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EDUCAZIONE: UN IMPORTANTE STRUMENTO PER COMBATTERE IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

a cura di Mario Agostinelli

In questi giorni pesanti mi sono messo a tradurre e ricomporre un documento che trovo preziosissimo perché proviene dal sindacato internazionale, come una voce nel deserto che nessuna organizzazione nazionale del lavoro ha ripreso. Se ne avrete la voglia, potrete valutare come la sequenza illustri bene l’evoluzione storica malefica delle varie COP sul clima e muova una critica netta ai governi e al sistema del negazionismo climatico.

Credo che le indicazioni e le riflessioni che hanno l’autorevolezza di un documento prodotto dall’IE-EI* possano servire molto al nostro lavoro sia tra gli studenti sia nei confronti degli insegnanti e della formazione dei “disseminatori di didattica” quali ci siamo definiti. C’è qui una messe di informazioni sull’attività internazionale degli organismi UNESCO, ONU, UE, cui tutti potremmo accedere e sulla traccia di relazioni sociali che possono costruirsi a partire dal mondo del lavoro, del sindacato degli insegnanti, della ricerca, dell’Università fino alle scuole popolari: tutti, a quel che so, spaventati dalle arroganze spudorate della Lagarde, ma totalmente ignari di una presa di posizione così autorevole assunta per nome di milioni di lavoratrici e lavoratori.

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Education International è una Federazione dell’Unione Globale che rappresenta organizzazioni di insegnanti e altri dipendenti dell’istruzione. È la più grande e rappresentativa organizzazione settoriale mondiale dei sindacati con oltre 32 milioni di membri sindacali in 391 organizzazioni in 179 paesi e territori. Education International collabora con altre Federazioni sindacali globali e altre organizzazioni amichevoli per promuovere e raggiungere la solidarietà.


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Clima, l’accordo di Parigi ha clamorosamente fallito

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

Al posto del carbone: gas o rinnovabili? In un editoriale su Il Messaggero del 4 dicembre, Romano Prodi definiva una svolta storica la firma di 196 Paesi all’accordo di Parigi 2015 sul clima, che prevedeva severi obiettivi e misure concrete per la riduzione della CO2 auspicata da tutti, Cina e Stati Uniti compresi. Tre anni dopo, a Katowice per la Cop 24, quegli stessi firmatari possono annunciare un clamoroso quanto angosciante fallimento. Le convenienze economiche hanno prevalso sugli impegni politici e il limite di 1,5° C di aumento della temperatura sembra allontanarsi.

L’escamotage degli inquinatori per aggirare i patti siglati, sta nel sostituire allo “sporco” carbone il finto “salvagente” del gas fossile, come se i naufraghi in vista della tempesta scampassero per magia, aggrappandosi a una ciambella bucata. Bruciare gas comporta un po’ meno emissioni dell’equivalente in carbone, ma è pur sempre un’aggiunta di climalteranti in atmosfera. Non doveva essere questa la via d’uscita dall’allarme climatico certificato da tutti gli scienziati, ma i corposi interessi del sistema centralizzato delle fonti fossili ha suggerito trucchi adeguati per continuare a legittimarsi agli occhi dei cittadini distratti. I negazionisti climatici hanno così estratto un “jolly” fasullo, tenuto nella manica, per calarlo sul tavolo a partita aperta. Una carta decisamente differente dagli assi indicati a Parigi per frenare l’aumento di temperatura e, invece, paragonabile a un due di picche, quale è la sostituzione del gas al posto del carbone. Bene, seguendo la metafora, andiamo allora a vedere il mazzo intero, per capire come mai tutti, governi e cittadini, si dichiarano disposti al cambiamento, ma alcuni non ne vogliono pagare il prezzo.

