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Trump, i dazi imposti alla Cina hanno a che fare con la vendita di Shale gas

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Donald Trump ci sta abituando a isolare singoli prodotti dell’ampio spettro commerciale per giustificare ritorsioni laddove i prodotti fatti in casa subiscono una più aspra concorrenza. Da questo punto di vista i pericoli non vanno sottovalutati, perché tra sanzioni, ritorsioni, dazi, il mondo si prepara a conflitti via via più insanabili e tutti a spese dei Paesi più indigenti.

Nell’ultimo post ho voluto ricondurre l’attenzione al gas e al petrolio, tradizionali “dominus” di tutte le guerre virtuali, commerciali e – soprattutto – autentiche dei secoli industriali. Ora vorrei mettere in luce come tutti gli scambi energetici smussati sotto Barack Obama siano diventati fonte di grande tensione sotto Trump.

Secondo il segretario al Commercio degli Stati Uniti Wilbur Ross, il gas naturale liquefatto (Lng o Gnl) sarebbe una delle soluzioni per ridurre il deficit commerciale della Cina con gli Stati Uniti. Infatti, in un’intervista con Bloomberg TV, Ross ha suggerito che la Cina potrebbe deviare i suoi acquisti di Gnl verso gli Stati Uniti al fine di non solo diversificare le sue fonti di Lng ma anche ridurre il deficit, che ha raggiunto 375 miliardi di dollari l’anno scorso.

Quanto Lng potrebbe davvero e in effetti contribuire a risolvere il problema e quanto non entrerà nella trattativa sulla riduzione dei dazi e dell’acciaio asiatico? Facciamo qualche conto.

Quest’anno la Cina consumerà 44 milioni di tonnellate (MMt) di Gnl, il doppio della capacità di esportazione degli Usa verso tutti i Paesi (che è di 22 MMt). Se la Cina acquistasse per intero il gas americano, ciò rappresenterebbe 6,7 miliardi di dollari di entrate (ipotizzando un prezzo Lng di 3$ + 115% di Henry Hub, che è il prezzo attualmente utilizzato dagli Lng degli Stati Uniti). In base a questa quantità proposta il deficit si ridurrebbe al 2%.

Si noti che Henry Hub è un hub di distribuzione sul sistema di gasdotti a Erath, in Louisiana, di proprietà di Sabine Pipe Line Llc, una controllata di En Link Midstream Partners Lp che ha acquistato il bene da Chevron Corporation nel 2014. A dimostrazione del ruolo principale di esportatore di gas degli Stati Uniti, per la sua importanza Henry Hub presta il suo nome al punto di prezzo per i contratti future sul gas naturale.

Bloomberg New Energy Finance prevede che le importazioni di Gnl della Cina cresceranno fino a 82 milioni di tonnellate entro il 2030. Se tutto questo venisse acquistato dagli Stati Uniti, potrebbe contribuire con 27,7 miliardi di dollari al risanamento della bilancia commerciale degli Stati Uniti.

Naturalmente, questo ignora che la Cina (e gli Stati Uniti) hanno impegni che sarebbero difficili da rompere con la maggior parte del loro partner. Gli Stati Uniti hanno già venduto 13 milioni di tonnellate delle esportazioni del 2018 e la Cina ha contratto 42 milioni di tonnellate di importazioni da diversi produttori. Ciò lascia 2MM di volume di esportazione di riserva, all’incirca uguale alla quantità che gli Stati Uniti hanno esportato in Cina nel 2017 e che vale 613 milioni di dollari.

Allo stesso modo, solo il 40% delle importazioni cinesi del 2030 non è sotto contratto. Se la Cina avesse acquistato tale volume da una produzione degli Stati Uniti a prezzo ribassato, ciò comporterebbe un ricavo di $ 13,5 miliardi. Le cose, come si vede, sono assai complicate e sono regolate da rapporti di potere, di dipendenza, di facilities sul mercato.

Quindi le spedizioni di Gnl possono risolvere il deficit commerciale tra Cina e Stati Uniti? No. Potrebbero aiutare? Sì. Aumenteranno? Probabilmente. Gli esportatori statunitensi stanno già sollecitando gli acquirenti cinesi e la Cina sta cercando di diversificare le importazioni dall’Australia e dal Qatar, i suoi attuali fornitori primari. Proprio il mese scorso, PetroChina ha firmato il primo contratto di Lng a lungo termine della Cina per il gas degli Stati Uniti con Cheniere Energy. Questa tendenza continuerà probabilmente con l’espandersi del mercato degli Gnl negli Stati Uniti.

