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Petrolio, carbone e gas salveranno il lavoro?

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi 2015. Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni fa, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l’incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo. Vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve che, secondo l’Ipcc, non può andare oltre i prossimi 15 anni.

Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni – senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Donald Trump Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali a essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella Laudato Si’ e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma (mi auguro) già capace di segnali al prossimo congresso Cgil. L’accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare la strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (Tav) o lungo un litorale marino (Tap) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all’eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine “giusta transizione”, che non può che basarsi su un’attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5°C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. È d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati a una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone, petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice un’ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione Ue è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all’Ue. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Val di Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

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ECOTASSE, CLIMA, PETROLIO E TRASPORTI

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

Adesso che alla Cop 24 di Katowice tutto è andato come purtroppo si temeva, gli abitanti del pianeta delusi – a partire dagli europei – devono abbandonare quell’apatia nei confronti del cambiamento climatico che permette ai governanti di essere sconsideratamente negazionisti e di accreditare la frottola che le misure ambientali penalizzerebbero l’economia e le fasce meno abbienti. Il governo italiano non fa che accreditare di fatto un’impostazione tanto spudorata: Matteo Salvini e Luigi Di Maio, all’ombra del loro stravagante “contratto” e di baratti rabberciati all’ultimo minuto, sviano continuamente l’attenzione dai problemi reali e dalla possibilità di far crescere una coscienza matura. È quel che sta avvenendo sul nodo della necessaria decarbonizzazione dell’economia, mentre i vicepremier duellano il mattino per rappacificarsi la sera. Come è successo per la Tap, anche sulle ecotasse sembra proibito poter discutere e confrontarsi e i problemi vengono accantonati in cambio di un disorientamento generale, che consente alla Lega di rinforzare gli steccati di un sovranismo tanto impotente quanto discriminatorio.

Senza tener conto che occorre una programmazione politica dal lungo respiro per affrontare la sfida europea e mondiale della decarbonizzazione dei trasporti, con le schermaglie su improvvisati provvedimenti fiscali per l’auto – chiamati “ecotasse” per scandalizzare Fca e allarmare qualche benpensante – si è cercato di far credere che la difesa dell’ambiente sia un lusso che devono pagare i lavoratori e i meno ricchi. Al contrario, le questioni dell’impatto sulla mobilità, sull’occupazione, sul reddito, sulla salute e sul clima del superamento del motore a scoppio (che è la vera ragione per una politica fiscale sulle motorizzazioni) merita ben altra informazione e ben altro dibattito rispetto a quello che ci viene propinato.

In questa prima nota affronto il problema della rivoluzione nel sistema dei trasporti, già in atto, per poi discutere nel prossimo post la questione della carbon tax entro cui collocare la cosiddetta ecotassa, e prendere in considerazione le ricadute sociali a essa collegate.

Che il motore a scoppio – a benzina o gasolio – non faccia bene lo sa chiunque si sia avvicinato a un tubo di scappamento. La sua massiccia diffusione nell’ambiente in cui viviamo produce sia effetti cancerogeni, dovuti principalmente a polveri sottili, sia un contributo all’aumento di temperatura dovuto alle simultanee emissioni di CO2. Dato che la mobilità, anche se porta inconvenienti alla salute, è un diritto cui difficilmente si rinuncia, programmarne il futuro è questione di natura ancor più sociale che puramente economica. Siamo di fronte a sfide inedite su cui vengono giudicati i governi, come è il caso di tutti i Paesi sviluppati e come testimonia la vicenda dei gilet gialli francesi, che ha messo in luce tutti i rischi di un intervento autoritario in materia di tasse, mobilità e tutela ambientale.

Se partiamo da considerazioni su inquinamento e clima, dobbiamo avere presente che il diesel è più pericoloso per i suoi effetti cancerogeni (anche se i veicoli a benzina sono tutt’altro che esenti da conseguenze nefaste), mentre per il clima la maggior perniciosità dei due carburanti si viene a invertire. Tutto sommato, non dà granché risultati rimpiazzare un motore a combustione con l’altro (benzina al diesel), tranne che nel traffico cittadino dove si concentrano le polveri sottili. Affidare sostanzialmente all’abbandono del diesel il superamento della crisi del binomio (auto individuale + petrolio) è ingannevole. A cominciare dal fatto che un barile di petrolio (159 litri) finito in raffineria produce vari composti fra cui, per più di metà, benzina e gasolio per autotrazione, l’una e l’altro destinati al trasporto delle persone e delle merci, con quest’ultime che viaggiano su ruote con motorizzazioni esclusivamente diesel.

