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Sole o petrolio per produrre il cibo?

Relazione di Mario Agostinelli al seminario “Cibo e sostenibilità ambientale”, Milano – 6 novembre 2010

1. I CONFLITTI

Oggi c’è un conflitto molto acuto per la destinazione ad usi energetici di Terra, Acqua e Foreste. Si trascura abitualmente l’implicazione energetica della produzione di cibo, in particolare quello legato all’allevamento. Non esiste al riguardo “narrazione” adeguata. Ad esempio, l’abbattimento di foreste per produrre energia, ha l’effetto di rilasciare in atmosfera carbonio che altrimenti sarebbe sequestrato, in modo non molto diverso da quello che si ha con l’estrazione e la combustione di combustibili fossili. Le bioenergie possono ridurre l’anidride carbonica atmosferica, se le piante e il suolo riescono ad assorbire più anidride carbonica di quella che avrebbero assorbito senza le bioenergie stesse. In alternativa, le bioenergie possono essere prodotti con residui vegetali, che si sarebbero altrimenti decomposti, rilasciando carbonio in atmosfera. Che il suolo e le piante sequestrino carbonio supplementare per compensare le emissioni della combustione di biomassa, dipende dal tasso di crescita delle piante e dell’assorbimento del carbonio nella biomassa e nel suolo. D’altra parte, l’abbattimento di foreste per produrre energia, sia per bruciare il legno direttamente nelle centrali o per sostituire la foreste con colture bioenergetiche, ha l’effetto di rilasciare in atmosfera carbonio che altrimenti sarebbe sequestrato, in modo non molto diverso da quello che si ha con l’estrazione e la combustione di combustibili fossili. Questo crea un debito di carbonio, può ridurre l’assorbimento di carbonio da parte della foresta, e possono quindi aumentare le emissioni nette di gas serra per un lungo periodo di tempo prolungato, incompatibile con gli obiettivi di riduzione indicati per i prossimi decenni. La lezione è che ogni legge o regolamento volto a ridurre le emissioni di gas serra, deve includere una differenziazione delle emissioni da bioenergia in base all’origine della biomassa.

2. LA RIVOLTA DEL CIBO

La crisi alimentare del 2007-2008 ha rimesso cibo e agricoltura al centro della scena. La fiammata dei prezzi che la caratterizzò è stata analizzata come evento congiunturale, ma oggi appare come debolezza del sistema di governance globale che non contrasta le previsioni di prezzi elevati per i generi alimentari nel prossimo decennio e di contemporanea compressione dei redditi dei produttori agricoli.

Le distorsioni della filiera, caratterizzata da una crescente concentrazione, il dirottamento della risorsa alimentare verso tuttora crescenti utilizzi energetici e verso una ipertrofica zootecnia industriale, così come i fenomeni speculativi che agiscono a livello finanziario e tramite l’accaparramento di derrate nei periodi di scalata dei listini, contribuiscono a dare un carattere strutturale alla fragilità del sistema agroalimentare. L’offerta –mercantile- di sementi di varietà migliorate, non escluse quelle transgeniche, di pesticidi e fertilizzanti assumerebbe così un carattere umanitario per garantire messi crescenti a un’umanità sempre afflitta da problemi demografici. Vetrina per questa retorica è l’Africa. L’assunto è che se nel 2050 saremo più di 9 miliardi avremo bisogno di molto più cibo che solo una modernizzazione complessiva dell’apparato produttivo può garantire. Vittime predestinate di questo approccio sono i produttori di cibo, per definizione pre-moderni, e il contributo che il lavoro e il presidio sul territorio rurale offrono, rimpiazzati da tecnologie, capitali ed energia fossile.

L’interconnessione delle molteplici crisi che emergono in questi anni –ambientale, climatica, economica, sociale, occupazionale, oltre che alimentare- rendono piuttosto evidente come una produzione di piccola scala, diffusa, inclusiva, ecologica presenti soluzioni e ammortizzatori per molte di tali tensioni. Un miliardo e trecento milioni di produttori di cibo non possono più essere visti come bacino di manodopera di sostituzione per l’industria (tra l’altro ormai impossibile da assorbire) o retaggio di un passato, ma come la componente chiave di un rilancio dell’attività agropastorale capace di leggere e curare il caos climatico, di gestire e valorizzare le risorse naturali, di alimentare i mercati interni accorciando e ricontestualizzando anche culturalmente le dinamiche di consumo alimentare

