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A quattordici anni dal referendum tradito su nucleare e acqua pubblica

   Ritengo i referendum che non sono arrivati al quorum un punto di ripartenza difficile ma ineludibile dentro una crisi angosciante non solo della sinistra ma più complessivamente – per usare una parola adeguata al momento storico – dell’umanità,  esposta ad  appuntamenti determinanti, se non decisivi. 

Non è certo una nota che può inquadrare un tema così complesso, ma qui può bastare un aggiornamento per svelare un equivoco che i “vincitori” propugnatori della diserzione dal voto vanno accreditando. Secondo la loro vulgata siamo ad un “prendere o lasciare” sui temi del lavoro e della cittadinanza sulla base di chi non si è recato alle urne, dimenticando che oggi la compagine di governo esplicitamente tradisce la consultazione di quattordici anni addietro sul nucleare non certo inficiata – come accampano i detrattori – “dall’emotività” seguita al disastro di Fukushima.

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Sono passati 14 anni dal referendum tradito sul nucleare e l’acqua pubblica

Mi colpisce come dallo schieramento governativo si assuma l’esito dei referendum appena svolti come una definitiva sconfitta dei quesiti posti ed una conferma della loro inattualità solo perché sancita non da un dibattito franco sui contenuti, ma dalla indebita pressione esercitata per disertare le urne. Una prova – quest’ultima – più di debolezza che di capacità di stare in un confronto in campo aperto che segni una strategia su lavoro e cittadinanza come la Cgil ha proposto in auspicabile discontinuità con tutta la politica per i prossimi anni.

E che dire del tentativo di screditare lo strumento costituzionale di democrazia diretta, forse per avere mani libere sulle modifiche ai principi della nostra Carta?

Più nello specifico e in relazione alle continue improvvide incursioni del ministro dell’Ambiente che ripropone l’atomo nella transizione energetica da qui al 2050, si vuole forse suffragare e giustificare un comportamento contrario al rispetto del voto popolare di un altro referendum, questa volta ampiamente accreditato dal raggiungimento del quorum: quello cioè del 2011 che ha ribadito l’esclusione del nucleare dal territorio nazionale?

Avanzo qui alcune riflessioni al riguardo, proprio nell’anniversario di quel 13 giugno di 14 anni fa, segnato da una grande mobilitazione popolare, caratterizzata dalla centralità dei temi dell’acqua e dell’energia scossi anche dall’incidente catastrofico alla centrale di Fukushima qualche mese prima della prova elettorale. Un avviso chiaro quello del 2011 di come i beni comuni siano assai cari ai cittadini e meno ai governi, se si pensa alla scarsa considerazione mostrata verso l’acqua come risorsa pubblica e bene comune e all’improntitudine con cui il governo Meloni-Pichetto Fratin oggi parla un giorno sì ed uno no di ritorno del nucleare nel programma energetico del nostro Paese.

Si dirà: l’emotività aveva caratterizzato il voto dopo Fukushima. Un’emotività, si continua a riportare, oggi superata da rassicurazioni verificabili. Ma… non banalizziamo!

Non solo l’incidente giapponese è responsabile di oltre 65 morti con certezza e di un numero assai maggiore attribuito allo stress successivo o agli effetti di danni radiologici, ma rimane oggi una ferita non rimarginabile sul territorio e nel mare circostante. La società che gestisce l’impianto sta infatti trattando e rilasciando l’acqua contaminata nell’Oceano Pacifico (già 90.000 tonnellate tra 2023 e 2024), oltre a cercare di rimuovere detriti pericolosissimi di combustibile fuso (dentro i reattori permangono 880 tonnellate di materiale estremamente pericoloso, che presenta livelli di radiazioni così elevate da essere trattate solo con robot telecomandati).

Nonostante i tentativi di sminuire il rischio dalla tecnologia di fissione, rimane un ordine di grandezza dell’energia atomica incompatibile con la finestra energetica in cui si sviluppa la vita. Per di più, non ci possiamo sottrarre alle emergenze concomitanti di questa fase storica: clima, guerre e ingiustizia sociale devono far riflettere sulle ferite inferte alla natura anche da scelte politiche avventate e sulla conseguente impronta umana sulla Terra. Ce l’ha insegnato anche Francesco nella predicazione della Laudato Si’, lasciando un pegno che molti dei commentatori alla sua dipartita hanno magari provato a celebrare per poi comportarsi come se il suo messaggio non fosse arrivato al cuore delle emergenze prima citate. L’energia nucleare, anche su scala globale, non allontana certo le minacce che incombono su una tregua ed una giustizia disarmata tra gli uomini e verso la biosfera.