Allora è il motore a combustione in generale che manifesta il suo limite, dato che per ogni litro di carburante consumato vengono emessi circa 2,5 chilogrammi di CO2 (media sommaria fra i vari tipi di carburante, Gpl e metano compresi). Non c’è dubbio che il motore a scoppio (compreso quello alimentato a metano) andrà progressivamente sostituito con altre tipologie di motorizzazioni e combustibili che non producano effetti climalteranti.

La riconversione verso l’elettrico dei veicoli su gomma è una soluzione di prospettiva. Considerando l’intero ciclo “dal pozzo alla ruota” (well to wheels), il motore elettrico (alimentato a batteria o rifornito a idrogeno con pile a combustibile) non può che essere il terminale di un sistema diffuso di trasformazione e stoccaggio di vettori (elettricità o idrogeno) prodotti da fonti rinnovabili, per non comportare effetti perniciosi sul clima. Verso la definitiva decarbonizzazione, va incentivato lo sviluppo di tecnologie che migliorino il rendimento dei motori e le loro emissioni, con la combinazione di motore a scoppio e generatore di corrente (veicoli ibridi), riorganizzando le stazioni di servizio con la disposizione di colonnine di ricarica.

Qui un’ultima ma decisiva valutazione: la congestione spaziale, lo spreco e l’accumulo di rifiuti provocata dalle auto a proprietà individuale mette un freno all’entusiasmo per la soluzione enfatizzata dell’auto elettrica a guida automatica: forse l’escamotage più accattivante con cui le case automobilistiche possono rilanciare il mercato sotto la forma di status symbol per benestanti. Il motore elettrico è sì uno sconvolgimento del panorama attuale, ma ci si deve assicurare che eventuali benefici siano condivisi da tutti e che nessuno rimanga indietro. Ma se vogliamo letteralmente sopravvivere avendo cura del pianeta, non possiamo che ridurre il consumo di mobilità su mezzi individuali. Di questo e del regime fiscale con cui accelerare la transizione tratteremo nel prossimo post.

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Cercasi petrolio e gas da bruciare

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Nel suo recente ed esauriente report sul futuro del petrolio e del gas la International Energy Agency (IEA: Oil 2018, analysis and forecasts to 2023) induce a riflessioni tutt’altro che scontate sul raggiungimento del picco delle fonti fossili. Anzi, caparbiamente le grandi corporation e i gruppi finanziari più esposti esplorano ogni possibilità di rilancio. Perfino, come descriverò, le più assurde dal punto di vista climatico ambientale e le più rischiose sul terreno finanziario e delle bolle ad esso associate. Tutto, pur di contrastare il cambio di modello energetico e di trasferire solo sul piano contabile di governi e multinazionali gli effetti di una combustione dichiarata incompatibile ad ogni impotente e quindi riunione delle Cop (ormai, con quella dopo Parigi e Bonn, arrivate al numero 23).

Lo stesso direttore esecutivo della IEA, Fatih Birol, sostiene che dalla Cop 21 ad oggi si deve registrare una differenza notevole dovuta soprattutto all’impressionante ripresa della produzione di petrolio e gas da scisti negli Stati Uniti. L’impatto globale dell’aumento dello shale oil (LTO) comporta un cambiamento fondamentale nella natura dei mercati petroliferi globali.

US LTO scenari

Previsioni di produzione di LTO a seconda della velocità di esaurimento dei pozzi (http://peakoilbarrel.com/the-future-of-us-light-tight-oil-lto/)

La spina nel fianco di questa tecnologia di perforazione consiste nel più rapido esaurimento dei giacimenti (le varie curve indicano diverse velocità di estrazione – in barili al giorno – e quindi diverse previsioni più o meno pessimistiche di svuotamento dei pozzi). Si deve notare che la tecnologia, estremamente dannosa sul piano ambientale, va comunque ad esaurirsi entro la metà del secolo, ma che tutte le curve (tranne la più bassa) sono in crescita fino al 2023 e, quindi, l’inevitabile picco ancora non è raggiunto, consentendo agli Usa di solidificarsi come il principale produttore di petrolio al mondo mentre la Cina e l’India li sostituiscono come principali importatori di petrolio.