3. IL CONSUMO ENEGETICO

Le componenti dell’agricoltura industriale moderna più energivore sono la produzione di concimi chimici azotati, le macchine agricole e l’irrigazione artificiale con pompe a motore. Rappresentano più del 90% di tutta l’energia consumata direttamente o indirettamente dall’agricoltura e ne costituiscono gli elementi essenziali. Le emissioni di anidride carbonica provenienti dall’uso di combustibili fossili per fini agricoli in Inghilterra e in Germania toccano rispettivamente 46 e 53 chilogrammi l’ettaro, mentre sono solo 7 chili, cioè sette volte di meno nei sistemi agricoli non meccanizzati.

La produzione di cereali e legumi con l’agricoltura moderna richiede da 6 a 10 volte più energia che coi metodi agricoli durevoli. Si può ribattere che adottare fonti di energia rinnovabili, come l’eolica e il solare, le onde del mare e le pile a combustibile permetterebbe di evitare il consumo di energia per proteggere il nostro clima. Dobbiamo sviluppare un sistema agricolo che non provochi danni al clima e anzi sia in grado di contribuire a ricostruire la fertilità del suolo. Coloro che sono impregnati dall’ideologia del progresso si sorprenderanno nel sapere che un sistema del genere è molto simile a quelli praticati una volta dai nostri lontani antenati e ancora in atto nelle zone più isolate del terzo mondo, che sono riuscite a restare, in certa misura almeno, fuori dall’orbita del sistema industriale.

I piccoli agricoltori sono degli ammirevoli amministratori delle loro risorse di terra, capitale, fertilizzanti ed acqua. Che piaccia o no, l’agricoltura industriale moderna è destinata a scomparire. Si dimostra sempre meno efficiente. Infatti, i concimi chimici hanno rendimenti decrescenti. Nel 1999 la produzione mondiale di grano è diminuita per il secondo anno di seguito, scendendo a 589 milioni di tonnellate, cioè il 2% in meno rispetto al 1998. Un’altra ragione per la quale l’agricoltura industriale è destinata a sparire, anche senza cambiamento climatico, è la sua vulnerabilità agli aumenti del prezzo del petrolio L’agricoltura senza petrolio, anche quella tradizionale, è la soluzione ai problemi della fame.

4. CIBO E ENERGIA

Ambiente ed economia, del resto, sono legati dalla quantità di risorse che la terra mette a disposizione di ciascun essere vivente, anche se la fame nel mondo non è solo una questione di quantità di risorse, ma di distribuzione. Scrive Rifkin: “milioni di occidentali consumano hamburger e bistecche in quantità incalcolabili, ignari dell’effetto delle loro abitudini sulla biosfera e sulla sopravvivenza della vita nel pianeta. Ogni chilo di carne è prodotto a spese di una foresta bruciata, di un territorio eroso, di un campo isterilito, di un fiume disseccato, di milioni di tonnellate di anidride carbonica e metano rilasciate nell’atmosfera”. La produzione di carne è responsabile da sola del 18% delle emissioni globali di gas.

5. ALLEVAMENTI

Sappiamo tutti quanto il fumo passivo delle sigarette sia dannoso per la salute, ma per quanto concerne l’impatto ambientale del fumo emesso durante la cottura della carne nei fast-food fino ad oggi non si sapeva ancora molto. Deborah Gross ha lavorato sulla misurazione e sulla comparazione delle particelle solide e liquide emesse durante la cottura dei cibi più diversi con apparecchi commerciali quali forni, piastre e girarrosto. Nel corso di queste prove e della messa a confronto dei vari apparecchi per cuocere la carne ed i cibi, gli studiosi hanno scoperto che i cibi grassi cotti ad alte temperature – in particolare quelli cotti direttamente sulla fiamma – sono quelli che producono il più alto livello di emissioni. Queste pietanze sono tra i più grandi autori di reati ai danni dell’ambiente, ed includono i consumatissimi hamburger ed il pollo fritto: ogni 1,000 libbre di hamburger cotti si producono ben 25 chili di emissioni. Ogni hamburger equivale a 6 metri quadrati di alberi abbattuti e a 75 chili di gas responsabili dell’effetto serra. Ma pensa anche alle tonnellate di grano e soia usate per dar da mangiare alla tua bistecca. E non dimenticare che 840 milioni di persone nel mondo hanno fame e 9 milioni ne hanno tanta da morirne. Il 70% di cereali, soia e semi prodotti ogni anno negli Usa serve a sfamare animali. Non uomini. Mangiare meno carne o, perché no, non mangiarne affatto, non è più solo un segno di rispetto per gli animali. Ogni volta che addentiamo un hamburger si perdono venti o trenta specie vegetali, una dozzina di specie di uccelli, mammiferi e rettili. Dal 1960 a oggi, oltre un quarto delle foreste del Centro-America è stato abbattuto per far posto a pascoli; in Costa Rica i latifondisti hanno abbattuto l’80% della foresta tropicale e in Brasile c’è voluto l’omicidio di Chico Mendes per sollevare attenzione al problema. In Amazzonia la foresta pluviale è stata fagocitata da 15 milioni di ettari di pascolo. Quasi la metà dell’acqua dolce consumata negli States è destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame. È stato calcolato che un chilo di manzo ‘beve’ 3.200 litri d’acqua. Ogni anno gli animali da allevamento consumano 5 mila tonnellate di antibiotici di cui 1.500 per favorirne la crescita. E tutti vanno a finire nelle falde acquifere

