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Le auto elettriche abbatteranno il rumore e le emissioni inquinanti. Allora perché tanta ostilità?

Riprendo l’articolo pubblicato il giorno dopo la decisione del Parlamento Ue sull’auto elettrica con alcune osservazioni che vanno al di là della cronaca e attestano ancora una volta l’inadeguatezza dei nostri governanti a mantenere un minimo di coerenza con le linee di fondo sul clima adottate dal Parlamento Europeo. A Strasburgo il centrodestra italiano (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) ha votato compattamente contro il termine del 2035, oltre il quale si potranno immatricolare solo auto elettriche.

Già il governo Draghi si era battuto per il principio della “neutralità tecnologica” sostenendo che sarebbe stato un errore puntare su una mobilità esclusivamente elettrica. Si tratta non di un fatto estemporaneo o di un timore giustificato per l’occupazione, ma di una linea di fondo di non percezione dell’urgenza di un cambiamento complessivo delle produzioni e dei consumi in un tempo che viene ogni giorno sempre più a mancare e che necessita di un impegno altrettanto urgente per la giustizia sociale e la difesa del lavoro.

E’ significativo come perfino un redivivo Roberto Formigoni abbia oggi sentenziato contro il limite fissato al 2035 dimenticandosi forse che fin dal 2004 un gruppo allargato di ricercatori dell’Enea, sotto la supervisione del Nobel Rubbia, avesse presentato alla Regione Lombardia un articolato piano per la mobilità sostenibile fondato sulla riconversione a idrogeno dei motori degli autoveicoli e sull’estensione di sistemi di logistica intermodale in cui prevalesse il trasporto pubblico. Si trattava di riconvertire l’intera area Alfa Romeo in una manifattura prestigiosa e all’avanguardia e finita, invece, dopo estenuanti confronti, con l’ospitare il più grande supermercato d’Italia – “Il Centro” di Arese – il cui azionista di maggioranza è da sempre vicino alla Compagnia delle Opere. La povertà di visione di chi ci governa (in Lombardia ormai da 30 anni) riduce perfino la politica industriale a interessi di parte e ad un gioco di poteri stantii.

Qui vorrei inquadrare il salto di qualità che i due provvedimenti adottati dal Parlamento Ue (Fit for 55 e Stop al 2035) cercano di imporre, sempre che la Commissione e i capi di governo non ne attenuino il significato, come è avvenuto sulla “tassonomia europea” e come sta profilandosi sulla riduzione della quota di rinnovabili da varare entro il 20230 – dal 45% al 40% secondo la Commissione. E’ in atto, purtroppo, un pericoloso scostamento tra gli esecutivi e il Parlamento, che Ursula von der Leyen tratta con troppa disinvoltura e con un ascolto non irrilevante delle lobby fossili.

Il settore dei trasporti è responsabile del 30% delle emissioni totali di CO2 in Europa. Dal punto di vista delle fabbriche automobilistiche, le principali difficoltà tecniche per alleggerire l’inquinamento da traffico consistono innanzitutto nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e, inoltre, nel contenimento degli ossidi di azoto (NOx) per le alimentazioni diesel e del numero di particelle microscopiche (PN) per le alimentazioni a benzina a iniezione diretta, emissioni pesate come anidride carbonica equivalente (CO2 eq.).

Da fine degli anni 90 gli approcci ai regolamenti sui gas serra per i veicoli commerciali si erano concentrate sulle emissioni dal condotto di scarico. Così, in tutta la trafila di classificazioni per gli autoveicoli da Euro 1 a Euro 6 si sono fissati limiti di emissioni del combustibile impiegato misurati “al tubo di scappamento”. Invece dal 2035 facendo riferimento esclusivamente al vettore elettrico anziché continuare ad andare esclusivamente nella direzione di combustibili a minor emissioni di carbonio, ci si muoverà verso le nuove fonti di alimentazione dei motori, come i gruppi motopropulsori elettrici delle batterie, che ottengono la loro energia dall’elettricità con cui si caricano. E qui entra in gioco non solo il gas misurato allo scappamento del veicolo, ma anche quello immesso in atmosfera dal mix di fonti con cui si alimentano le colonnine di ricarica. Il passaggio all’elettrico ha quindi un significato che va oltre il settore automobilistico: anche per l’inquinamento dovuto alla mobilità diventerà sempre più rilevante il percorso con cui si procurerà l’elettricità trattenuta nelle batterie o come verrà prodotto, eventualmente, l’idrogeno (verde o grigio) che alimenterà le celle a combustibile montate sui veicoli.