Importazioni di GNL della Cina, per fornitore

Fonte: Bloomberg New Energy Finance. Ufficio nazionale di statistica, dogana cinese. Queste sono le previsioni, che influenzeranno anche i dazi sul metallo che viaggia all’inverso dai mari della Cina

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Shale gas: dalla rivoluzione ai necrologi

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015“Nonostante tutta la propaganda di petrolieri, investitori, banche e politici lo shale gas non sarà la soluzione di nessuno dei nostri problemi energetici o occupazionali”. Lo affermava nel suo blog Maria Rita D’Orsogna più di un anno fa e io stesso sono più volte intervenuto su questo blog per sfatarne le virtù salvifiche, che ogni ad che si rispetti delle corporation energetiche italiane andava proclamando in tutti i convegni in cui si auspicava un approdo delle tecniche da scisto in Europa.

Interi dossier sono stati curati per disegnare il primato che gli Usa avrebbero conservato a lungo nel settore dell’energia, stroncando sul campo Russi, Arabi, Iraniani e l’Opec tutta. Invece due fattori – uno di natura geopolitica (l’abbassamento del prezzo del petrolio da parte dell’Arabia saudita) e l’altro di natura locale (la crescente opposizione dei movimenti locali negli Usa) – hanno capovolto le previsioni. Sono in atto opposizioni per ragioni ambientali in più parti del mondo,dalla California, al Sussex, in Bulgaria, in Algeria, nel Queensland.

Sara Stefanini e KalinaOroschakoff in un recente articolo sulla rivista Politico hanno documentato le difficoltà enormi che il metodo di fratturazione idraulica sta incontrando in Europa ancor prima di essere sperimentato su larga scala. Il film Gasland ha aperto gli occhi a molti attivisti, dando luogo a proteste organizzate per impedire l’inizio delle perforazioni. Una previsione dell’Us Energy Information Administration valutava in 18 miliardi di metri cubi il gas recuperabile in Europa, in particolare in Polonia, con il 29%, e in Francia, con il 28%. Ma in Polonia, ConocoPhillips è ormai l’ultima compagnia internazionale che ha lasciato le prospezioni e nel Regno Unito un consiglio locale di contea ha bloccato in questi mesi un progetto sostenuto a forza dal governo inglese.

Molte cose in Europa hanno preso una brutta piega per lo shale. La Russia con una campagna di informazione si è impegnata attivamente con le organizzazioni non governative e le organizzazioni ambientaliste con il doppio scopo di frenare l’espansione della tecnica e mantenere la dipendenza europea dal gas importato attraverso i gasdotti. Le preoccupazioni locali sui processi, il rumore, l’inquinamento delle acque e i terremoti, hanno preso il sopravvento, uscendo dall’irrazionalità e creando una vastissima documentazione scientifica sui danni e rischi del fracking e mettendo a nudo l’imprevidenza delle autorità nazionali, concentrate sull’energia potenziale e i benefici economici, ma non sugli effetti ambientali.

L’incertezza normativa ha fatto la sua parte: nessun Paese nel continente ha la stessa normativa e le raccomandazioni della Commissione europea per gestire i potenziali rischi ambientali non sono vincolanti e aprono la porta a varie interpretazioni. Così Bulgaria e Francia hanno vietato il fracking, mentre la Germania si interroga su quali regole stabiliscano standard ambientali difficilmente garantibili. Inoltre, non tutte le rocce di scisto sono le stesse e la geologia sul posto smentisce le previsioni di abbondanza: Conoco, Chevron ed Eni tutto abbandonato le loro licenze di esplorazione in Polonia dopo non essere riuscite a trovare quantità commerciali di gas.

Anche i costi si stanno rilevando poco attraenti. Le economie di scala devono ancora entrare in vigore in Europa. Negli Stati Uniti, la perforazione costa da 3 a10 milioni di dollari per pozzo. In Polonia, i 70 pozzi trivellati finora hanno un costo da 15 a 28 milioni di $ ciascuno. Ciò significa che i produttori di scisto avrebbero bisogno di un prezzo del gas ancora più elevato (circa il doppio di quello convenzionale) per giustificare il loro investimento. Infine, mentre negli Usa i proprietari terrieri hanno guadagnato molto dalle “royalties di scisto”, nella maggior parte dei paesi europei le licenze per un pozzo sono poco remunerate.