Nel bacino del Po ogni anno vengono riversate 190 mila tonnellate di deiezioni animali. Contengono metalli pesanti, antibiotici e ormoni. Un allevamento medio produce 200 tonnellate di sterco al giorno e i bovini sono responsabili dell’effetto serra tanto quanto il traffico veicolare del mondo intero.

È la stessa FAO a fornire un elenco agghiacciante dei problemi causati dagli allevamenti intensivi: riduzione della biodiversità, erosione del terreno, effetto serra, contaminazione delle acque e dei terreni, piogge acide a causa delle emissioni di ammoniaca. Solo un centesimo dell’energia immessa nella carne cotta arriva al nostro organismo: il 99% viene dissipata. Il bestiame è dunque una fonte di alimentazione altamente idrovora ed energivora, una massa bovina che ingurgita tonnellate di acqua ed energia. E lo fa per nutrire solo il 20% della popolazione globale del pianeta.

La domanda di carne sta comunque crescendo. Paesi come la Cina stanno abbandonando riso e soia a favore di abitudini occidentali. Il manzo globale sta diventando una realtà. Si chiama rivoluzione zootecnica: significa spostare nel Sud del mondo la produzione di carne.

6. A KM ZERO

La maggioranza dei cittadini europei è sensibile alla questione ambientale ed è preoccupata per il possibile impatto negativo sull’ecosistema dei prodotti acquistati. Secondo una recente indagine di Eurobarometro, infatti, il 63% degli europei pensa che il cambiamento del clima dovuto all’inquinamento sia un problema estremamente serio. Anche in fatto di cibo l’inquietudine sulle sorti del pianeta si fa sentire sempre più: da qui, per esempio, nasce la moda degli acquisti di prodotti del territorio, cosiddetti “a chilomentro zero”. Meno chilomentri si percorrono per il trasporto, meno si inquina. Vero, ma questo aspetto incide in minima parte sulla capacità inquinante della produzione di un alimento: circa il 10%. La maggior parte delle emissioni di CO2 sono dovute all’uso di fertilizzanti, di gasolio per il funzionamento delle macchine agricole, di energia per gli stabilimenti e così via. Il tema è complesso e non basta ridurlo ad un semplice slogan. Per dare ai consumatori gli strumenti per attuare scelte veramente ecologiche servono serie campagne di informazione. La Coldiretti stima che consumando prodotti locali e di stagione e facendo attenzione agli imballaggi, una famiglia può risparmiare fino a 1000 chili di anidride carbonica (CO2) l’anno poiché, ad esempio, per trasportare con l’aereo a Roma un chilo di mele dal Cile per una distanza di 13mila km si liberano 18,3 kg di CO2 e si consumano 5,8 chili di petrolio, mentre per un kg di kiwi dalla Nuova Zelanda nel viaggio di 18mila chilometri si emettono 24,7 kg di CO2 e si perdono 7,9 chili di petrolio e, infine, per gli arrivi di ogni kg di limoni dall’Argentina si producono 16,2 kg di CO2 e si consumano 5,4 chili di petrolio. Favorire nelle città italiane l’apertura di mercati gestiti direttamente dagli imprenditori agricoli delle campagne, i cosiddetti Farmers Market, risponde alla crescente domanda dei consumatori di combattere la moltiplicazione dei prezzi, di assicurarsi prodotti di qualità e di limitare l’inquinamento ambientale.

