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EDUCAZIONE: UN IMPORTANTE STRUMENTO PER COMBATTERE IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

a cura di Mario Agostinelli

In questi giorni pesanti mi sono messo a tradurre e ricomporre un documento che trovo preziosissimo perché proviene dal sindacato internazionale, come una voce nel deserto che nessuna organizzazione nazionale del lavoro ha ripreso. Se ne avrete la voglia, potrete valutare come la sequenza illustri bene l’evoluzione storica malefica delle varie COP sul clima e muova una critica netta ai governi e al sistema del negazionismo climatico.

Credo che le indicazioni e le riflessioni che hanno l’autorevolezza di un documento prodotto dall’IE-EI* possano servire molto al nostro lavoro sia tra gli studenti sia nei confronti degli insegnanti e della formazione dei “disseminatori di didattica” quali ci siamo definiti. C’è qui una messe di informazioni sull’attività internazionale degli organismi UNESCO, ONU, UE, cui tutti potremmo accedere e sulla traccia di relazioni sociali che possono costruirsi a partire dal mondo del lavoro, del sindacato degli insegnanti, della ricerca, dell’Università fino alle scuole popolari: tutti, a quel che so, spaventati dalle arroganze spudorate della Lagarde, ma totalmente ignari di una presa di posizione così autorevole assunta per nome di milioni di lavoratrici e lavoratori.

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Education International è una Federazione dell’Unione Globale che rappresenta organizzazioni di insegnanti e altri dipendenti dell’istruzione. È la più grande e rappresentativa organizzazione settoriale mondiale dei sindacati con oltre 32 milioni di membri sindacali in 391 organizzazioni in 179 paesi e territori. Education International collabora con altre Federazioni sindacali globali e altre organizzazioni amichevoli per promuovere e raggiungere la solidarietà.


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Petrolio, carbone e gas salveranno il lavoro?

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi 2015. Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni fa, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l’incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo. Vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve che, secondo l’Ipcc, non può andare oltre i prossimi 15 anni.

Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni – senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Donald Trump Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali a essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella Laudato Si’ e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma (mi auguro) già capace di segnali al prossimo congresso Cgil. L’accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare la strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (Tav) o lungo un litorale marino (Tap) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all’eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine “giusta transizione”, che non può che basarsi su un’attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5°C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. È d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati a una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone, petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice un’ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione Ue è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all’Ue. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Val di Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

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I RISULTATI (POCHI) DELLA COP 24 A KATOWICE

di Roberto Meregalli  

I leader mondiali erano arrivati ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi e rispondere all’emergenza climatica. Ci sono volute due settimane, un paio di notti in bianco e un tempo supplementare di 24 ore, per trovare un compromesso fra le 198 nazioni riunite in Polonia per la 24esima Conferenza dell’Onu sul clima. La COP24 non è dunque fallita, perché il documento finale di Katowice, benché generico, consente al processo avviato con l’Accordo di Parigi nel 2015 di andare avanti e diventare esecutivo fra due anni. Questo era l’obbiettivo dichiarato di questa Conferenza, stabilito nel 2015 a Parigi: definire un insieme di linee guida (il “rulebook”), per permettere di rendere pienamente operativo l’Accordo e valutare i progressi svolti in questa direzione dai diversi paesi.

Le premesse quindi erano per una COP tecnica, senza capi di stato a fare roboanti annunci. (v. I progressi del Katowice Climate Package

Un risultato quindi soddisfacente? Mah! Commentando il risultato del Vertice di Parigi del 2015 il noto giornalista del Guardian, George Monbiot, scrisse che «Rispetto a quello che avrebbe potuto essere, è un miracolo. Rispetto a quello che avrebbe dovuto essere, è un disastro». E come giudizio potrebbe valere anche per Katowice, perché guardando a come le negoziazioni si sono svolte nelle ultime due settimane: lo stallo politico e tecnico che si è presentato su varie tematiche, in certi momenti pareva impossibile raggiungere un accordo. Invece alla fine questo Rulebook ossia il set di norme tecniche che stabilisce come misurare le emissioni di gas serra di ciascun Paese e come monitorare e comunicare le riduzioni, è stato approvato; un set che varrà indistintamente per tutti, ricchi e poveri, ma con una certa flessibilità: se un paese in via di sviluppo non pensa di riuscire a raggiungere gli standard richiesti lo potrà dichiarare e chiedere un sostegno per aumentare le sue capacità tecniche in quella direzione.