In conclusione, lo shale gas non è una priorità nemmeno per l’industria europea. E questa è una buona notizia, non solo per gli ambientalisti, ma per chi non vuole pagare con la distruzione della natura e con l’irreversibilità del cambiamento climatico uno sviluppo dissennato e una ricerca di competitività a tutti i costi, che portano alla dissoluzione dei legami di solidarietà tra i popoli e verso le future generazioni.

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Se è il clima a preoccupare le imprese

di Mario Agostinelli

Le 35 pagine del sommario per i decisori politici del Quinto Rapporto Ipcc confermano, ancora una volta, la solidità della scienza del clima e l’ampiezza delle variazioni del clima del pianeta già avvenute e attese per i prossimi decenni. Mentre i governi continuano ad eludere la raccomandazione di adottare un bilancio globale delle emissioni di Co2 per tenere l’aumento di temperatura al di sotto di 2°C, molto si sta muovendo nel campo delle imprese.

Al di là del tributo umano ed ecologico, condizioni meteorologiche estreme comportano enormi costi economici. Peter Thorne, coordinatore Ipcc, afferma che la competitività delle imprese in Europa sarebbe gravemente colpita: “Le aziende dovranno guidare la carica, se vorranno rimanere a galla”. Nel mondo industriale e nel settore alimentare, si sta diffondendo un allarme per la portata dei rischi di un cambiamento climatico non gestito. Come riporta Qualenergiaun sondaggio condotto nel corso del 2012 dal Carbon Disclosure Project su 405 aziende tra le più grandi al mondo, conclude che il 37% di queste (erano appena il 10% nel 2010) vede già l’impatto dei cambiamenti climatici sul proprio business, mentre l’81% percepisce un rischio materiale.

Nel caso delle imprese energetiche la questione è ormai urgente. È di 531.000 miliardi di tonnellate il bilancio della Co2 già immessa. L’industria dei combustibili fossili ha quasi 3.000 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio immagazzinati nelle riserve conosciute di carbone, gas e petrolio: troppi per non superare 2°C. Ciò significa che molti combustibili fossili non potranno mai venire estratti. Queste aziende possono quindi valere molto meno di quello che stanno affermando, perché le “riserve” che hanno comprato in concessione non potranno mai essere bruciate. Gli investitori negli Stati Uniti e in tutto il mondo hanno già invitato le 40 maggiori aziende di combustibili fossili (Eni tra di esse) a valutare l’effettiva consistenza delle loro attività, se non sono in grado di utilizzare i loro beni, in gran parte “virtuali”.

L’industria automobilistica localizza i nuovi impianti solo in zone rigorosamente esenti da catastrofi ambientali e compete principalmente sulla riduzione delle emissioni dei veicoli. Per i produttori di abbigliamento e calzaturecome denunciano North Face, Timberland, Reef e Nautica, il cambiamento climatico rappresenta una minaccia molto reale. In particolare, i grandi acquirenti di cotone, non hanno garanzie di prezzi per una merce che può risentire di condizioni meteorologiche estreme, della diffusione dei parassiti e della scarsità d’acqua. La stagione sciisticaè mediamente ridotta di due settimane a causa del riscaldamento globale, che si traduce in un minor numero di sciatori e quindi un minor numero di persone che comprano abbigliamento invernale.

C’è poi una profonda preoccupazione nel settore assicurativo – lo affermano i Lloyd’s – dato che le perdite globali a causa di catastrofi ambientali sono in aumento. Solo negli stati Uniti, mentre la perdita annuale nel 1980 è stato di circa 10 milioni di dollari, negli ultimi anni la perdita è balzata a 50 milioni.

L’industria alimentare cerca di correre ai ripari e si schiera con l’Ipcc. La New Belgium Brewing Co., la terza più grande società di produzione di birra artigianale negli Usa, denuncia il pericolo della vulnerabilità al clima della sua catena di fornitura (orzo, luppolo e acqua). Starbucks si sta preparando alla possibilità di una grave minaccia per le forniture mondiali per il suo più prestigioso anello della catena (il chicco di caffè Arabica).