7. PROGETTO MILLE ORTI IN AFRICA

Perché 1000 orti in Africa?

È il progetto ideale per riuscire a ragionare su grandi numeri: mille orti in più di 20 paesi è un campione sufficiente per poter fare un lavoro di analisi e confronto e, quindi, una proposta sull’agricoltura locale in Africa, che sia supportata da dati e da esperienze concrete.

L’orto è il progetto più adatto perché:

• ha tempi di realizzazione relativamente rapidi (in un anno si vedono già i primi risultati, mentre il percorso di un Presidio, ad esempio, è più complesso e lento)

• ha un basso livello di conflittualità, perché non c’è competizione fra i vari soggetti

• è un’esperienza comunitaria, che spesso riunisce generazioni diverse e contesti sociali diversi (insegnanti,studenti e contadini, ad esempio)

• permette di lavorare sul recupero e la promozione del germoplasma locale

• permette di sperimentare forme di agricoltura sostenibili

• permette di lavorare sul tema della diversificazione colturale (proponendo orti che mettano insieme ortaggi, frutta, erbe aromatiche e medicinali, tintorie)

• permette di lavorare sul tema dell’equilibrio fra sovranità alimentare e mercato

• permette di lavorare sulla produzione di trasformati di qualità (nelle stagioni in cui ci saranno prodotti in eccedenza)

• permette di lavorare sul tema della diversificazione dei mercati (prodotti diversi e packaging diversi per diverse tipologie di mercato)

• permette di sperimentare tecniche di formazione e modelli di comunicazione adatti al contesto africano (fumetti, radio, teatro…)

In Africa, gli orti possono rappresentare un’interessante fonte di cibo sano e a portata di mano e un integrazione di reddito per le comunità locali. Partendo a tale presupposto gli orti di Terra Madre hanno l’ obiettivo di soffermersi su concetti quali la conoscenza e l’ utilizzo dei prodotti locali e della biodiversità, il rispetto dell’ambiente, l’uso sostenibile del suolo e dell’acqua, la salvaguardia delle ricette tradizionali.

Milano 6 novembre 2010, Mario Agostinelli

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Meno 90% di emissioni entro il 2030

Un percorso da imitare in Italia: l’esercizio inglese del “meno 90% di emissioni entro il 2030”

Nel libro Heat (pubblicato nel 2007 da Penguin) il giornalista e ambientalista inglese George Monbiot conduce un interessante esercizio rispetto alla situazione delle emissioni di gas serra – e dunque del modello energetico – del suo paese: verificare se in ogni settore si possano ridurre del 90% entro il 2030 le emissioni di gas serra allo stato attuale delle tecnologie e senza contare sulle compensazioni e sul commercio di carbonio (un facile meccanismo di indulgenze). Perché meno 90% entro il 2030, se tutti parlano di percentuali di riduzione molto minori? (La richiesta di riduzione più elevata ai paesi Ocse (ricchi), che rientrano nell’Annex I del Protocollo di Kyoto è quella della Bolivia: chiede ai ricchi una riduzione del 50% entro il 2020).

Il ragionamento di Monbiot, basato su stime di istituti di ricerca come il Potsdam, è questo: i due gradi di aumento della temperatura terrestre, soglia vista come senza ritorno (e già piuttosto alta per molti) potrebbero essere raggiunti già nel 2030 a meno di drastici tagli. Intanto, nel 2030 la capacità totale di assorbimento di carbonio da parte della biosfera sarà ridotta dai 4 miliardi di tonnellate all’anno a 2,7 miliardi di tonnellate (secondo il Met Office). Per mantenere dunque l’equilibrio a quel punto, senza aggiungere altri gas serra ogni anno, la popolazione mondiale non dovrebbe emettere più di 2,7 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno. Il mondo è intorno a 7 (ndr: ma solo per quanto riguarda le emissioni da combustione di fossili. Per l’Ipcc (RAPPORTO 2007)  le proporzioni delle emissioni totali di gas serra sono: emissioni totali annuali 49 mld tCO2eq/anno, emissioni fossili di CO2: 27.7 mld ton/anno; da deforestazione:  8.5 mld tCO2eq/anno; di metano: 7 mld tCO2eq/anno; di N2O: 3.9 mld tCO2eq/anno; altra CO2: 1.3 mld tCO2/anno; F-gas: 0.5 mld tCO2/anno).