In sostanza: il salto di qualità sta nel porsi un obbiettivo più esteso: il vettore (elettricità o idrogeno) che consente al motore elettrico di abbassare drasticamente gli inquinanti rispetto al motore a combustione termica andrà a sua volta ottenuto da fonti rinnovabili a bassissime emissioni anziché da fonti fossili, grandi emittenti di climalteranti e gas inquinanti (o radiazioni nel caso del nucleare). La cosa interessante da notare è che per la prima volta un Regolamento europeo sulle emissioni nel settore automotive cita la metodologia dell’intero ciclo di vita (Lca). Puntando – corroborato dal contributo degli obbiettivi del “Fit for 55” – a diminuire drasticamente anche le emissioni a monte legate alla produzione dell’energia elettrica o dell’idrogeno impiegati dal veicolo.

L’obbiettivo è molto ambizioso e condivisibile: un sostanziale assorbimento di energia elettrica per il settore stradale può fungere da driver per aumentare la quota di energie rinnovabili nel mix di fonti energetiche Ue. E, parimenti, “l’inverdimento” del mix di reti aiuta anche “l’inverdimento” del settore stradale. In base alla penetrazione delle rinnovabili (fissate dalla Ue almeno al 45% al 2030) è possibile stimare che le emissioni clima-alteranti (in tutto il ciclo di vita) dei veicoli saranno almeno quasi dimezzate al 2035. Per di più, i veicoli abbatteranno radicalmente il rumore e le emissioni inquinanti (NOx, CO, PM, HC) in ambito locale. Perché allora tanta ostilità e insensibilità climatica da parte dei nostri ministri e governanti?

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L’anno nero dell’energia e i timidi passi verso la transizione: ma le lobby sono ancora troppo forti

Se dovessimo fare un bilancio sull’avanzamento della conversione energetica nell’anno appena conclusosi difficilmente potremmo essere ottimisti, anzi! L’energia è emersa nel suo aspetto più politico, svincolandosi dal peso del solo mercato, condizionata ampiamente da un’incipiente “terza guerra mondiale a pezzi”. La stessa coesione della Ue, dimostrata al tempo del “20/20/20”, si è frantumata a fronte di una crisi energetica senza precedenti. Dodici riunioni dei ministri dell’Energia – precedute da 191 riunioni di gruppi di lavoro e ambasciatori – per coordinare la risposta dell’Europa all’aumento dei prezzi del gas e dell’elettricità hanno soltanto assunto l’impegno generico ad acquistare congiuntamente la fonte fossile ad impatto forse meno devastante e ad accelerare l’autorizzazione degli impianti di energia rinnovabile, per sostituirla in un futuro “compatibile” con i suoi effetti climalteranti.

Ma invece del “grande affare energetico europeo” di cui l’Europa aveva bisogno, i leader dell’Ue sono rimasti bloccati nella politica interna. Al di là della svolta politica, indotta dall’invasione russa dell’Ucraina, ciò che rimane è una lotta senza senso per un tetto massimo del prezzo del gas, che nella migliore delle ipotesi farà ben poco per abbassare i prezzi dell’energia e, nella peggiore, spaventerà i venditori sul mercato. Lo stanziamento comune Repower UE per la riconversione dal fossile è sostenuto con pochi soldi freschi – un misero 20 miliardi di euro prelevati dal mercato delle emissioni – e, mentre i Paesi dell’Ue sostengono a parole e con distinzioni preoccupanti le energie rinnovabili, i loro governi rimangono riluttanti a impegnarsi per un obiettivo al di sopra del 40% per il 2030.

I centri di potere legati ai fossili sono tuttora colossi pubblici che rendicontano al governo del proprio Paese del loro operato. Il ruolo delle lobby ha di conseguenza sovrastato la svolta ancora timida verso l’autoproduzione da fonti naturali, il decentramento territoriale, il risparmio, le forme di consumo comunitarie. In realtà è come se i governi e le popolazioni si trovassero su due diversi binari, mentre le vere emergenze del clima, della guerra (nucleare?), della riduzione delle libertà e dei diritti sociali si spostano nel tempo su uno sfondo geopolitico incerto.

