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Energia, non solo una partita tra Enel e Eni, tra Starace e Calenda

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Il nuovo amministratore delegato dell’Enel Francesco Starace, in una audizione al Senato nell’ottobre del 2014 (l’audizione si tenne il 15 ottobre) sostenne che Enel doveva chiudere senza esitazioni ben 25 mila MW di centrali termoelettriche a seguito di un eccesso di offerta di elettricità, il calo dei consumi, l’aumento della generazione rinnovabile. Interessante notare che il suo predecessore, Fulvio Conti, in una audizione in senato, solo due mesi prima (il 26 marzo 2014), non aveva fatto alcun accenno a future dismissioni. Il processo prevede il confronto con tutti i soggetti presenti sui territori interessati. Si profila così la opportunità di un nuovo paradigma per l’energia che comprenda prodotti e servizi per l’efficienza energetica, la gestione intelligente dei consumi e soluzioni per la mobilità sostenibile.

Per Montalto di Castro (3300 MW) e Porto Tolle (2640 MW), due “monumenti” dello sviluppo delle fonti fossili in Italia, sono da tempo aperti i bandi e, con essi, un’occasione importante di decarbonizzazione. Visto il numero di impianti coinvolti non sarebbe fuori luogo una riflessione di livello nazionale, in particolare per considerare i possibili effetti sull’occupazione.

Il piano Futur-e rappresenta una “provocazione” che il governo non ha ancora osato proporre a livello nazionale. Si pensi alla Sen varata dall’ex ministro Passera focalizzata sul gas e pure alle indicazioni dell’attuale ministro Calenda rilasciate prima della bocciatura del referendum costituzionale, assai poco orientate allo sviluppo delle rinnovabili.

Sono anni che il nostro Paese si trova in una situazione di fragilità delle reti e sovracapacità produttiva, con un numero di centrali termoelettriche sovradimensionato, frutto degli effetti del cosiddetto decreto “Sblocca Centrali” del 2002, per cui nell’arco di un decennio (2003/2012), sono stati autorizzati cicli combinati a gas per oltre 30GW.

Il piano di chiusura di 25 mila megawatt di centrali a olio combustibile, carbone e gas va nella direzione di migliorare il quadro elettrico nazionale, chiudendo impianti obsoleti, poco efficienti. e con output nocivi e sollecitando un aggiornamento della rete che sostenga la produzione distribuita e consenta lo stoccaggio. Ridurre l’inquinamento dell’aria di cui si parla molto – in particolare nel bacino della pianura Padana – in questo inverno scarso di precipitazioni significa ridurre progressivamente la combustione in tutti i settori, compreso quello della generazione elettrica.

Vista la novità della posizione Enel e a fronte della chiusura di 25 mila MW di termoelettrico, abbiamo – anche sul piano temporale – la straordinaria occasione di esigere e co-progettare adesso la contropartita rilanciando la generazione da rinnovabili, la valorizzazione dei bilanci e dei piani energetici territoriali, l’efficienza degli edifici e la rivoluzione del sistema della mobilità. A quanto trapela dalle stanze ministeriali, non sembra che questo sia l’approccio con cui il Governo e il ministro Calenda, ispirati dal miraggio Eni di fare del Pese l’hub europeo del gas, intendano varare la Sen, Strategia Energetica Nazionale.

Enel invece chiude impianti improduttivi, perché è più redditizia la gestione delle reti e delle vendite; quindi la capacità installata termo (in Italia e fuori) continuerà a ridursi e si prevede che scenda a 36,5 GW nel 2019: gli scenari della compagnia prevedono ricavi da nuove attività legate alla vendita di dispositivi per l’efficienza energetica, alla mobilità elettrica e a nuovi servizi ancora da definire. Proprio sulla mobilità elettrica il governo è fortemente latitante e sembra ignorare i benefici effetti sulla qualità dell’aria nei centri urbani.