Il Fondo Monetario Internazionale vede una crescita economica globale del 3,9% all’anno fino al 2023 e le economie forti utilizzeranno più petrolio con una crescita della domanda a un tasso medio annuo di 1,2 milioni di barili/giorno. Dove sta la decarbonizzazione, parola d’ordine della Cop di Parigi e della Sen di Calenda?

Spesso si trascura che i prodotti petrolchimici sono un fattore chiave per la crescita della domanda di petrolio e che la corsa al riarmo concentra ancora di più il ricorso ad esso. Man mano che le spedizioni canadesi di shale oil e shale gas verso gli Stati Uniti crescono, questo libera il greggio statunitense più leggero per l’esportazione, in particolare per soddisfare la domanda asiatica di materie prime petrolchimiche. Ogni anno il mondo ha bisogno di rimpiazzare l’offerta persa dai campi maturi e questo è l’equivalente di sostituire un Mare del Nord ogni anno. Le scoperte di nuove risorse petrolifere sono scese ad un altro minimo storico nel 2017. Spinta dall’Lto, nel 2023 la produzione degli Stati Uniti crescerà di 3,7 milioni di barili al giorno, più della metà della crescita totale della capacità produttiva globale, di 6.4 mb/d prevista per allora. Gli Stati Uniti sono in una posizione favorevole per aumentare il proprio ruolo nei mercati globali. Per di più con Trump riprende nettamente la capacità e il ruolo della logistica e dei grandi impianti. Questo include importanti progetti canadesi come Trans Mountain e Keystone XL, e il gasdotto EPIC 550 kb/d di TexStar Logistics, che sarà operativo nel 2019 in Texas.

La domanda petrolifera europea, nel frattempo, dovrebbe tornare alla sua tendenza al declino a lungo termine. La maggior parte della crescita verrà dal Gpl e dall’etano. Buoni guadagni si vedranno anche nel consumo di kerosene dato che i viaggi aerei diventano più accessibili nei paesi non Ocse. La crescita della domanda di benzina rallenta nel periodo con standard più rigidi in materia di risparmio di carburante, mentre la crescita del gasolio rallenta in media dello 0,7% all’anno fino al 2023.

Segnalo alcuni temi chiave destinati a essere considerati nei prossimi 12-24 mesi per il settore globale del Gnl (gas naturale liquefatto), che prendono in considerazione prevalentemente i vantaggi di mercato, lasciando ricadere all’esterno sia i danni ambientali, che quelli sociali e i rischi finanziari (le fonti sono elaborate da informazioni della Banca Mondiale.

L’accumulo nell’approvvigionamento di GNL (Gas naturale liquefatto) a livello globale è significativamente ritardato dalla capacità di liquefazione. Ciò è dovuto a numerosi fattori, tra cui ritardi di messa in servizio e interruzioni di fornitura non pianificate, spesso dipendenti da conflitti locali o dall’onerosità delle infrastrutture di trasporto e trasformazione. Nel 2018 è prevista la maggiore crescita in volume di qualsiasi anno passato, superando sostanzialmente la crescita della domanda globale. Tuttavia, dopo il 2019, la ristrutturazione della pipeline dei progetti di liquefazione si esaurirà e la crescita dell’offerta inizierà nuovamente a decadere. Ciò inciderà sul prezzo al mercato e sui rischi di investimento attuali.