1. La domanda di energia si sposta verso Oriente

Lo scenario in termini di domanda globale di energia sta cambiando profondamente. Se solo nel 2000 Europa e Nord America rappresentavano il 40% della domanda mondiale e l’Asia il 20%, da qui al 2040 questa situazione si invertirà. Se solo 15 anni fa, le società elettriche europee erano le protagoniste nella top ten mondiale, ora sei delle prime dieci sono utility cinesi. Inoltre, la composizione del mix energetico globale vedrà salire la quota di rinnovabili dall’attuale 25% a oltre il 40% nel 2040, non comunque abbastanza da impedire a gas+carbone di rimanere la fonte principale. Come vedremo avanti, non a causa delle arretratezze degli asiatici, ma per la pressione formidabile che lo shale gas statunitense, tenuto a basso prezzo, impone sul mercato delle importazioni in Europa e in Asia.

2. Le fonti fossili crescono

Un quadro significativo di quanto accade e probabilmente accadrà lo offre l’International Energy Agency (Iea) attraverso il World Energy Outlook 2018. “Nei mercati dell’energia, le rinnovabili sono ormai diventate la tecnologia preferita, costituendo quasi due terzi delle capacità globali aggiuntive al 2040, grazie al calo dei costi e all’aumento della domanda derivante dall’economia digitale, dai veicoli elettrici e da altri cambiamenti tecnologici”. Secondo la Iea, il prossimo scenario energetico dipenderà dalle scelte politiche governative in tema di limitazione delle emissioni di CO2. Ma dopo Parigi si è fatto ben poco: dopo due anni sostanzialmente stabili, la CO2 è cresciuta dell’1,6% nel 2017 e i primi dati suggeriscono un aumento continuo nell’anno in corso. Il gas naturale è il maggior responsabile della loro crescita.

Nel 2017 gli investimenti energetici globali sono arrivati a 1,8 trilioni di dollari con un calo del 2% sul 2016, ma “dopo diversi anni di crescita, gli investimenti mondiali nelle rinnovabili sono calati del 7% nel 2017 rispetto all’anno precedente e gli investimenti globali combinati nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica sono diminuiti del 3% nel 2017 e stanno rallentando ulteriormente nel 2018. Ciò a differenza degli investimenti in fonti fossili, che lo scorso anno sono saliti per la prima volta dal 2014, a 790 miliardi di dollari, contro i 318 miliardi delle rinnovabili. Il mattatore lo fa il gas naturale. Lo rivela l’ultimo studio World Energy Investment 2018  dell’Iea che definisce “preoccupante” un andamento che mette a rischio la sicurezza energetica e gli obiettivi di taglio all’inquinamento.

3. Lo spostamento verso l’elettricità

Il settore dell’elettricità sta vivendo, secondo la Iea, la sua trasformazione più drammatica dalla sua nascita più di un secolo fa. “Nel 2017 il settore elettrico ha attratto la maggior parte degli investimenti energetici, sostenuto da una forte spesa per le reti, superiore perfino a quella dell’industria petrolifera e del gas per il secondo anno consecutivo. L’energia elettrica è sempre più il “carburante” prescelto nelle economie che si affidano in modo crescente a settori industriali più leggeri e a servizi e tecnologie digitali”. La sua quota in termini di consumi finali a livello mondiale sta raggiungendo il 20% ed è destinata a salire. L’impatto dell’elettrificazione nei trasporti, negli edifici e nell’industria è una caratteristica irreversibile. L’elettrificazione apporta benefici, in particolare riducendo l’inquinamento, ma richiede ulteriori misure per decarbonizzare l’alimentazione elettrica.

4. E qui rispunta il gas

Le decisioni finali di investimento per le centrali a carbone da costruire nei prossimi anni sono diminuite per il secondo anno consecutivo, raggiungendo un terzo del livello del 2010. Tutto bene? Niente affatto, perché sull’altro fronte fossile il miglioramento delle prospettive per il settore statunitense dello shale gas sta lanciando questo prodotto in tutti i continenti. Con una base finanziaria più solida e sostenuto dal proprio governo, si è trasformato nel maggior concorrente mondiale nel mercato dei fossili con una produzione che, a dispetto dei danni sull’ambiente, sta crescendo al ritmo più veloce mai registrato.