Secondo alcune tra le maggiori imprese ittiche europee (AG Seafood, Eismar, Norge) l’aumento della temperatura, l’acidificazione degli oceani e la carenza di ossigeno, che cresce con la temperatura, stanno producendo zone morte e modifiche negli ecosistemi oceanici, segnalati visibilmente dall’aumento delle popolazioni di meduse. Nell’Atlantico si stanno trovando sempre meno specie settentrionali e più specie meridionali, come l’ombrina atlantica, ormai diffusa sui banchi dei nostri supermercati. Il pesce spada si è spostato di 2000 Km a nord in Cile e l’hanno seguito con enormi disagi le colonie di pescatori siciliani emigrati.

Nel complesso, si tratta di un disastro che rischia di mettere in ginocchio l’industria della pescalocale. L’impatto si fa sentire anche sulla pesca d’allevamento. Circa il 65% dell’acquacoltura è in acque interne ed è concentrata per lo più nelle regioni tropicali e sub-tropicali dell’Asia, spesso nei delta dei grandi fiumi. L’innalzamento del livello del mare previsto per i prossimi decenni incrementerà la salinità dei fiumi, ripercuotendosi mortalmente sugli allevamenti ittici.

Insomma siamo al cortocircuito tra produzione, consumo e stili di vita con una unica via d’uscita: andare alla radice dei problemi, occuparsi del clima.

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La guerra dello shale gas

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano – 24 giugno 2013

Le nuove tecnologie di estrazione e di impiego dei fossili incontrano crescenti resistenze e sollevano obiezioni prima ancora del loro impiego massiccio. Vale per le perforazioni e per lo spappolamento delle rocce per ottenere gas di scisto e per le ipotesi di sequestro della CO2 a valle della combustione del carbone. Essendo tuttora imprecisato l’impatto ambientale di questi processi ad alta entropia – anche se è fuor di dubbio che l’analisi del ciclo di vita di filiere così complesse ne metta in discussione la praticabilità – è un atteggiamento culturale e politicoquello che fa propendere per la loro affermazione o il loro rifiuto.

Così, nel caso dello shale gas, la prospettiva di una futura indipendenza energetica e l’indebita tolleranza per l’esternalizzazione dei costi ambientali, fa assumere al governo americano una posizione di assoluto sostegno, mentre porta la Commissione europea a tergiversare sulle prospettive di fracking nel vecchio continente. C’è perfino un fondo culturale nella diversità di approccio: in Europa il principio di precauzione vincola a considerare preventivamente gli effetti sulla vita e l’ambiente dell’introduzione di nuove tecnologie e a non ridurre la discussione sui possibilivantaggi agli artifici finanziari e di dumping valutario che possono favorire un abbassamento dei prezzi sul mercato, a discapito della salute o della sopravvivenza stessa.

È in atto un autentico assalto delle lobby americane, appoggiate in particolare dalla Polonia e, meno esplicitamente, dall’Inghilterra, per far entrare nell’agenda politica europea i combustibili fossili non convenzionali. Si è svolta una consultazione pubblica, i cui risultati sono stati presentati dalla Direzione ambiente della Commissione il 7 giugno, che ha potuto dimostrare come oltre il 60% degli intervistati è contrario allo sviluppo di shale gas in Europa. La grande maggioranza delle risposte concorda sulla mancanza di una legislazione adeguata, il bisogno di informazione del pubblico e la mancanza di accettazione popolare di un rilancio di combustibili fossili.

Nonostante l’opposizione della cittadinanza, i media anche nel nostro Paese propongono l’ipotesi di un vantaggio sulla bolletta elettrica (è quello che in maniera poco trasparente il ministro Zanonato ha assicurato per i costi dell’energia, facendo intendere che, mentre le rinnovabili pesano sulle tariffe al consumatore finale, tutti beneficeranno della riduzione presunta del prezzo del gas comprato sulla piazza olandese).

Numerose analisi dei potenziali effetti del gas da scisto sulla convenienza all’acquisto sono molto caute e arrivano a valutare, secondo uno studio dell’Agenzia internazionale per l’energia, che icosti di produzione in Europa siano due volte superiori a quelli degli Stati Uniti, anche perché ci sono importanti differenze geologiche e geografiche, oltre ad una maggiore densità di popolazione.

