
Ore 18.30 – 20.30
Giuseppe Farinella c/o Rinaldo Zorzi

  • La produzione di energia elettrica in Italia e nel mondo
  • Nozioni generali sulla tecnologia fotovoltaica ed eolica
  • Riferimenti legislativi e incentivazione delle fonti rinnovabili
  • Tecnologie per la misura e il risparmio dell’energia in ambito domestico

3° incontro 9 aprile 2015
Ore 18.30 – 20.30
Roberto Meregalli c/o Fabio Strazzeri

  • La fabbrica del cibo: quanta energia, quanto inquinamento e quante emissioni climalteranti produce il sistema agroalimentare
  • Come si legge la bolletta
  • Contenziosi con i fornitori di energia

4° incontro 16 aprile 2015
Ore 18.30 – 20.30
Mario Agostinelli c/o Alfonso Navarra

  • Concetto generale di energia: energia e vita, energia e sviluppo
  • Energie rinnovabili e salvaguardia del pianeta
  • Energia nel futuro: rinnovabili, fissione, fusione
  • Piano energetico nazionale
  • Conclusioni

 

Supporti didattici:

  • Testo: “Cercare il sole dopo Fukushima” Aut. Mario Agostinelli, Roberto Meregalli, Pierattilio Tronconi;
  • Testo: “CIBO NON CIBO” Aut. Roberto Meregalli;
  • Testo: “Esigete! Il disarmo nucleare totale” Aut. Stéphane HESSEL e Albert Jacquard;
  • book: “ABB quaderno 10: Impianti fotovoltaici“ Ed. ABB;
  • book: “L’energia fotovoltaica op.22” Ed. ENEA;
  • Testo: “Energia per tutti” Manuale ARCI
  • Dispense dei relatori;
  • Slide “Energia Felice”

 

Condividi

Lavoro, precarietà e nuovo schiavismo: quale Europa?

11maggio201411 maggio 2014, ore 16.00
Nova Milanese (Monza) – Auditorium Comunale – Piazza Gio.I.A. – via Giussani

Gianni Rinaldini, Scenari e prospettive del lavoro in Italia

Argiris Panagopoulos, La distruzione del lavoro in Grecia

Daniela Padoan, Il razzismo contro i poveri e la nuova schiavitù

Stefano Sarti, Ambiente e lavoro – oltre la contraddizione

Pino Viola, Precariato in Italia

Guido Viale, Lavoro e riconversione ecologica

Mario Agostinelli, Scenari per l’Europa

Condividi