Il 2022 anno nero per il clima

Secondo l’ultimo rapporto della Iea, nel 2022 le emissioni mondiali di CO2 aumenteranno di 330 milioni di tonnellate. Ma le tonnellate in più sarebbero state il triplo senza il contributo delle rinnovabili e della mobilità elettrica. L’incremento mondiale della di CO2 in questo anno (+1%) è stato determinato da un piccolo aumento (+1,5%) delle emissioni statunitensi e da uno più elevato di quelle indiane. Le emissioni cinesi hanno registrato invece un lieve calo (-0,9%), analogo a quello della UE (-0,8%).

Veniamo da un periodo di siccità che ha colpito l’Italia, soprattutto il centro nord, con un clima sempre più torrido e con una diminuzione massiccia della produzione agro-alimentare. Il rapporto di Legambiente registra 310 “fenomeni” che hanno provocato 29 morti. A livello territoriale il nord della Penisola è stata l’area più colpita. A livello regionale la Lombardia è la regione che registra più casi “singolari”, ben 37. Il mese di giugno, poi, ha visto una anomalia della temperatura media di +3,3°C in Italia. A luglio il record si è registrato nelle città lombarde: a Brescia e Cremona si sono misurati 39,5°C, a Pavia 38,9°C e a Milano 38,5°C. Ne hanno mai parlato Salvini o Fontana? Senza risorse è impossibile ripensare la città. Come garantiamo, di conseguenza, ad agricoltura e allevamento le opportunità per diversificare le attività? Come promuoviamo la vivibilità per i cittadini e la sopravvivenza delle attività produttive?

Per quanto riguarda il mare che lambisce le nostre coste, va detto che sono uno dei pozzi di carbonio più preziosi al mondo. Sono le distese di acqua salata a catturare e trattenere circa 1/3 dell’anidride carbonica emessa dall’uomo ogni anno in atmosfera. Tuttavia, questo ruolo di “carbon sink” scricchiola sotto il peso del riscaldamento globale. Oceani più caldi renderanno “più difficile per il carbonio organico trovare la strada per essere sepolto nel sistema sedimentario marino”. Eppure a Ravenna l’Eni conta di poter seppellire in mare la CO2 sequestrata dai suoi impianti!

La crisi pandemica, i lockdown, il caro energia e di materie prime con un’inflazione a due cifre, la guerra in Ucraina, i rischi sempre più concreti di sicurezza sulle forniture, gli eventi climatici sempre più estremi, sono tra loro interdipendenti e il cambio di paradigma energetico assume un ruolo molto rilevante: basta pensare che l’Italia ha speso nel 2022 circa 75 miliardi di euro in più per l’energia rispetto alla media dei 10 anni precedenti. Una cifra comparabile con gli investimenti per lo sviluppo delle fonti rinnovabili in base agli obbiettivi europei assegnatici dalla Ue al 2030.

La guerra in Ucraina e la sostituzione del gas russo

Certamente la data del 24 febbraio ha impresso un punto di svolta determinante, ma già con l’inizio dell’anno, dopo l’approvazione della tassonomia europea che rendeva “green” il gas e il nucleare, si è realizzata una prima ferita alla completa decarbonizzazione del sistema elettrico, da conseguire entro metà secolo nella Ue.

Con l’eliminazione delle importazioni di gas dalla Russia, resa ancor più definitiva dopo la distruzione dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 (avvenuta lo scorso 26 settembre), l’Europa ha tagliato i ponti dietro se stessa, ricorrendo ad un maggiore impiego del carbone ed alla riconferma del nucleare assieme ad una corsa forsennata a trovare nuovi canali di rifornimento di metano. Pur tuttavia, nello stesso tempo, è stato incrementato l’apporto delle rinnovabili di 39 TWh in più rispetto al 2021 (+13% su base annua), con il primato del Portogallo che ha alzato dal 58 all’80% la quota di rinnovabili elettriche da raggiungere nel 2026, mentre l’Italia è per ora rimasta sostanzialmente al palo di una incerta progettazione di eolico e fotovoltaico in mare.

Nell’immediato, il nostro governo ha deciso di cercare nuovi partner e nuove condotte per il metano e di mettere in opera due nuovi rigassificatori galleggianti per l’acquisto nei prossimi anni di gas liquido (GNL). Un’operazione giustamente contestata per l’aspetto strutturale che sottende: il ciclo del GNL è molto inquinante. Passa infatti da estrazioni rovinose, dal successivo processo di liquefazione, dal trasporto via mare a lunga distanza in grandi navi, dalla necessaria rigassificazione e dall’aggancio finale ai tubi dei gasdotti locali. In pratica, il governo ricorre ad un potenziamento non temporaneo delle infrastrutture fossili, reso evidente dall’annuncio di progetti di 2.000 km di nuove pipeline, il 18% in più rispetto all’esistente. Risulta così ancor più rilevante la dispersione in atmosfera di quantità di CH4 puro, fortemente climalterante.