Le compagnie e i governi sono alla ricerca continua di fonti fossili ancora intatte e a minimi costi concorrenziali, in barba alle preoccupazioni per la temperatura della Terra. La produzione di shale gas statunitense, che si è già espansa a un ritmo record, dovrebbe raggiungere più di 10 milioni di barili al giorno da oggi al 2025. Sarebbe come aggiungere una seconda Russia alla fornitura globale in sette anni, un’impresa storicamente senza precedenti. Per queste ragioni Trump ripudia Parigi e spedisce alla Cop 24 di Katowice autentiche comparse non certo dotate di poteri. Intanto, qui da noi, drammi o commedie si trasformano sempre in farsa. Governi, industriali, giornali e “madamine” di balzacchiana riesumazione duellano con le popolazioni locali sulla Tav e sulla Tap e si genuflettono alle “grandi opere” senza distinzione alcuna. Ci verranno mai a dire con quale impronta ecologica e con quale combustibile inquinante le faranno funzionare?

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Cercasi petrolio e gas da bruciare

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Nel suo recente ed esauriente report sul futuro del petrolio e del gas la International Energy Agency (IEA: Oil 2018, analysis and forecasts to 2023) induce a riflessioni tutt’altro che scontate sul raggiungimento del picco delle fonti fossili. Anzi, caparbiamente le grandi corporation e i gruppi finanziari più esposti esplorano ogni possibilità di rilancio. Perfino, come descriverò, le più assurde dal punto di vista climatico ambientale e le più rischiose sul terreno finanziario e delle bolle ad esso associate. Tutto, pur di contrastare il cambio di modello energetico e di trasferire solo sul piano contabile di governi e multinazionali gli effetti di una combustione dichiarata incompatibile ad ogni impotente e quindi riunione delle Cop (ormai, con quella dopo Parigi e Bonn, arrivate al numero 23).

Lo stesso direttore esecutivo della IEA, Fatih Birol, sostiene che dalla Cop 21 ad oggi si deve registrare una differenza notevole dovuta soprattutto all’impressionante ripresa della produzione di petrolio e gas da scisti negli Stati Uniti. L’impatto globale dell’aumento dello shale oil (LTO) comporta un cambiamento fondamentale nella natura dei mercati petroliferi globali.

US LTO scenari

Previsioni di produzione di LTO a seconda della velocità di esaurimento dei pozzi (http://peakoilbarrel.com/the-future-of-us-light-tight-oil-lto/)

La spina nel fianco di questa tecnologia di perforazione consiste nel più rapido esaurimento dei giacimenti (le varie curve indicano diverse velocità di estrazione – in barili al giorno – e quindi diverse previsioni più o meno pessimistiche di svuotamento dei pozzi). Si deve notare che la tecnologia, estremamente dannosa sul piano ambientale, va comunque ad esaurirsi entro la metà del secolo, ma che tutte le curve (tranne la più bassa) sono in crescita fino al 2023 e, quindi, l’inevitabile picco ancora non è raggiunto, consentendo agli Usa di solidificarsi come il principale produttore di petrolio al mondo mentre la Cina e l’India li sostituiscono come principali importatori di petrolio.

Il Fondo Monetario Internazionale vede una crescita economica globale del 3,9% all’anno fino al 2023 e le economie forti utilizzeranno più petrolio con una crescita della domanda a un tasso medio annuo di 1,2 milioni di barili/giorno. Dove sta la decarbonizzazione, parola d’ordine della Cop di Parigi e della Sen di Calenda?