Quindi la riduzione delle emissioni dovrebbe essere pari al 60%. Ma poi, nel 2030 la popolazione mondiale sarà di 8,2 miliardi di persone. Dividendo il pozzo di carbonio totale, 2,7 miliardi, per il numero di terrestri, si trova che per raggiungere una stabilizzazione nelle emissioni (già non di per sé sufficiente…) il peso delle emissioni pro capite (siamo tutti uguali come esseri viventi o qualcuno ritiene che una parte degli umani – per esempio noi – abbia più diritti di emissione?) non dovrebbe superare le 0,33 tonnellate di carbonio all’anno. Si noti che per tradurre il carbonio in anidride carbonica, occorre moltiplicare per 3,667: quindi le emissioni pro capite massime accettabili sarebbero intorno alle 1,2 tonnellate all’anno. Nei paesi ricchi, anche in Italia, questo significa appunto una riduzione del 90%, più o meno. Allora Monbiot percorre, settore per settore, la vita produttiva e di consumo del suo paese: dall’elettricità (che fa funzionare anche l’industria) ai trasporti, dal riscaldamento alla grande distribuzione, e cerca passo passo di verificare se con soluzioni strutturali come il risparmio energetico e il passaggio alle energie rinnovabili, e anche con cambiamenti negli stili di vita, questa riduzione si possa verificare. La risposta è sì. Tranne che per un singolo settore al quale riserva un intero capitolo anche per il loro crescente peso per il clima: gli aerei. Il settore non è riformabile, occorrerà soltanto tagliare e molto (sta succedendo il contrario, una minoranza dei terrestri vola forsennatamente). Monbiot non si occupa, salvo per la parte commercio, un settore importante: l’agricoltura e l’alimentazione. Nondimeno, il suo esercizio sarebbe da imitare per l’Italia…

A cura di Marina Correggia

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Centrali nucleari in Lombardia? Reazioni

Il neoministro allo Sviluppo Romani giudica molto probabile la costruzione in Lombardia di “almeno” una delle centrali nucleari previste. Riferisce poi che per convincere le popolazioni ad accettare l’atomo in casa si farà ricorso al “metodo francese”: offrire incentivi ai Comuni che si candidano ad ospitare gli impianti.

La road map del nucleare prosegue, sia pure con qualche ritardo: Umberto Veronesi viene nominato a presidente dell’Agenzia per la Sicurezza Nucleare; la Sogin ha una nuova dirigenza (Giancarlo Aragona è il  presidente e Giuseppe Nucci l’amministratore delegato), dopo il commissariamento, durato oltre un anno. La Sogin è la società (100% di proprietà del Tesoro) che nel piano nucleare del governo dovrà occuparsi del Parco Tecnologico, compreso il deposito delle scorie radioattive. Il suo lavoro l’avrebbe già condotta all’individuazione di 52 aree adatte. Una lista finita nel cassetto, in attesa dei criteri che dovrà fissare l’Agenzia Nucleare. La localizzazione delle centrali avverrà dopo i criteri individuati dall’ASN e relativa lista dei siti adatti; dovranno comunque intervenire le Regioni con un loro parere e le “cordate” (Enel-EDF per gli EPR e forse anche E.ON- Gas De Suez per gli AP1000).

In Lombardia un sito radioattivizzabile è fra Cremona e Mantova, ovviamente sul Po. E’ verosimile però che, prima di indicare i siti, la lobby atomica aspetti che si vada a votare sul referendum di Di Pietro (verso giugno 2011). Una iniziativa che reputo un errore tattico. Berlusconi & C. canteranno vittoria dopo il praticamente certo non raggiungimento del quorum. Il referendum in questione potrà essere rinviato di un anno solo da probabili elezioni anticipate il marzo dell’anno prossimo…

La mia posizione è mettere le mani avanti rispetto al risultato chiamandolo “sondaggio”: in Italia il deficit democratico e il monopolio televisivo Mediarai ha abolito di fatto questo istituto di democrazia diretta. Dobbiamo insomma denunciare che partecipiamo ad un gioco truccato…

Un altro punto su cui invito alla riflessione gli attivisti, già convinti della assulta illogicità dei piani atomici, è perchè l’Italia si attacca al carro nucleare francese. La Francia, che è il Paese più nuclearizzato del mondo, ha evidenti interessi ad ammortizzare i suoi pesanti investimenti nucleari che hanno come scopo principale l’arsenale atomico finalizzato alla “Grandeur”. Deve quindi oggi piazzare gli EPR in giro per il mondo.