Ci si affida quindi alla carta del GNL il cui limite operativo non dipende da fattori tecnologici, ma dalle infrastrutture che sono rappresentate, dal numero di navi gasiere disponibili sul mercato e dai terminali di liquefazione (in partenza: Usa e Qatar) e di rigassificazione (in arrivo: Piombino e Ravenna in primo luogo). La costruzione di altri gasdotti e di approdi alle metaniere, quando il mondo ha bisogno di abbandonare urgentemente i combustibili fossili è una tendenza più che preoccupante e non solo per il nostro Paese.

L’illusione del nucleare e il miraggio della fusione

Roberto Cingolani sul Corriere del 31 dicembre proclama: “Nucleare niente pregiudizi, il futuro passa da qui: armi ed energia sono cose diverse”. Buon per lui. Che il prossimo decennio sia decisivo per la storia umana lo scrive nell’introduzione il documento in 80 pagine sulla strategia di difesa Usa (DNS), centrato in gran parte sull’impiego dell’arma nucleare e sulla supremazia tecnologica del Pentagono. Geopolitica al top e biosfera e natura retrocesse a preda del vincitore.

Una simile distorsione nell’interpretare l’epoca attuale comporta un arretramento di civiltà, un colpevole spreco di risorse necessarie alla sopravvivenza, la predisposizione alla guerra come soluzione della “concorrenza” tra blocchi in corsa per l’egemonia globale. In un simile contesto è l’energia che la fa da padrone, anche sotto la forma più incontrollabile delle armi. In questo quadro “scosso” è facile far scivolare l’opinione pubblica verso il nucleare civile, da fissione o fusione che sia, raccontato come praticabile e difendibile quanto l’uso incontenibile delle armi, fino ad un sommesso “sdoganamento” dell’atomica.

In un contesto così alterato prende corpo il miraggio della fusione, un’energia come quella che proviene dal sole (ma ad una distanza di 150.000 km!) che nell’esperimento propagandato a Livermore non tiene conto del divario incolmabile tra il risultato dell’accensione e l’energia necessaria per il pareggio del dispositivo. Questo modo di procedere e di spacciare per ingegnerizzabile e commerciabile in anni vicini un esperimento di prevalente destinazione militare, ha instaurato tra scienza e tecnologia un processo politico di decisione e informazione dei cittadini con l’obbiettivo di mettere sotto il tappeto quel “non c’è più tempo”, che invece è ormai patrimonio del senso comune ed ha a portata di mano la rivoluzione delle rinnovabili.

[CONTINUA…]

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La guerra in Ucraina è sempre più energivora: attenzione all’illusione nucleare

Mentre la guerra in Ucraina ostenta un ulteriore inasprimento e prefigura da ambo le parti un suo prolungamento che un Kissinger preoccupato azzarda a definire “guerra infinita”, si incomincia a riflettere su quanto sia energivoro il “capitalismo della sorveglianza”, che sembra tener banco nella contesa per la supremazia globale (v. Andreas Maln, Come far saltare un oleodotto, ed. Ponte alle Grazie). Siamo al cospetto di un conflitto armato a tutto campo, in allargamento spaziale e temporale e sempre più energivoro, che si pone di fronte ad un passaggio fatale dagli esplosivi inorganici e chimici, già ad altissima densità energetica, verso quelli nucleari, incontrollabili per potenza irreversibilmente distruttiva.

La guerra ha un impatto ecologico devastante: se diventasse nucleare la specie umana scomparirebbe ed è anche perciò che l’impiego civile della fissione nei reattori non può essere disconnesso dalla destinazione dei suoi prodotti ad uso bellico. Già allo stato attuale, solo in Ucraina, la pressione che il conflitto esercita sulle foreste per il taglio indiscriminato di alberi e per gli incendi della vegetazione, lo spostamento di attrezzature, mezzi pesanti, munizioni nonché l’allestimento di operazioni militari che disperdono incessantemente con ordigni chimici e infestanti distruzione e morte, fanno stimare un aumento superiore al 10% delle emissioni totali dovute alle sole attività militari. Un danno grosso modo equivalente alle emissioni di climalteranti in 10 anni di attività della popolazione subsahariana.