Spesso si trascura che i prodotti petrolchimici sono un fattore chiave per la crescita della domanda di petrolio e che la corsa al riarmo concentra ancora di più il ricorso ad esso. Man mano che le spedizioni canadesi di shale oil e shale gas verso gli Stati Uniti crescono, questo libera il greggio statunitense più leggero per l’esportazione, in particolare per soddisfare la domanda asiatica di materie prime petrolchimiche. Ogni anno il mondo ha bisogno di rimpiazzare l’offerta persa dai campi maturi e questo è l’equivalente di sostituire un Mare del Nord ogni anno. Le scoperte di nuove risorse petrolifere sono scese ad un altro minimo storico nel 2017. Spinta dall’Lto, nel 2023 la produzione degli Stati Uniti crescerà di 3,7 milioni di barili al giorno, più della metà della crescita totale della capacità produttiva globale, di 6.4 mb/d prevista per allora. Gli Stati Uniti sono in una posizione favorevole per aumentare il proprio ruolo nei mercati globali. Per di più con Trump riprende nettamente la capacità e il ruolo della logistica e dei grandi impianti. Questo include importanti progetti canadesi come Trans Mountain e Keystone XL, e il gasdotto EPIC 550 kb/d di TexStar Logistics, che sarà operativo nel 2019 in Texas.

La domanda petrolifera europea, nel frattempo, dovrebbe tornare alla sua tendenza al declino a lungo termine. La maggior parte della crescita verrà dal Gpl e dall’etano. Buoni guadagni si vedranno anche nel consumo di kerosene dato che i viaggi aerei diventano più accessibili nei paesi non Ocse. La crescita della domanda di benzina rallenta nel periodo con standard più rigidi in materia di risparmio di carburante, mentre la crescita del gasolio rallenta in media dello 0,7% all’anno fino al 2023.

Segnalo alcuni temi chiave destinati a essere considerati nei prossimi 12-24 mesi per il settore globale del Gnl (gas naturale liquefatto), che prendono in considerazione prevalentemente i vantaggi di mercato, lasciando ricadere all’esterno sia i danni ambientali, che quelli sociali e i rischi finanziari (le fonti sono elaborate da informazioni della Banca Mondiale.

L’accumulo nell’approvvigionamento di GNL (Gas naturale liquefatto) a livello globale è significativamente ritardato dalla capacità di liquefazione. Ciò è dovuto a numerosi fattori, tra cui ritardi di messa in servizio e interruzioni di fornitura non pianificate, spesso dipendenti da conflitti locali o dall’onerosità delle infrastrutture di trasporto e trasformazione. Nel 2018 è prevista la maggiore crescita in volume di qualsiasi anno passato, superando sostanzialmente la crescita della domanda globale. Tuttavia, dopo il 2019, la ristrutturazione della pipeline dei progetti di liquefazione si esaurirà e la crescita dell’offerta inizierà nuovamente a decadere. Ciò inciderà sul prezzo al mercato e sui rischi di investimento attuali.

L‘Europa punta ad adottare il ruolo del rigassificatore globale. Ciò vale anche per il carbone, il petrolio, o le biomasse, ma fa gola specialmente per l’esportazione di gas americano. La regione è unica nella sua capacità di assorbire l’avanzo globale, grazie ai suoi mercati del gas ampi, integrati e liberalizzati e ai significativi volumi di offerta flessibile. L’Europa deve però adottare il ruolo di consumatore di gas a livello globale: a questo puntano gli Stati Uniti (con l’esportazione di shale gas) e la Russia (con la costruzione di gasdotti). Nella competizione russo-statiuniti- canadese l’UE favorisce le iniziative di immissione in rete gassosa del Gnl da scisto nordamricano ai nodi degli attracchi europei (dalla Lituania, Estonia e Inghilterra per limitare il gas russo, alla Toscana, per favorire la metanizzazione della Sardegna messa sul piatto dal governo italiano). Nasceranno così nuovi problemi per il mercato del gas, dato che il fattore determinante dei flussi complessivi in ​​Europa sarà il prezzo, con i carichi di Gnl in competizione sugli hub dei porti per eliminare le forniture da gasdotti.