Per rispondere alla domanda da me proposta, avanzo due ipotesi complementari:
1- Roma ha bisogno che in Europa si chiudano gli occhi rispetto alla voragine del debito pubblico italiano (rischiamo – non è uno scherzo – l’esclusione dall’euro);
2- l’ENEL cerca una occasione di business che ripiani in parte i suoi debiti stratosferici  (Pantalone, cioè il contribuente, deve subire un ulteriore salasso per mantenere a galla le società della “razza padrona” ex di Stato).

Per quanto riguarda più specificamente il primo elemento, faccio notare che, a livello UE, anche se Santoro non lo sa, si sta discutento la riforma del patto di stabilità, vale a dire una nuova versione dei “parametri di Maastricht”.  L’Italia partecipa al tavolo con una richiesta precisa: “Vanno presi in considerazione anche livello e variazione del debito privato”. Leggo su Il Sole 24 Ore di ieri: “Parigi (come Roma) non solo rifiuta gli automatismi sanzionatori e rigide gabbie numeriche per smantellare gli squilibri nei conti pubblici ma insiste perché sia l’istanza politica – non quella tecnica, ndr – cioé il Consiglio, a prendere le decisioni”. Il fatto che si sia creato un asse franco-italiano contro la Germania su questa vicenda decisiva (da cui dipende la quantità di tutti i tagli nella spesa pubblica, sembra 40 miliardi di euro annui per l’Italia, a prescindere dal colore della maggioranza che governa), a mio modesto parere, ha qualcosa a che vedere con il “favore” che stiamo facendo a Sarkozy acquistando i reattori nucleari francesi…

Oggi, sempre su Il Sole 24 Ore, apprendiamo che al Lussemburgo è stato siglato un accordo politico quadro sulla riforma del patto di stabilità, che Tremonti giudica “molto buono”. “I ministri finanziari dell’Eurogruppo ieri hanno negoziato per ben 13 ore ininterrotte mediando tra gli opposti estremismi del partito tedesco (sostenuto da nordici, Repubblica Ceca e Slovacchia) deciso a imporre una rigidissima camicia di forza ai renitenti a un eccesso di disciplina. E del partito mediterraneo, guidato da Francia e Italia (appoggiato da Belgio, Spagna, Portogallo e Grecia), altrettanto deciso a respingere il modello del rigore inflessibile e tutto matematico”. Tutta questa complessa partita dovrebbe chiudersi nel 2013 con l’approvazione di emendamenti ai Trattati UE.

Nei piani per il rilancio del nucleare in Italia questa volta, diversamente che nel passato, vedo oggi, a conti fatti, una motivazione economica prevalente rispetto alle esigenze geopolitiche (anche se l’economia va interpretata non solo come produzione di profitto, ma più complessamente, come fattore di potenza). Riporto, infine, la notizia delle dichiarazioni di Romani come l’ha data “Repubblica”. La “Green Economy” è un treno che il nucleare rischia di farci perdere, ma come “Energia Felice” indicherei piuttosto un obiettivo di “Buenvivir”, che prenda atto in modo radicale dell’insostenibilità politica e sociale dell’attuale modello di crescita.

Senza tema di apparire “catastrofista”, credo infatti che occorra dire al popolo la verità “rivoluzionaria”: se non invertiamo la rotta è a rischio la sopravvivenza della nostra specie sul Pianeta…

Ricordo, per discutere ed approfondire anche queste considerazioni, la giornata di formazione per il Comitato Energia Felice prevista per il giorno mercoledi 27 ottobre presso la sala del Consiglio Regionale della Lombardia (via Fabio Filzi, 29 – 20124 Milano).

Alfonso Navarra, obiettore alle spese militari e nucleari, Coordinamento Energia Felice

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LEGAMBIENTE

Il Ministro Paolo Romani e una o due centrali nucleari in Lombardia? Un “distretto nucleare” nel nord milanese?

Penso che mentre tutta Europa scatena la gara a vantaggio dell’efficienza energetica e delle rinnovabile, con lo scopo di sostituire progressivamente tutte le centrali a petrolio e nucleare, Berlusconi sia rimasto legato ai miti del secolo scorso.