In queste settimane ha fatto molto scalpore un documento di esperti tedeschi che definiscono il fracking inutile e rischioso, dubitando che lo sviluppo di shale gas sia economicamente redditizio e utile per la transizione energetica del loro Paese, derivante dalla decisione di chiudere tutti i reattori nucleari entro il 2022. Essi, in particolare, mettono in discussione la tecnologia stessa e chiedono un procedimento europeo per la valutazione dell’impatto ambientale.

Secondo loro, il fracking dovrebbe limitarsi a essere utilizzato in progetti pilota, con una valutazione obbligatoria dei suoi effetti ambientali e con “stretto monitoraggio scientifico”. Questi tipi di progetti dimostrativi dovrebbero essere pianificati e attuati in modo trasparente, coinvolgendo il pubblico e in conformità con il principio “chi inquina paga”. I costi derivanti, poi, dovrebbero essere a carico del settore di estrazione Questi esperti concludono che, poiché non vi è ancora alcuna analisi completa del ciclo di vita, è incerta perfino la questione se lo shale gas  abbia un’impronta di carbonio inferiore a quella del carbone. Tenendo conto di tutti i requisiti di sicurezza necessari, il potenziale di shale gas sfruttabili in Germania, in Italia e in Francia è così piccolo che non avrebbe alcun impatto sui prezzi energetici regionali. Allora perché farne il perno delle future strategie energetiche, compresa la nostra SEN, sottratta al dibattito pubblico e infilata sotto il tappeto delle “larghe intese”?

Gli Stati Uniti sono esplicitamente per l’estrazione di gas di scisto su larga scala. E ne sostengono l’espansione come un tratto della loro egemonia negli anni futuri. Tuttavia, non è certo per quanto tempo continueranno a farlo, anche perché è del tutto possibile che assistiamo già ora ad una bolla che potrebbe scoppiare in pochi anni. Qual è la nostra convenienza? E quale conseguenza sull’accelerazione del cambiamento climatico? Perché non discuterne? In questo Paese dov’è la classe dirigente e perché spetta sempre e solo ai movimenti preoccuparsi responsabilmente del futuro?

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Per un modello energetico sostenibile e distribuito, per un mondo senza nucleare.

UN NUOVO MODELLO ENERGETICO PER IL LAVORO, LA  RICERCA, LA SALVAGUARDIA DEL CLIMA, A DUE ANNI DALLA VITTORIA AL REFERENDUM CONTRO IL NUCLEARE

Presentazione dell’Appello unitario di esponenti del  mondo scientifico, del  lavoro,  dell’ambientalismo, della società civile.

Si terrà lunedì 24 giugno, alle ore 11.30, presso l’auletta del CIRPS, piazza S. Pietro in Vincoli 10, a Roma, una conferenza stampa convocata dal comitato “Si alle energie rinnovabili NO al nucleare”, nella quale sarà presentato l’appello “Per un modello energetico sostenibile e distribuito, per un mondo senza nucleare”.

 

Nel testo, che registra una non scontata, ma promettentissima alleanza fra esponenti del mondo scientifico, del mondo del lavoro,  dell’ambientalismo e della militanza sociale, si disegna un futuro energetico di fuoriuscita dai fossili, con un realistico approccio alla riconversione ecologica dell’economia e un richiamo al protagonismo sociale che è indispensabile per continuare a seguire un cammino democratico, conseguente  all’espressione della maggioranza degli italiani chiamati alle urne solo due anni fa'”.

 

Per un modello energetico sostenibile e distribuito,

per un mondo senza nucleare.

L’appello si colloca in una fase decisiva per le politiche energetiche e industriali, per l’attività di ricerca, per contrastare il cambiamento climatico. Il governo Monti ha proposto, a “tempo scaduto”, una Strategia Energetica Nazionale (SEN), che è stata per il momento assunta anche dal governo Letta, che, in definitiva,  rispecchia gli interessi dell’ENI e dell’Enel e dei finanziatori delle infrastrutture (gasdotti, depositi etc.), dà il via libera alle trivellazioni per il petrolio, e promuove il carbone come alimentazione delle centrali termoelettriche”. Al contrario, l’appello, in sintonia con le scelte europee, traccia il percorso di effettiva riduzione delle emissioni climalteranti; quindi prevede  l’alt al carbone, alle trivellazioni per il petrolio e alla proliferazione di rigassificatori e depositi del gas; un immediato impulso al risparmio, il decentramento degli impianti a fonti  rinnovabili, un piano per la ricerca nei settori energetici più avanzati, un piano industriale per l’attuazione della road map UE al 2030, in raccordo con i Piani energetici delle Regioni delle città, dei consorzi dei comuni.