Nel richiamo al nucleare bandito dal referendum, come giustificare l’assoluta mancanza di novità di rilievo riguardo al rischio di incidente dei reattori e allo smaltimento delle scorie radioattive, se non con una improvvida ed arrogante infrazione del risultato di un atto di democrazia diretta raggirato dalle deleghe ad un Esecutivo che non transita mai dal Parlamento? Una infrazione che si manifesta anche questa volta con decreti legge reiterati nel tempo che anticipano risoluzioni che sono allo stato attuale impugnabili di diritto.

Come è possibile che governo italiano e industria francese siglino in questi giorni un accordo per il nucleare europeo in cui la Francia assume un ruolo guida nel rilancio del settore in Europa, in un contesto di rinnovato entusiasmo per l’energia atomica nell’Unione europea? Dove sta il mandato? In questo accordo sottoscritto a Bruxelles la Francia, come Paese più nuclearizzato del continente, è alla testa di un’alleanza crescente di Stati membri dell’Ue, tra cui l’Italia, che promuovono il nucleare come “mezzo per decarbonizzare la produzione elettrica”. In quella sede il governo ha annunciato l’intenzione di aderire all’alleanza nucleare in estensione avviando un iter legislativo per rilanciare la produzione nazionale.

Il nuovo contratto rappresenta una dichiarazione di intenti politica, assai impegnativa, secondo cui la potente industria nucleare francese dovrebbe svolgere un “ruolo guida” nei progetti di collaborazione europea, visti anche come opportunità per riempire il portafoglio ordini nazionale.

Come giustificare sul piano giuridico che siano stati presi impegni perché: “sotto l’impulso della Francia, questo ecosistema europeo possa costituire un blocco unito e coerente, se i mercati globali lo richiedono” e come accettare che “affinché si raggiunga questo obiettivo, diventi necessario avviare precocemente protocolli di cooperazione europea, al fine di proporre un’offerta di esportazione coerente e avanzata”? Naturalmente, “l’alleanza per il nucleare” ha immediatamente chiesto un accesso dell’energia atomica ai meccanismi di finanziamento europei. Quando poi l’accordo celebra i suoi fasti senza ritegno alcuno – testualmente: “Abbiamo bisogno di nuovo nucleare per inaugurare un’età dell’oro dell’energia pulita e abbondante: è l’unico modo per proteggere i bilanci delle famiglie, riprendere il controllo della nostra energia e affrontare la crisi climatica” – chi ha autorizzato il nostro governo a condividere questa prospettiva?

E i referendum traditi ed i ritardi sulle rinnovabili a chi imputarle se non a una classe dirigente priva di una valorizzazione di quell’esercizio della pedagogia politica che confida nei cittadini e si colloca in comunicazione con loro, non rinchiudendosi in quelle élite che, al riparo di un populismo mal dissimulato, non esibiscono un sufficiente riguardo della rappresentanza e delle sue regole di democrazie diretta e delegata.

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Il governo gestisce irresponsabilmente la transizione energetica: serve uno sguardo allarmato

Forse occorre uno sguardo allarmato sulla gestione della transizione energetica che il governo attuale gestisce irresponsabilmente, a dispetto dell’attenzione che meriterebbero i cittadini. La situazione è allarmante:

– il Pnrr è stato bocciato dalla Corte dei Conti Ue perché i programmi di spesa sono stati definiti incerti. Si avvicina la scadenza di giugno 2026 ed è sempre più chiaro che alcune misure non saranno attuate in tempo. Più che una revisione generale del Piano, servono modalità e strategie alternative, che permettano di salvaguardare gli obiettivi. Tuttavia, più passa il tempo e più gli spazi per una revisione complessiva si restringono, dati i tempi tecnici di realizzazione che una tale riformulazione richiede, difficilmente compatibili con le scadenze fissate dall’Ue. Per ragioni non solo settoriali, ma anche sistemiche, questo ritardo ostacola anche aspetti urgenti della riconversione ecologica, come emerge dalla riorganizzazione del polo carbonifero di Civitavecchia.