Gli Stati Uniti, nel breve periodo e in funzione del surplus di shale gas, sono probabilmente l’unica fonte di offerta di Gnl a livello globale, nonostante i suoi costi di produzione-liquefazione-trasporto-rigassificazione relativamente elevati. L’espansione del gas è quindi fonte di incertezze e di gravi disagi ambientali, oltre che di rischi finanziari notevoli. Ma tant’è: nonostante tutte le Cop organizzate con grande pompa, la decarbonizzazione paradossalmente rilancia il gas, sotto traccia nella percezione dell’opinione pubblica, abbagliata dalla narrazione sulle rinnovabili nei paesi di industrializzazione matura. Perché mai, visto lo scoraggiamento che dovrebbe provenire dagli appuntamenti sul clima? La verità è che le sanzioni finanziarie sui progetti saranno sostenute dall’aumento dei prezzi delle materie prime, dall’attenuazione dei vincoli di capitale sulle principali compagnie petrolifere e del gas, nonché da una forte deflazione dei costi dei servizi a sostegno dell’economia dei progetti di liquefazione. Ancora una volta il modello di sviluppo finisce sulle spalle del pubblico e dei consumatori, con la complicità dei governanti.

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Gas fossile: il nemico armato del clima

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015In una conversazione privata a conclusione della Cop 21, un dirigente Eni ha previsto in mia presenza che il vero vincitore della conferenza di Parigi sarebbe stato il gas: completamente compatibile con il sistema delle grandi infrastrutture, disponibile in grandi quantità con sempre nuove tecnologie, soggetto alle convenienze geopolitiche delle grandi potenze e alle attenzioni politiche dei produttori di armi, meno osteggiato del petrolio e del carbone per i suoi effetti sulle emissioni climalteranti. Insomma, un utile compromesso per gli enormi interessi minacciati dalle rinnovabili e per mascherare l’urgenza di un cambio radicale di paradigma energetico: la decarbonizzazione innanzitutto.

A distanza di un anno e mezzo, quella previsione è più che confermata e il ritardo nel contenere gli aumenti di temperatura è reso più drammatico, pressoché inarrivabile, ma non esecrato quanto occorrerebbe per l’indifferenza dell’opinione pubblica. Il gas irragionevolmente si impone come la soluzione competitiva che l’economia mondiale (con l’eccezione parziale di Cina, India e Francia) e le multinazionali industriali e dei servizi stanno scegliendo per esternalizzare i costi della catastrofe della biosfera e abbindolare le popolazioni con il mito del ritorno alla crescita, accompagnata dalla riduzione delle tariffe e delle tasse sulle persone fisiche (il prezzo del gas viene tenuto basso, la sua diffusione non è accompagnata da misure di prevenzione private e pubbliche degli effetti nocivi e i danni climatici si abbattono non in generale, ma, per ora, prevalentemente sugli sfortunati più direttamente colpiti).

Dopo gli accordi per non andare oltre l’aumento di 1,5° C, solo il gas – naturale, liquefatto, da scisto, da sabbie bituminose – avanza, in un’autentica guerra commerciale e militare, per prendere tempo fino al 2023, quando i firmatari di Parigi dovranno sottostare a vincoli e verifiche più stringenti. E intanto, a tutto gas!

Se disegnassimo sulle carte geografiche i progetti di gasdotti e le rotte delle navi metaniere avremmo lo stesso effetto delle avanzate delle divisioni in tempo di guerra. I progetti mastodontici fioccano e l’Italia è tra i protagonisti sul fronte della messa in opera e della fornitura di sbocchi. Qualsiasi mare si debba valicare, eccoci pronti: Adriatico (Tap), Mar Nero (Blue Stream), Mar Caspio (Trans Caspian) per contendere alla Polonia, alla Germania e al centro del continente l’occasione dell’ “hub” del gas fossile europeo.

Ma c’è un altro fronte della guerra in corso che complica le strategie. Il gas liquefatto in partenza e poi rigassificato in arrivo, può viaggiare via mare, essere immesso in cisterne a bassa temperatura dai giacimenti naturali del Qatar, come dai giacimenti di sisto e dalle sabbie bituminose, dopo essere stato trasportato sulle coste americane dai gasdotti cui Trump oggi dà il via libera.