Se lo scenario politico post pandemia e globalizzazione si affidasse alle guerre e non venisse sconfitto dal ritorno della pace, allora il modello energetico del Green New Deal della Ue fallirà e il cambiamento climatico sarà ancora più brusco, alimentato da uno scontro tra blocchi che ricorrerebbero a qualunque forma di energia (fossili, ma anche atomiche) per concorrere all’egemonia sul pianeta. Purtroppo, le decisioni ultime dei cobelligeranti della guerra in corso rischiano concretamente di archiviare l’ottenimento di risultati tangibili in tema di contrasto al global warming per i prossimi due-tre decenni.

L’illusione nucleare vorrebbe deviare un movimento che cerca la prospettiva dell’ecologia integrale assieme alla pace, le energie rinnovabili assieme alle comunità energetiche e che riempirà di giovani soprattutto le piazze del 5 novembre. Non c’era di meglio, per rompere questo messaggio in formazione, che assoldare all’atomo – con determinazione sospetta – la leggerezza con cui Greta Thunberg ha “aperto” al mantenimento in vita dei reattori già in funzione in Germania. Stiamo ai fatti: in una intervista l’attivista svedese si limita a dire che “Se l’alternativa è tornare al carbone meglio lasciare accese le centrali per la produzione di energia atomica”. Di fronte al clamore scatenato dalla sua dichiarazione, Greta ha precisato che “Oggi, come sempre, è importante fare attenzione a coloro che ascoltano la scomoda verità solo quando rientra nella loro agenda”. Forse faceva riferimento anche alle nove colonne di Repubblica del 12 ottobre e al Foglio che titolava “Per la prima volta l’Italia ha una maggioranza favorevole al nucleare (che ora piace anche a Greta)”.

Sul piano comunicativo si tratta di cosa non da poco: il volto del movimento ambientalista di Fridays for Future è consapevole che le sue affermazioni faranno discutere, anche se si era riferita al ricorso al metano e all’atomo come “false soluzioni, necessarie tuttavia al posto del carbone”. Greta pecca di leggerezza e si nasconde dietro ad una ambiguità mai ben risolta anche nel movimento FFF, che si concentra quasi esclusivamente sulle emissioni climalteranti, anziché, più complessivamente, sull’energia interna del pianeta che può essere deturpata per milioni di anni dalle scorie radioattive. La mia convinzione è che nel rapporto sul futuro della conversione ecologica non si possa rimanere inchiodati solo su una prevista riduzione di CO2/KWh a fronte della durata di secoli di radiazioni che intaccano il genoma e ridisegnano le forme della vita (e della morte). Provo a rivolgere a Greta e ai suoi meravigliosi attivisti tre obiezioni perché non cedano su un compromesso che ha alle spalle grandi potentati economici e militari, che insidiano già ora l’esito dei conflitti armati e il limite della natura.

Per farlo, mi riferisco al caso francese – “tutto nucleare” – che è alle prese con tre insolute questioni:

1- mantenere il funzionamento dei reattori di seconda generazione in servizio da oltre 40 anni. In Francia, dei 56 reattori del parco nucleare, quasi due terzi hanno raggiunto una vita operativa di oltre 31 anni (11 hanno superato i 40 anni). Gli organismi territoriali di competenza non hanno nessun potere giuridico per scongiurare incidenti.

2- smantellare i reattori non più in funzione. E’ tuttora in corso lo smantellamento degli impianti di prima generazione inizialmente prevista per il 2036. Ma la fine dello smantellamento dovrebbe essere a lungo posticipata a causa delle difficoltà segnalate per la sicurezza del personale addetto allo smantellamento, e la difficoltà a garantire la totale bonifica dei siti.

3- affrontare la saturazione dei siti di stoccaggio delle scorie radioattive e la forte opposizione da parte delle associazioni antinucleari (Sortir du nucléaire et al.) al progetto di stoccaggio sotterraneo Cigéo (a Bure, nella Meuse), che ha fatto sì che non sia stato finora validato.

Tutto ciò ha impatti economici, sulla salute e sull’incolumità imprecisabili e a debito delle nuove generazioni.

Infine, un’osservazione sullo sviluppo di piccoli reattori nucleari (Small Modular Reactors o SMR) caratterizzati dalla loro relativamente bassa potenza e dalla loro costruzione modulare (IV generazione). Il materiale fissile è il Plutonio239, ed una volta introdotta una carica iniziale, viene rigenerato grazie alla presenza di un materiale fertilizzante (generalmente Uranio238) irradiato dai neutroni nelle reazioni di fissione e che deve essere periodicamente rinnovato.