– Anche il Pniec italiano è stato bocciato dalla Ue perché sono insufficienti i programmi, soprattutto sulle rinnovabili, compresi i progetti di eolico offshore non alle viste, anche laddove già validati dalle popolazioni locali.

– Il presidente presso le commissioni Via-Vas e Pnrr-Pniec, Massimiliano Atelli, si è dimesso perché, a quanto ho potuto constatare personalmente, non ci sono risorse per pagare i componenti della commissione, con pagamenti fermi al 2023, comprese le relative trasferte. A nulla è valso denunciare le insufficienti dotazioni informatiche e le scarse risorse di personale amministrativo. Metà della commissione si è dimessa, l’altra metà è sopraffatta dalla mole di lavoro. L’approvazione dell’eolico di Civitavecchia è ferma anche per questo motivo.

– Il governo non riesce a nominare i presidenti delle Autorità portuali perché non trovano, tra FdI e Lega, l’accordo sui candidati. Il presidente della Commissione Trasporti della Camera, Salvatore Deidda (FdI), ha formalmente chiesto la sospensione delle votazioni in attesa che il governo trasmetta tutte le proposte di nomina, comprese quelle ancora bloccate da trattative politiche o in stallo nei rapporti con le Regioni. Anche la Commissione Trasporti del Senato ha adottato la stessa linea. Di conseguenza, paralisi nei porti italiani fino al 2026, con conseguenti impedimenti per il varo degli hub portuali per l’allestimento delle piattaforme galleggianti di pale eoliche al largo.

Secondo Terna e Mase, è necessario mantenere in servizio le due centrali sarde a carbone almeno fino a giugno 2026, anziché chiuderle, come previsto, a fine 2025. Mancano infatti all’appello centinaia di MW di accumuli contrattualizzati con il capacity market del 2024: finora ne sono effettivamente entrati in esercizio solo 110 su un totale di 506 MW.

Intanto l’Italia annuncia il suo ingresso nell’Alleanza nucleare europea. Il governo di Giorgia Meloni sembra sempre più intenzionato a reintrodurre in Italia la tecnologia del nucleare, che era stata bandita dopo i referendum del 1987 e 2011. Al Consiglio Energia del 16 giugno a Lussemburgo, il ministro italiano dell’Energia, Gilberto Pichetto Fratin, annuncerà che l’Italia aderirà all’Alleanza nucleare, lanciata dalla Francia per promuovere questa fonte di energia “a zero emissioni”. Dopo l’arrivo al potere di Meloni, l’Italia aveva deciso di partecipare all’Alleanza nucleare come paese osservatore. “C’è una scelta del governo in questa direzione”, ha detto Pichetto Fratin. E ha aggiunto con sbadata leggerezza: “L’Italia consuma 310 miliardi di chilowattora e la previsione è che già nel 2040 saremo a 600 miliardi. Da qualche parte, quindi, dobbiamo produrre l’energia se vogliamo rimanere un paese del gruppo di testa nel mondo, un paese ricco e che dà futuro ai nostri figli e nipoti”.

Non c’è dubbio che il governo stia mettendo in campo una strategia di dilazione dello sviluppo delle rinnovabili, così convenienti per la posizione geografica e l’autonomia energetica del Paese. Ma non sembra più questa la direzione di Pichetto Fratin e Meloni che nascondono un ulteriore ricorso al gas sotto il miraggio del nucleare. L’Italia si muove lungo una traiettoria sempre più interconnessa con gli Stati Uniti e il recente accordo bilaterale sul gas naturale liquefatto (Gnl), sostenuto da Giorgia Meloni e Donald Trump, si inserisce in una dinamica più ampia che travalica il piano energetico per toccare anche i settori della difesa, del commercio e dell’innovazione tecnologica.

Inoltre, il “piano di Azione 2025-2030 Italia-Argentina”, adottato a giugno dalla presidente del Consiglio e dal presidente argentino Javier Milei, impegna a favorire l’interazione tra le aziende argentine e italiane nello sfruttamento dello shale gas del bacino di Vaca Muerta. E che dire allora e in questo contesto della riconversione da carbone a rinnovabili a Civitavecchia, voluto da un progetto dal basso e forse anche per questo osteggiato dall’alto?

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