“È l’inizio della guerra dei prezzi tra il gasolio americano e il gas di condotta che viene da oriente”, ha dichiarato Thierry Bros, analista di Société générale, citato dal Wsj. Gli analisti dicono che la Russia potrebbe tagliare i prezzi che addebita ai propri clienti europei per cercare di scacciare i nuovi concorrenti statunitensi. Anche se più caro, molti in Europa vedono l’ingresso del gas liquido degli Stati Uniti sul mercato come parte di un più ampio sforzo geopolitico per sfidare il dominio russo delle forniture e mettere in crisi il rapporto Putin-Merkel per la costruzione della condotta North Stream 2 nel Baltico.

E infatti lo scatto americano non si è fatto attendere. A marzo, erano già stati consegnati i primi carichi di shale gas al Brasile, con successive spedizioni verso l’Asia. Il 21 aprile il Wall Street Journal aveva informato che una nave metaniera portava per la prima volta gas liquido americano in Europa. Poi le notizie si sono intensificate: il Guardian informa che 27.500 metri cubi di shale gas sono arrivati in Norvegia.

Trump, nel suo discorso a Varsavia ha voluto mandare un chiaro messaggio alla Russia. “Siamo seduti su una grande quantità di energia fossile ed ora siamo esportatori di energia, quindi, se qualcuno di voi ha bisogno di energia, basta che ci dia una telefonata”, così, secondo la trascrizione del suo discorso diffuso dalla Casa Bianca.

Il terminal nel Mar Baltico di Swnoujscie, dove la Polonia già accoglie Gnl dal Qatar, sarà ampliato e l’allestimento di terminali per il gas americano nei Paesi Baltici sono la risposta al sollecito, mentre si affaccia in concorrenza anche l’Egitto dopo la scoperta da parte dell’Eni di notevoli giacimenti nel Mediterraneo. Così, tutti corrono – un giorno sì e un giorno no – ai terminali del Golfo del Messico, alla corte del Qatar, alle stanze sontuose degli sceicchi arabi o di Al Sisi, dimenticandosi ogni volta di Regeni.

C’è infine la schizofrenia statunitense verso i produttori di gas del Golfo. Dopo l’anatema di Trump e dell’Arabia Saudita verso il Qatar, tre giganti energetici (Exxon, Bp e Total) dichiarano il loro sostegno al piano di Doha di aumentare del 30% la produzione entro il 2024. E Washington diventa mediatrice di una lotta di puri interessi, tutti con la puzza del gas, altro che inebriati da essenze religiose.

D’altra parte, come ha detto alla Reuters il funzionario di una delle compagnie coinvolte: “C’è solo una politica qui: si devono fare scelte puramente economiche. Essere qatariota in Qatar e emiratino negli Emirati”. Non c’è solo Trump a sparare sul clima.

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Clima, guerre e migrazioni. Ecco il 2 giugno

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Abdul Aziz, 35 anni, è trascinatore di risciò a Dacca, capitale del Bangladesh. Ha perso tutti i suoi averi per le inondazioni del fiume Meghna. Aziz aveva una bella casa e una grande quantità di terra arabile. L’erosione del fiume gli ha strappato tutto il terreno coltivabile ed è stato costretto a rifugiarsi in una baraccopoli senza servizi e scuole e l’intera sua famiglia non ha di che sostentarsi. Secondo gli scienziati il Bangladesh è uno dei paesi al mondo più vulnerabili ai cambiamenti climatici e all’aumento del livello del mare, che ha già costretto milioni di persone a lasciare villaggi semi sommersi.

Il ciclone Sidr, nel novembre 2007, ha innescato un’ondata di marea alta cinque metri nella fascia costiera e si è portato via 3.500 morti, provocando due milioni di sfollati. Nel maggio 2007, un altro devastante ciclone, Aila, ha colpito la costa uccidendo 193 persone e lasciando un milione di senzatetto. Quasi tutti i migranti non tornano più ai loro luoghi di origine. Da 50.000 a 200.000 persone, ogni anno, lasciano le loro terre là dove sfociano Gange, Brahmaputra e Meghna, con la previsione che, se il livello del mare aumentasse di un metro, come previsto entro il 2060, circa 20 milioni si sposteranno per sempre.