Oltre alla radio-tossicità molto elevata del Plutonio, la dispersione più ‘capillare’ dell’inquinamento (scorie + smantellamenti) sarebbe ancora nettamente più difficile da gestire e controllare che per i reattori attualmente in servizio. Senza dimenticare che ogni impianto nucleare di potenza può diventare bersaglio, accidentale o volontario, di attacchi militari o terroristici con esiti catastrofici.

Dobbiamo contare sulla straordinaria opera di divulgazione e suggestione di Greta, ma impedire che il complesso industrial-militare se ne possa fare strumentalmente scudo per una ripresa di tecnologie energetiche centralizzate, che escludono la partecipazione, che minano la riproduzione della vita.

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Clima, la guerra in Ucraina chiede cambiamenti più urgenti. Altro che riarmo e ancora fossili!

L’attenzione ossessiva alla pandemia è stata soppiantata da una cronaca atroce, istante per istante, dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe. Da tempo le notizie si cancellano l’un l’altra. Si seguono i fatti, non si indicano i processi. L’impressione è che non sappiamo più trovare il filo delle emergenze, le loro connessioni, le possibili riparazioni che possono avere solo dimensione universale e trovare una armonia tra presenza umana e ospitalità della Terra.

Mentre l’opinione pubblica è con insistenza trascinata a vivere come sequenze temporali separate eventi che incombono senza sosta e sempre più bruschi, la società e le sue rappresentanze smarriscono il filo di un terribile pericolo: la sopravvivenza e la perdita di incivilimento che riguarda l’umano. Francesco sei anni fa aveva afferrato il cambio d’era e l’aveva descritto come un prodotto fisico, spirituale, sociale dei nostri comportamenti: irreparabile senza una svolta ed un ripensamento sull’intero fronte delle interconnessioni da cui provengono il cambio climatico, il pericolo nucleare, la diffusione della disuguaglianza sociale.

Oggi, la guerra atroce nel cuore dell’Europa evidenzia drammaticamente sofferenze e nuove povertà e intanto dilaziona le misure per frenare l’aumento della temperatura globale e sovvertire il sistema energetico, riconsegnato di colpo ai fossili in una morsa perversa tra carbone, gas, armamenti e andamento del Pil. L’errore può dimostrarsi fatale e non dobbiamo prestare il fianco. Non siamo solo esposti alle difficoltà di approvvigionamento del gas e alla penuria di combustibili di cui improvvisamente cesserà la fornitura. Siamo invece assai prossimi ad un passaggio storico cui stiamo arrivando impreparati e ad una velocità imprevista dai governanti del Pianeta.

Anche il nostro Governo, purtroppo, non coglie l’eccezionalità del momento: mentre da una parte annuncia il riarmo, dall’altra guarda all’indietro e, anziché accelerare il passaggio alle rinnovabili e ad un modello decentrato di produzione e consumo, va alla ricerca di nuovi fornitori da sostenere con ingenti investimenti infrastrutturali, che certamente non ci consentiranno la conclamata fuoriuscita dal fossile. Nei paesi importatori, in un clima di pace costituzionalmente precaria, crescerà ancora la incertezza del lavoro e la disoccupazione, assieme ad una ingiustizia sociale insanabile. Al contrario, la svolta verso la transizione ecologica dell’economia intraprenderebbe quel percorso di cura e di riequilibrio con la natura che l’Ue aveva individuato come propria missione riparatrice dopo secoli di industrializzazione e colonizzazione.

E’ grave che il governo Draghi riporti in secondo piano la questione climatica, al centro fino a pochi mesi fa di importanti incontri internazionali, e non ristrutturi dalle fondamenta la cabina di regia del Pnrr, ora che i rubinetti di approvvigionamento dei fossili vanno ad esaurimento con le sanzioni alla Russia. L’Osservatorio per la riconversione ecologica-Pnrr ha avanzato la richiesta di promuovere in tempi brevissimi una Conferenza nazionale sull’energia in cui fare il punto sulla situazione, ascoltando le proposte avanzate dai soggetti istituzionali e sociali. Queste proposte potrebbero diventare parte di un impegno comune ed eccezionale delle aziende a partecipazione statale, assieme alle forze sociali (imprese e sindacati), alle associazioni ambientaliste, alle comunità energetiche e a quanti hanno competenze in materia.

L’insano blocco delle energie rinnovabili ai livelli di dieci anni fa rende obbligatorio il protrarsi di combustioni altamente climalteranti, mentre restano inevase preziose candidature dei privati a investire risorse nel settore eolico off-shore, in quello terrestre e nel fotovoltaico. La stessa sostituzione del turbogas con le rinnovabili a Civitavecchia rimane avvolta da un silenzio inquietante.