L‘Europa punta ad adottare il ruolo del rigassificatore globale. Ciò vale anche per il carbone, il petrolio, o le biomasse, ma fa gola specialmente per l’esportazione di gas americano. La regione è unica nella sua capacità di assorbire l’avanzo globale, grazie ai suoi mercati del gas ampi, integrati e liberalizzati e ai significativi volumi di offerta flessibile. L’Europa deve però adottare il ruolo di consumatore di gas a livello globale: a questo puntano gli Stati Uniti (con l’esportazione di shale gas) e la Russia (con la costruzione di gasdotti). Nella competizione russo-statiuniti- canadese l’UE favorisce le iniziative di immissione in rete gassosa del Gnl da scisto nordamricano ai nodi degli attracchi europei (dalla Lituania, Estonia e Inghilterra per limitare il gas russo, alla Toscana, per favorire la metanizzazione della Sardegna messa sul piatto dal governo italiano). Nasceranno così nuovi problemi per il mercato del gas, dato che il fattore determinante dei flussi complessivi in ​​Europa sarà il prezzo, con i carichi di Gnl in competizione sugli hub dei porti per eliminare le forniture da gasdotti.

Gli Stati Uniti, nel breve periodo e in funzione del surplus di shale gas, sono probabilmente l’unica fonte di offerta di Gnl a livello globale, nonostante i suoi costi di produzione-liquefazione-trasporto-rigassificazione relativamente elevati. L’espansione del gas è quindi fonte di incertezze e di gravi disagi ambientali, oltre che di rischi finanziari notevoli. Ma tant’è: nonostante tutte le Cop organizzate con grande pompa, la decarbonizzazione paradossalmente rilancia il gas, sotto traccia nella percezione dell’opinione pubblica, abbagliata dalla narrazione sulle rinnovabili nei paesi di industrializzazione matura. Perché mai, visto lo scoraggiamento che dovrebbe provenire dagli appuntamenti sul clima? La verità è che le sanzioni finanziarie sui progetti saranno sostenute dall’aumento dei prezzi delle materie prime, dall’attenuazione dei vincoli di capitale sulle principali compagnie petrolifere e del gas, nonché da una forte deflazione dei costi dei servizi a sostegno dell’economia dei progetti di liquefazione. Ancora una volta il modello di sviluppo finisce sulle spalle del pubblico e dei consumatori, con la complicità dei governanti.

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Giù il petrolio, giù le borse, su il carbone

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015L’obiettivo principale della decarbonizzazione dell’economia, così duramente discusso nelle riunioni preparatorie e sottolineato come priorità dall’IPCC, è stato ridotto alla conferenza Cop 21 di Parigi a un vago riferimento. Il picco di emissioni potrebbe raggiungere qualsiasi grandezza, raggiungere il suo massimo in un periodo di tempo indefinito, scendere a zero solo a fine secolo. Non si menziona neanche una volta che i combustibili fossili abbiano termine. Qui è evidente la resistenza delle industrie del settore fossile e dei padroni del petrolio, del gas e del carbone. Secondo un’analisi congiunta dell’Istituto per lo Sviluppo Internazionale e dell’ODI, solo i paesi del G20, le prime 20 economie, canalizzano ogni anno oltre 600 miliardi di dollari di fondi pubblici sotto forma di sussidi alle compagnie dell’energia fossile. In questi sussidi non sono considerati i 1200 miliardi all’anno che gli Emirati Arabi mettono a bilancio per tenere basso il prezzo del petrolio e combattere la loro guerra contro i concorrenti di USA, Iran e Russia, con qualche complicità tollerata con l’esecrato ISIS.

Un notevole gruppo di 32 personalità, guidato da Stiglitz e altri premi Nobel ha chiesto l’introduzione di tasse per le emissioni di carbonio, sia per coprire i costi ambientali e sociali che sono ora trasferiti alla società che per ridurre le emissioni e investire in sistemi energetici senza emissioni di carbonio. Uno straordinario contributo ad affrontare la crisi togliendo soldi e armi alle multinazionali del passato e investendo in occupazione, risanamento del clima, redistribuzione del reddito. Ma di questa misura così necessaria non se ne discute a Davos o nei consessi dei banchieri che, pur di mantenere una rendita finanziaria, agitano lo spread e deprimono i listini delle borse terrorizzando i risparmiatori.