La questione è stata sollevata al vertice mondiale umanitario a Istanbul il 23-24 maggio. Oggi, a seguito delle previsioni realistiche di cambiamento climatico, sono valutati in 130 milioni le persone più vulnerabili in disperato bisogno di assistenza nel mondo, che si aggiungono ai 50 milioni già fuoriusciti fino ad oggi. Il Vertice di Istanbul è il frutto di un lungo processo di consultazione durato tre anni, che ha coinvolto oltre 23.000 soggetti interessati ed ha registrato la presenza di 9.000 partecipanti provenienti da 173 paesi. A dispetto di tutto ciò, i massimi leader dei sette paesi più industrializzati (G7), e dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sono stati tutti a casa: tra questi solo Angela Merkel, dimostrando maggior lungimiranza, è intervenuta. Il nostro premier Renzi si strizzava la cravatta altrove, in una delle sue incessanti conferenze stampa in giro per il mondo dove, a prescindere dall’argomento di partenza, finisce irrimediabilmente per incrociare i guantoni con la minoranza del Pd e tutti quelli che non capiscono che il futuro cambia… se si vota Sì al referendum!

Nonostante il silenzio dei nostri media (ne ha giusto parlato il Papa da piazza San Pietro) il vertice è riuscito a inviare un campanello d’allarme senza precedenti della sofferenza umana: purtroppo non ha raggiunto l’obiettivo di attrarre i fondi massicci necessari per alleviare il dramma umanitario, in quanto nessuno dei leader assenti ha battuto un colpo. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha espresso forte “delusione”, visto che “le risorse necessarie per salvare la vita di decine di milioni di esseri umani rappresentano solo l’1% della spesa militare mondiale totale. Il vertice ha portato alla ribalta dell’attenzione globale la portata delle modifiche richieste, se vogliamo affrontare la grandezza delle sfide davanti a noi. I partecipanti hanno reso enfaticamente chiaro che l’assistenza umanitaria da sola non può né affrontare adeguatamente né ridurre le esigenze di oltre 130 milioni di persone tra le più vulnerabili del mondo”.

Un nuovo e coerente approccio si basa sulle cause profonde, mantenendo le promesse della Cop 21 di Parigi già dimenticate, aumentando la diplomazia politica per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti, e compiendo ogni sforzo di costruzione della pace. L’azione umanitaria non può essere un sostituto dell’azione politica, dato che in realtà, la maggior parte dei flussi di rifugiati del mondo riguardano o “rifugiati climatici” – coloro che fuggono la morte causata da siccità senza precedenti, inondazioni e altri disastri in gran parte causati dai consumi energetici dei paesi più industrializzati – o sono risultati diretti di guerre in cui i paesi del G7 e gli stati permanenti del Consiglio di sicurezza, tranne la Cina, sono coinvolti.

Jan Egelend, che dirige il Norwegian Refugee Council ed è anche il Consigliere speciale di Staffan de Mistura, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, ha detto che la comunità internazionale ha bisogno di una “lista nera” di qualsiasi gruppo o qualsiasi governo che contribuisce all’allargarsi delle guerre fornendo armi, bombe, velivoli. Dopo aver firmato di corsa a New York l’accordo sul clima senza nemmeno un impegno quantitativamente verificato in un dibattito parlamentare, dopo aver partecipato “per motivi umanitari” ad ogni spedizione militare che si fosse delineata all’orizzonte ed aver registrato che nulla ha gettato discredito sull’Europa più del comportamento erratico dei governi nazionali e dell’Ue di fronte al massiccio flusso di immigrati disperati, non sarebbe il caso di uscire dalla retorica e dedicare ai rifugiati e alle ragioni profonde e tragiche delle morti in mare l’articolo 11 della Costituzione – quello sul diritto alla pace – proprio mentre il 2 Giugno si osserva lo sfilare degli eserciti ai Fori Imperiali?
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