C’è poi una narrazione che è ripresa e che vuole convincerci che il nucleare è la soluzione dei problemi energetici. L’orrore della guerra in corso richiama in modo angosciante l’illusione di avere a disposizione energia densa e concentrata non solo a fini irreparabilmente distruttivi (le bombe), bensì governata con tecnologie che offrano autonomia energetica in un quadro geopolitico dato in grande mutamento (i reattori nucleari). Siamo da mesi inondati da notizie mirabolanti e rassicuranti sull’impossibilità di avere un sistema energetico funzionale privo dell’apporto della fusione di atomi leggeri o della fissione di elementi a elevato peso atomico che assicurino la crescita, mentre la crisi climatica, esacerbata dalla guerra, toglie tempo alle illusioni più irresponsabili.

In una prospettiva di rapida indipendenza dal gas russo e, più in generale, da idrocarburi e fonti fossili, occorrono proposte precise come la riscrittura del Piano integrato energia clima (Pniec), per fissare al 2030 per le fonti rinnovabili l’obiettivo di 90 nuovi GW – ad un ritmo di 8/9 GW all’anno nel prossimo quadriennio – e per indirizzare Amministrazione pubblica, Enti e Istituzioni preposte, insieme a tutte le imprese, verso un percorso rapido di massima elettrificazione nei diversi impieghi – industria, trasporti, usi domestici – con energia elettrica fornita sempre più da energie rinnovabili (Fer).

In definitiva, le conseguenze della guerra debbono spingere ad adottare provvedimenti ancora più urgenti per le realizzazioni energetiche fondamentali per il Paese e per la lotta al cambiamento climatico, con il massimo coinvolgimento dei cittadini.

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L’idroelettrico avvantaggia solo le aziende, ma sfrutta l’ambiente e le popolazioni montane

di Ezio Roppolo e Mario Agostinelli

Nello scenario energetico italiano e internazionale alcuni aspetti della nostra realtà economica e politica trascurano o sottovalutano la “questione dell’idroelettrico” e, nel caso nazionale, la condizione svantaggiosa cui sono sotto sottoposte le popolazioni montane che ne usufruiscono. La produzione annua italiana di elettricità in Italia è di circa 280-300 TWh. La produzione elettrica dall’acqua che scende giù dai monti è quindi circa il 17%, cioè 45-50 TWh: un business vicino ai dieci miliardi di euro all’anno di fatturato, poco più di mezzo punto percentuale del nostro Pil. Questi terawattora sono quasi esclusivamente prodotti nei bacini delle nostre montagne e coprono 10,6 milioni di ettari, il 35% della superficie italiana.

Attualmente, i loro territori sono poco densamente popolati – circa 40 abitanti per chilometro quadro – prendendo come riferimento i dati della Valle d’Aosta e della provincia di Sondrio, i cui fondovalle sono peraltro molto più affollati. Se anche ipotizziamo che tutti costoro consumino in media come gli abitanti delle colline e delle pianure, anche se in pianura è insediato il maggior numero di industrie e tra loro le più “energivore”, possiamo facilmente comprendere che i territori montani meno popolati trattengano per il proprio uso solo una scarsa metà della produzione, 20-25 TWh, mentre la rimanenza viene utilizzata dal resto dell’Italia. L’energia idroelettrica prodotta tra i monti la consumiamo probabilmente entro un massimo di 50 km, quindi è quasi a chilometro zero, cioè con costi di trasporto molto più bassi di quella che si manda a Roma o a Milano. Possiamo inoltre aggiungere che anche gli “oneri di sistema” causati dalle funzioni di regolazione della rete non dovrebbero riguardare gli abitanti montani, dato che l’idroelettrico è molto “programmabile” e, semmai, contribuisce positivamente alla regolazione della rete.

Ora facciamo un po’ di conti in tasca per vedere dove vanno i denari delle bollette nel caso dell’idroelettrico, sia quelli “normali” che quelli “super” dovuti all’esplosione dei prezzi energetici degli ultimi mesi. Al fisco vanno direttamente 2,6 centesimi: il 13% di quei 20 centesimi di euro al KWh dovuto costantemente a impianti ad alimentazione prettamente naturale. Il ciclo dell’acqua anche in questo caso si rivela virtuoso, ma oneroso per chi convive con esso. Esiste poi un costo di distribuzione dell’energia che viene portata nelle fabbriche, negli uffici e nelle case di tutti a qualunque distanza arrivi la rete elettrica. Chi vive in montagna paga questo costo, comunque, al monopolio di Terna, posseduta indirettamente dallo Stato, che si prende il 17% per il trasporto e l’11% per gli oneri di sistema, cioè 5,6 centesimi di euro per ogni KWh consumato, anche se sta a “chilometro zero” dalla sorgente elettrica.