 

Firme prestigiose sostengono l’appello e danno credito ad  un movimento articolato che veda protagonisti lavoratori, cittadini, movimenti e associazioni, e investendo tutti gli ambiti della produzione, del consumo, della organizzazione delle città, degli stili di vita collettivi e individuali”.

La crisi economica globale originata dal crollo finanziario del 2008, coi devastanti effetti occupazionali e sociali purtroppo ben noti nel nostro Paese, si è andata a sovrapporre alla crisi globale dell’ambiente, che ha nel cambiamento del clima il suo più attuale e drammatico riferimento.

Il coincidere di queste crisi avrebbe dovuto rimettere in discussione dalle fondamenta il modello di sviluppo, dal quale entrambe sono state generate, per muoversi con determinazione verso una tante volte evocata riconversione ecologica dell’economia e della società, attraverso una transizione difficile ma possibile.

In questa direzione si è espressa la maggioranza degli italiani solo due anni fa. Con la vittoria dei referendum sull’acqua pubblica e contro il nucleare, si è aperta una prospettiva che va anche oltre l’importanza indiscutibile delle due questioni, ancora aperte nella traduzione della volontà popolare in atti e leggi definitive: si è posto il problema della salvaguardia di alcuni “beni comuni” e “nuovi diritti”, che non possono essere governati solo dalle logiche del mercato.

Oggi questa battaglia deve continuare: analogamente alla ripubblicizzazione dell’acqua, che sta proseguendo con un articolato movimento dal basso, è necessario farla definitivamente finita col nucleare, in Italia e in Europa, anche introducendo una gestione trasparente e sicura (ad oggi non garantita dalla società deputata, Sogin) delle scorie, degli impianti e di quanto resta del ciclo nucleare.

Tuttavia non possiamo limitarci solo a questi importanti temi. Iniziative molto più corpose e propositive devono essere intraprese per effettuare il passaggio ad un nuovo modello di sviluppo. Parte significativa della transizione sarebbe compiuta se si imboccasse con decisione la strada dell’economia dei beni durevoli e sostenibili, in particolare nel settore energetico. L’attuale modo di produrre e consumare energia, con oltre l’80% di ricorso ai combustibili fossili su scala mondiale, è il massimo responsabile dell’incremento delle emissioni di CO2 e della sua concentrazione in atmosfera, alla base, appunto, dello sconvolgimento climatico.

Proprio per far fronte a questa situazione, che la rivista Nature denunciava nel 2012 come: “non è stata mai così grave”, la UE, dopo la convenzione di Aarhus, sui diritti alla giustizia ambientale, lanciò nel 2007 la strategia dei tre 20% al 2020, obiettivi vincolanti per i Paesi aderenti. Oggi in Europa, le road map e gli scenari in discussione vanno oltre le politiche del pacchetto “20 – 20 – 20” e chiedono obiettivi vincolanti al 2030 sulle emissioni di gas serra e sull’ energia: il taglio del 55% delle emissioni, rispetto al 1990; il contributo delle fonti rinnovabili al 45%; ulteriori misure di efficienza energetica per contenere la crescita dei consumi puntando alla completa “decarbonizzazione”, almeno della produzione elettrica, al 2050.

Dopo i referendum, non sentendosela di riproporre per la terza volta il nucleare, il governo Monti ha proposto, per di più a “tempo scaduto”, una Strategia Energetica Nazionale (SEN), che è stata per il momento assunta anche dal governo Letta. Ancora una volta, come in tutti i Piani Energetici Nazionali che si succedettero nel secolo scorso, la SEN rispecchia gli interessi aziendali dell’ENI e dell’Enel e dei finanziatori delle infrastrutture (gasdotti, depositi etc.), rispettivamente con il via libera alle trivellazioni per il petrolio, anche offshore, con la progettazione di facilities per il gas e con la promozione del carbone come alimentazione delle centrali termoelettriche. I colossali interessi di grandi gruppi prevalgono su quelli del Paese, dell’ambiente e della salute dei cittadini.