Mentre si promettono qualche migliaia di posti di lavoro (2 mila per ogni centrale nucleare in costruzione) si dimentica che le rinnovabili occupano oggi in Italia 80.000 professionisti, tecnici e operai. 20 mila di questi nella sola Regione Lombardia.

Il nucleare ci fa perdere la corsa nella green economy!

Andrea Poggio, vicedirettore generale Legambiente onlus

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Intervento di Serge Latouche a Parma. Decrescita: una soluzione alla crisi

Buongiorno a tutti e tutte.
Dopo il 16 settembre 2008 e la caduta della Lehman Brothers, è più difficile dire che c’è una buona notizia nel mondo. Quella cui abbiamo assistito, era solo la prima fase della crisi e subito dopo è arrivata una seconda fase perché la governance mondiale non è stata cambiata né a livello internazionale né nazionale. Hanno salvato la finanza, hanno speso una somma astronomica (23mila miliardi di dollari) per salvare l’economia. E poi è iniziata la fase dell’austerità. Oggi purtroppo assistiamo alla rivincita, alla rinascita dei banchieri. Una società che vive di crescita la cosa peggiore che possa accadere è non crescita. Ma oggi è la realtà. I governo obbedienti alle ingiunzioni dei mercati finanziari hanno deciso di far pagare ai popoli il salvataggio delle banche. La situazione della Grecia ne è un esempio evidente.

Ci sarà però una terza fase.
E questa è la buona notizia: la crisi non è finita, siamo solo all’inizio. E spero che sarà al fine della società della crescita. Unica possibilità per costruire una società di decrescita severa è una crisi profonda.
Questo programma della destra, l’austerità, fa pesare la minaccia deflazionistica ed è un vicolo cieco del rigore, proposta a Toronto dalla Merkel. Si fonda sulla distruzione del potere di acquisto. Subito dopo abbiamo assistito a una diminuzione totale dei salari mondiali (ad esempio in Grecia, Portogallo, Francia) in un concorso al ribasso. Questa austerità è la cosa più terribile per il mondo.  Si tratta solo di non fare crescita in una società formata per la crescita. Ci saranno sempre meno crediti per la salute, la scuola, i servizi pubblici in generale.
La proposta della sinistra è quella di rilanciare la crescita. Ma questa è la vecchia ricetta keynesiana. Questa terapia non è più sopportabile perché il pianeta non può più accettare questa distruzione. I piccoli passi fatti nel rispetto dell’ambiente si sono dimenticati com’è stato dimostrato a Stoccolma. Questo rilancio è molto illusorio e fallace per l’occupazione. Se ci sarà una ripresa sarà solo speculativa.
C’è ancora una cosa più terribile. La sintesi cui si è optato è questa: rilancio e austerità. Nell’incontro di Toronto i capi di stato si sono messi d’accordo su questo punto di vista.
Per i nostri governi di destra si tratta di rilancio per il capitale e austerità per tutti. Tutto questo, dicono, servirà alla ripresa. Per la sinistra, purtroppo, non sarebbe molto diverso.
Basta osservare quanto è successo in Grecia con un governo di sinistra, dove sono state scelte politiche di austerità tipiche della destra. E la stessa situazione avviene nella Spagna di Zapatero.

Qual è la nostra soluzione per risolvere il problema? Come potremmo uscire dal problema del debito pubblico se ci fosse chiesto di governare un Paese?

Nell’immediato la soluzione sarebbe decretare la bancarotta dello Stato ma questo creerebbe un problema di relazioni con gli altri Paesi e i debitori. Sarebbe meglio decidere una bancarotta parziale e negoziare una riconversione del debito e delle misure condensatrici per i piccoli portatori. Proponiamo un prelievo sui benefici delle banche. Proponiamo di ritornare al diritto di emissione di denaro anche con la prospettiva di provocare un leggero aumento d’inflazione per favorire l’auspicabile eutanasia del sistema.
Per la decrescita il primo obiettivo di transizione dovrebbe essere di restaurare la piena occupazione per rimediare alla penuria di una parte del popolo. Infine, la riduzione drastica del tempo di lavoro: lavorare meno per lavorare tutti e per vivere meglio. Questa è la cosa fondamentale.  Questo programma della decrescita non è politico ma è la concezione politica di una società alternativa. La società della decrescita è una società di “abbondanza frugale”. La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società fondata sulla riduzione della dipendenza dal mercato. Si tratta di riuscire a “re-incastonare” il dominio dell’economia nel sociale e nel politico vero, non quello che conosciamo oggi.

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