Cosa può succedere se, dopo la conferenza di Parigi, che ha fissato ad 1.5 °C il limite dell’innalzamento della temperatura del pianeta, l’economia e la politica, anziché rivolgersi al sole, al rifiuto dello spreco e all’intelligenza continueranno a ruotare attorno ai prezzi dei combustibili da bruciare nelle caldaie e nei motori? La Banca Mondiale avanza una interessante previsione: i prezzi all’ingrosso dell’energia elettrica in Europa rimarranno depressi e la curva dei prezzi dell’energia elettrica per il futuro nella maggior parte dei mercati manterrà una tendenza al ribasso. Se anche il prezzo del gas scenderà anche a seguito del calo del petrolio, non ci sarà recupero rispetto all’avanzamento delle rinnovabili, che saranno l’unica quota elettrica in crescita a prezzi convenienti. Di fatto, il rapido afflusso di energie rinnovabili, che hanno un costo marginale zero nella generazione e nell’accesso prioritario alla rete, ha rotto (BMI usa proprio la parola “BROKEN”) il business tradizionale dell’energia, mettendo in difficoltà le grandi utilities che, avendo investito in centrali a turbogas, producono in eccesso e sono costrette a tenere in stand by interi impianti, nonostante che il prezzo del gas che viene dai gasdotti dalle navi metaniere sia in discesa. La prospettiva è quella di una ulteriore irreversibile penetrazione economicamente conveniente dell’energia da sole, vento e acqua.

A meno che si rilanci il carbone, che è l’unica fonte in grado di reggere la pressione al ribasso delle fonti a bassa emissione e rimane la carta sporca del sistema energetico centralizzato, messo in discussione a livello innanzitutto ambientale, ma ora a livello anche economico e geopolitico.

Carbon tax e una decarbonizzazione a favore di un sistema energetico decentrato e rinnovabile sono carte ineliminabili per affrontare la crisi e, a lungo termine, per non subire, impotenti, gli shock di borsa. Perché non ce ne parla il cupo ministro Padoan e non prendono decisioni al riguardo i leader europei, che preparano ancora una volta missioni di guerra?

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Cop21: petrolieri e industria militare

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Strano a dirsi, ma l’accordo della cop 21 di Parigi è presto sparito dai radar della stampa. Chi ne parla più? Che c’entrino non poco petrolieri e industria militare? Vediamo un po’.

Una delle conseguenze riconosciute delle attività umane è l’accumulo nell’atmosfera di enormi quantità di gas che destabilizzano l’equilibrio energetico globale e causano un aumento della temperatura globale, superando i 50 Gigaton (miliardi di tonnellate) di CO2 equivalente l’anno, e una concentrazione in atmosfera di 400 parti per milione (ppm) già nel 2015. Le attuali tendenze portano ad un aumento della temperatura media del pianeta tra 3,7 e 4,8 °C entro la fine secolo, rappresentando un’emergenza planetaria senza precedenti nella storia dell’umanità. Per affrontare questa emergenza 180 rappresentanti dei governi di tutto il mondo hanno sottoscritto a Parigi un accordo storico… con qualche trucco di troppo, così da rendere arrendevole all’assalto di petrolieri e militari la soglia concordata di 1,5°C di aumento massimo di temperatura. Facciamo qualche esempio.

Innanzitutto la terminologia tutt’altro che irrilevante in un protocollo. Un team specializzato di avvocati e contrattualisti dei paesi industrializzati ha fatto pressione in sede di estensione dell’accordo perché entrassero clausole conformi a dilazionare i tempi. Parole chiave sono state attentamente selezionate per proteggere interessi settoriali: in particolare Big Oil e interessi militari hanno fatto sentire la loro voce. Così, mentre nel preambolo c’era scritto, fino a due giorni prima della data finale, che il rispetto dei diritti umani, il diritto allo sviluppo e l’equità intergenerazionale “devono” orientare la lotta all’abbattimento delle emissioni, nel documento conclusivo, su insistenza delle delegazioni degli Stati Uniti, dell’Unione europea, del Giappone e del Canada, “devono” si è trasformato in “dovrebbero”, con una componente dichiarativa priva di valore giuridico. Nella stessa stesura finale ci si limita a rilevare, anziché “riconoscere” l’importanza della tutela della biodiversità “riconosciuta da alcune culture” e l’importanza del concetto di giustizia climatica “per alcuni”.