Per quanto concerne la dibattuta inclusione del Rapporto dell’IPCC sulle conseguenze di un innalzamento della temperatura sopra l’1.5°C,  è stato raggiunto un compromesso: se durante i lavori dell’Organo Sussisidiario di Consulenza Scientifica e Tecnologica (SBSTA) i negoziatori avevano incluso un semplice richiamo a considerare i risultati del rapporto, ora il testo del Rulebook richiede agli specialisti del SBSTA di riconsiderare il rapporto durante la loro prossima sessione negoziale prevista per giugno 2019.

Ma le note positive si chiudono qui e proprio di fronte al monito posto dal Rapporto IPPC è impossibile non scrivere che Katowice è stato un fallimento poiché non si è concordato di apportare alcun miglioramento agli impegni sinora presi da ciascun Paese, i Contributi Nazionali Volontari (NDCs). Quelli finora presentati, non riusciranno a soddisfare l’obiettivo generale dell’Accordo di Parigi, e anche se raggiunti (cosa per nulla scontata) porteranno ad un aumento del riscaldamento globale al di sopra dei 3° C.

Insomma questa COP è stato un test sul multilateralismo climatico, che i paesi hanno superato per il rotto della cuffia: non sono stato bocciati ma più che una promozione è un rinvio a settembre. E questo è un elemento costante di tutte le COP che con enorme fatica ogni anno fanno passi in avanti sì, ma a una velocità inadeguata alle necessità di un clima che cambia senza aspettare i tempi della politica.

Analizzando le posizioni dei Paesi presenti va notato che una quarantina di Paesi avevano puntato ad un risultato più ambizioso: l’Unione Europea con Canada e molti paesi in va di sviluppo hanno sostenuto i risultati dell’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc).  Sul fronte opposto i cosiddetti “fossili”, una coalizione formata da Usa, Arabia Saudita, Russia e Kuwait. Maglia nera al Brasile, che ha rinunciato ad ospitare la prossima COP25 – che si farà in Cile – e ha bloccato la chiusura dei negoziati all’ultimo minuto rivendicando i vecchi (e poco trasparenti) «crediti in CO2» ereditati dal precedente protocollo di Kyoto per la presenza della foresta amazzonica sul suo territorio.

E il nostro Paese come si è comportato? L’Italia si è schierata con l’UE nel gruppo dei paesi ambiziosi e il ministro dell’ambiente Sergio Costa ha annunciato l’impegno italiano di chiudere tutte le centrali elettriche a carbone entro sette anni. Ma Occorrerà passare dalle parole ai fatti perché nei primi nove mesi di attività il nuovo governo non ha attuato alcuna riforma per decarbonizzare il sistema energetico. L’attuale strategia energetica nazionale (Sen) pone come obiettivo di lungo periodo una riduzione di solo il 63 per cento delle emissioni entro il 2050, a fronte dell’impegno del ministro Costa di arrivare a zero emissioni nette entro quella data. La Sen continua a far affidamento all’utilizzo e all’espansione delle infrastrutture a gas per raggiungere tale l’obiettivo, mentre la generazione da carbone può invece essere sostituita interamente da rinnovabili e da un ruolo maggiore delle interconnessioni elettriche. Le quali, insieme alle risorse di flessibilità, garantirebbero la stessa sicurezza a costi inferiori del gas.

In sintesi, di fronte al risultato della COP24 non si può che prendere atto per l’ennesima volta che i ritmi del multilateralismo sono totalmente inadeguati all’emergenza climatica. E non potrebbe essere diversamente perché il vero problema è che a livello sociale manca un vero supporto ad attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Purtroppo, e lo dimostra anche il recente dibattito italiano sulla possibile tassazione delle auto inquinanti per sostenere incentivi per auto a basse emissioni, le misure ambientali sono considerate penalizzanti per l’economia e per le fasce meno abbienti. Manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella “Laudato sì” che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”. La sfida per la sopravvivenza umana su un questo pianeta passa per un’equazione che tenga insieme ambiente, diseguaglianze ed economia, comprendendo che il problema è unico e comprende anche quello dell’emigrazione.

Per questo il vero testo faro per disegnare il nostro futuro non è l’Accordo di Parigi ma l’enciclica di papa Francesco.

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