È evidente che “trasporto” e “sistema” dovrebbero costare molto meno ai montanari: l’energia è prodotta in loco e l’idroelettrico è molto programmabile, quindi non incide sulla gestione della rete: anzi, semmai la “aiuta”. Di conseguenza, per i territori interessati sarebbe probabilmente equo almeno dimezzare tale costo. Inoltre, il costo complessivo di tali oneri non dipende dal prezzo della fonte, quindi non dovrebbe variare se questo cambia con le dinamiche di mercato.

Valutiamo ora il costo effettivo della produzione. Il dato rilevato porta a una media di circa 5 centesimi di €/KWh (citiamo la fonte perché internazionale e autorevolissima). Tra imposte e tasse sui profitti, il fisco assorbe circa il 30% del totale (2,6+3,4 centesimi di euro) e Terna, proprietà indirettamente dello Stato e gestore della rete, un altro 28% (5,6 euro). Tolto il costo effettivo della produzione, ai concessionari/produttori rimane un utile del 40% [3,4/(5+3,4)]: un risultato veramente fantastico, per giunta con un rischio bassissimo, intrinseco nel business che è anche tecnologicamente molto maturo.

Il prezzo a 40 centesimi è quindi un inappropriato raddoppio rispetto alla “normalità” appena esaminata. Questa situazione verrebbe considerata un raro caso di “fallimento di mercato”; infatti, “lato domanda”, i consumatori sono obbligati a un consistente e indebito pagamento collettivo, mentre l’offerta ottiene un guadagno totalmente immeritato, perché ottenuto senza cambiamento o distinzione della capacità competitiva.

L’aspetto più tragicamente grottesco della questione dobbiamo però ancora descriverlo e riguarda l’incertezza che ha fermato le manutenzioni in tanti casi da oltre mezzo secolo. Per i bacini come per le autostrade! Quando, durante una camminata sui sentieri, osservate il centro dei laghetti sbarrati da dighe ripieni di residui, di alberi e rami, dovete pensare che per almeno 50 anni non si sono effettuati i dragaggi previsti dalle concessioni. Molte dighe con la siccità attuale a volte non contengono quasi più acqua: quindi tra poco diverranno “improduttive”, ma già ora non sono più in grado di svolgere funzioni di regolazione del flusso, utile per l’agricoltura o per la prevenzione di inondazioni. Situazioni analoghe se ne trovano molte, troppe, sopra la suola dello Stivale.

Ai territori montani rimangono il peso dei danni ambientali e gli svantaggi socioeconomici che hanno progressivamente spopolato le nostre valli, mentre ad altri vanno i benefici della disponibilità di energia elettrica. Su tutti grava lo stesso peso fiscale, pur beneficiando degli stessi servizi pagati con le tasse. I benefici economici della produzione di tutta la produzione idroelettrica vanno invece agli operatori, in grandissima maggioranza aziende di proprietà privata: sono pochi i casi di nostra conoscenza in cui la proprietà è prevalentemente o totalmente in mano a enti pubblici locali (anche se le municipalizzate si comportano come fossero ancora enti pubblici!).

Il governo attuale e gli operatori stanno armeggiando per rendere eterna questa situazione, sia attraverso il ddl Concorrenza sia rinviando a tempo indefinito la scadenza delle concessioni. Mantenere lo status quo aumenterà la protervia degli operatori nei confronti dei territori, delle amministrazioni locali, persino dei sindacati. Già ora questi soggetti si trovano a fronteggiare strapagati prìncipi del foro ogni rara volta che tentano di “alzare la cresta” e richiedere qualche minuscolo vantaggio per i propri abitanti. Dunque anche la meravigliosa capacità di trarre dall’acqua l’energia più pregiata che conosciamo senza nemmeno produrre emissioni nocive si è trasformata in un mezzo di sfruttamento indiscriminato dell’ambiente e della popolazione.

L’articolo L’idroelettrico avvantaggia solo le aziende, ma sfrutta l’ambiente e le popolazioni montane proviene da Il Fatto Quotidiano.

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