Una volta fissata la soglia di 1,5°C – pur importante sul piano indicativo – non si sono definiti né la strategia né il percorso per garantire quel risultato. Di fatto l’accordo di Parigi si basa su un collage di contributi volontari, determinati da ciascun paese per se stesso, senza il coordinamento tra le parti, senza condizioni o sanzioni per non conformità. Pur riconoscendo che c’è incoerenza tra l’obiettivo auspicato e i contributi volontari presentati, la Conferenza delle Parti ha rilevato con preoccupazione “che i livelli stimati di emissioni aggregate di gas serra nel 2025 e nel 2030 risultante dai contributi previsti stabiliti a livello nazionale non sono coerenti nemmeno con lo scenario 2 °C”.

In ballo ci sono soprattutto le fonti fossili e l’imponente impiego delle armi. L’obiettivo principale della decarbonizzazione dell’economia, così duramente discusso nelle riunioni preparatorie e sottolineato come priorità dall’IPCC, è stato ridotto a un vago riferimento a: “le parti intendono fare in modo che le emissioni raggiungano un picco al più presto possibile” per poi “rapidamente ridurre i gas climalteranti” al fine di “raggiungere un equilibrio tra emissioni antropiche dalle fonti e l’assorbimento dei cosiddetti serbatoi nella seconda metà del secolo” (articolo 4). Di conseguenza, il picco di emissione potrebbe essere di qualsiasi grandezza, con un periodo di tempo indefinito perché si realizzi, mentre la portata del saldo tra emissioni e livelli di temperatura potrebbe essere esteso fino alla fine del secolo.

In ogni caso, l’accordo di Parigi non menziona neanche una volta che i combustibili fossili abbiano termine. Anzi, mentre il paragrafo 7 dell’articolo 6, incluso nel documento del 5 Dicembre 2015, dichiarava: “Le parti dovrebbero ridurre gli investimenti di sostegno internazionali con alti livelli di emissioni e aumentare il sostegno internazionale per gli investimenti volti a soluzioni a basso tenore di carbonio”, nella versione finale, 7 giorni dopo, quel riferimento non esiste più.

Quel che è ancor più sorprendente è che l’accordo esclude dal computo le emissioni generate dalla attività militare, dall’aviazione e dal trasporto marittimo, privilegiando soprattutto gli interessi strategici e commerciali dei paesi industrializzati. Le trattative sul riscaldamento globale hanno alla fine rimandato nel tempo che i paesi industrializzati siano vincolati all’impegno a fornire 100 miliardi di dollari ai paesi in via di svluppo, in cui vi è l’80% dell’umanità, per sostenere il loro contributo agli obiettivi dell’accordo. Eppure, secondo il SIPRI la spesa militare globale è superiore a 1.700 miliardi di dollari ogni anno. Solo gli Stati Uniti superano i 650 miliardi e l’Europa i 450 miliardi. Nel suo discorso a Parigi, John Kerry è stato particolarmente generoso nel raddoppiare l’eventuale contributo degli Stati Uniti al Fondo verde per il clima, da 400 a 800 milioni!

Secondo un’analisi congiunta dell’Istituto per lo Sviluppo Internazionale e dell’ODI, solo i paesi del G20, le prime 20 economie, canalizzano ogni anno 450 miliardi di dollari di fondi pubblici sotto forma di sussidi alle compagnie petrolifere. Durante la legislatura 2013-2014, le compagnie petrolifere USA hanno contribuito con 326 milioni di dollari ai membri del Congresso degli Stati Uniti per finanziare le loro campagne elettorali e per influenzarne le decisioni. Tra i favori ricevuti in cambio per lo stesso periodo, il Congresso ha fornito sussidi alle compagnie petrolifere per 34 miliardi di dollari.

Non desterà quindi meraviglia se l’accordo della Cop 21, nonostante sia stato diluito, non tiene più banco sulle pagine e nelle rubriche televisive e se è stato ignorato l’appello di un gruppo di 32 personalità, guidato da quattro premio Nobel, che ha suggerito di introdurre una carbon tax e di eliminare i sussidi che ora premiano l’estrazione e l’utilizzo di fonti di energia ad alta intensità di carbonio. I radar dei militari e delle agenzie di stampa “oil sensitive” registrano solo segnali sintonizzati sulla loro lunghezza d’onda.

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