La proposta che la SEN fa poi dell’Italia come “hub” europeo del gas, non ha alcun assenso in sede UE – ogni Paese avendo una sua politica energetica raccordata solo parzialmente con gli altri –, e rivela la sua totale inconsistenza a fronte del nuovo ruolo che gli Stati Uniti stanno esplicitamente assumendo come leader mondiale per il gas, ottenuto nel loro sottosuolo tramite nuove tecnologie, soprattutto il “fracking”.

Ancora, in accoglimento delle lamentele, soprattutto degli operatori elettrici di Assoelettrica, per la competizione finalmente aperta nel settore elettrico dalle fonti rinnovabili, la SEN, col compiacente concorso dell’AEEG, ignora la gradualità con la quale vanno ridotti, sicuramente, gli incentivi (e sconfitte le speculazioni), deprimendo così gravemente uno dei pochi settori a forte sviluppo. L’Italia nel 2011 era stata la massima installatrice mondiale di Fotovoltaico, oggi, con la fine degli incentivi del V conto energia, servono misure regolamentari certe per mantenere lo sviluppo della filiera delle fonti rinnovabili .

È evidente che la SEN non è assolutamente in grado di far sì che l’Italia rispetti gli obiettivi europei del “20 – 20 – 20”.  Chiediamo quindi che il Governo Letta non dia corso a questa SEN e che invece vari una strategia energetica di transizione, che in sintonia con le scelte europee, sostenga:

•alt al carbone e alle trivellazioni per il petrolio,

•no alla proliferazione di rigassificatori e depositi del gas,

•un piano per la ricerca, a partire da quella pubblica, nei settori energetici più avanzati,

•un piano industriale realistico per l’attuazione dei tre 20% e degli obiettivi della road map UE al 2030 in raccordo con i Piani energetici di cui, almeno alcune Regioni si sono già da tempo dotate e con una capacità di coordinamento dei PAES comunali.

È assolutamente necessario aprire un confronto fra le parti sociali per avviare una riconversione ecologica in tutti i settori produttivi, partendo anche dagli obiettivi di efficienza proposti già due anni fa dalla Confindustria e dalle tre Confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL. Sarà questo il miglior punto di partenza per dare occupazione “pulita e rinnovabile”, soprattutto ai giovani, e contemporaneamente fornire il contributo del nostro Paese alla lotta ai cambiamenti climatici.

Uscire completamente e con sicurezza dal nucleare, contribuire al controllo del clima, costruire un modello sostenibile, decentrato e democratico, è possibile se un movimento articolato si consolida dal basso, coinvolge lavoratori, cittadini, movimenti e associazioni, e investe tutti gli ambiti della produzione, del consumo, della organizzazione delle città, degli stili di vita collettivi e individuali.

Ognuno di noi, nell’ambito del proprio ruolo, s’impegna a sostenere lo sviluppo di questo movimento.

Primi firmatari:

Agostinelli Mario (Energiafelice)

Andrea Baranes (Banca Etica)

Vittorio Bardi  (Si Fer No Nuke)

Marco Bersani (Attac)

Roberto Biorcio (Univ. Milano)

Raffaella Bolini (ARCI)

Giulietto Chiesa (Giornalista)

Giovanni Carrosio (Università Trieste)

Nicola Cipolla (CEPES)

Vittorio Cogliati Dezza (Legambiente)

Giuseppe De Marzo (A Sud)

Marica Dipierri (A SUD)

Domenico Finiguerra (Stop consumo di suolo)

Francesco Garibaldo (Ricercatore)

Alfiero Grandi (CRS)

Marco Mariano (Retenergie)

Andrea Masullo (Green Accord)

Gianni Mattioli (Unesco)

Mariagrazia Midulla (WWF)

Emilio Molinari (Contratto acqua)

Alfonso Navarra (LOC)

Giuseppe Onufrio (Greenpeace)

Rosario Rappa (FIOM Nazionale)

Gianni Rinaldini (Fondazione Sabbatini)

Valerio Rossi Albertini (CNR)

Gianni Silvestrini (Kyoto club)

Massimo Scalia (Unesco)

Gianni Tamino (Università Padova)

Guido Viale (Economista)

Alex Zanotelli (padre comboniano)

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