Tornando alle centrali del progetto Futur-e, riteniamo che si debba chiedere una partecipazione attiva ma non per evitarne la chiusura ma per trovare, nei vari territori, soluzioni che siano compatibili con una politica di creazione di posti di lavoro e di miglioramento ambientale. Vanno evitate soluzioni speculative che prevedano nuove colate di cemento, va studiato ogni singolo territorio per scoprirne le risorse e sostituire impianti inquinanti con imprese capaci di coniugare lavoro e risorse naturali. E’ tempo di porsi su posizioni innovative e non di mera difesa del passato. Il quadro dell’energia è cambiato e servono attori che possano confrontarsi con imprese e governo con una visione ampia a sufficienza da contenere occupazione, benessere ambientale per l’intera popolazione e riqualificazione della politica industriale.

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Oltre il referendum del 17 aprile

a cura di Mario Agostinelli

Siamo nel mezzo della crisi energetica più rilevante nella storia dell’umanità. Se per gioco volessimo rappresentare con una novantina di illustri individualità a nostra scelta – da Pitagora a Pericle a Cesare a Carlo Magno a Marco Polo a Napoleone a Einstein a Obama – le generazioni che succedendosi hanno “plasmato la memoria” su cui risiede la nostra civiltà occidentale (90 personalità x 25 anni a generazione =2250 anni di storia), quanti nuovi personaggi potremmo prevedere che possano salire d’ora in avanti su un palco siffatto? A detta del mondo scientifico più responsabile e accreditato non più di quattro o cinque, se si limiteranno a replicare il “business as usual” nelle politiche energetiche, sfasciando irrimediabilmente la ribalta in seguito agli effetti irreversibili di esse sul clima. Molti e molti di più, invece, se risulteranno dall’interpretazione di una svolta radicale rispetto all’odierno sistema fossile centralizzato e asseconderanno la cittadinanza globale nella consapevolezza della priorità delle ragioni della biosfera su quelle della geopolitica.

Occorre riconoscere che siamo in una fase nella quale le contraddizioni interne al sistema energetico dominante non possono più essere risolte ristrutturando il sistema tale e quale. Questa sarebbe la strada più facile da percorrere, ma pure la più irresponsabile, anche se parrebbe quella privilegiata da chi misura il futuro sulle scadenze elettorali (sono, verosimilmente, i casi recentissimi di Renzi con il boicottaggio del referendum, di Cameron con l’impegno a mantenere i 10.000 addetti britannici al carbone, dei premier di Polonia e Ungheria con le dichiarazioni di dar fondo senza alcun riguardo alle loro riserve di lignite).

Le soluzioni alternative che si fronteggiano e che hanno alle spalle culture di solide radici (quella ereditata dall’Illuminismo e dalla rivoluzione industriale e quella più recente definita “dell’ecologia integrale”) e non banali opportunismi, si caratterizzano per valutazioni che si situano in scale temporali e in un rapporto con la natura assai diversi.

C’è quella che si ostina a mantenere in vita il presente nella illusione che le previsioni sul cambiamento climatico non siano confermate e che il trascorrere del tempo venga sanato miracolosamente dal ritrovamento di soluzioni tecnologiche oggi non alle viste. Una ideologia dichiaratamente antropocentrica, prima che una proposta di rimedi provati, nata nella presunzione di risanare a valle la devastazione dei processi biologici e naturali compromessi per tempi incommensurabili dal ricorso a fonti di energia sempre più intense (il nucleare in primo luogo) e con effetti mascherati nell’immediato (il sequestro di CO2, la liberazione di metano per il petrolio nell’Artico, il confinamento delle scorie). In sintesi: crescita in economia e impiego di trasformazioni energetiche che prescindono dalla compatibilità con il sistema vivente.

C’è, dall’altra parte, l’opzione di trasformare su scala territoriale diffusa le fonti naturali, riducendo strutturalmente attraverso esse i tempi dell’intero ciclo di fornitura (trasporto e distribuzione in particolare), migliorandone costantemente l’efficienza, superandone gli svantaggi di intermittenza e compensazione con sistemi e reti digitali, considerandone l’eccezionale curva di apprendimento che ne abbassa continuamente i costi, rimarcandone la capacità di creare lavoro stabile anche in assenza di crescita e mettendo in rilievo infine la compatibilità dei processi che le utilizzano con l’estensione di un governo democratico dell’economia su base regionale e territoriale. Lo sfruttamento delle fonti rinnovabili – al contrario del percorso ipertecnologico per “rendere puliti” (?) i settori del fossile e del nucleare – si inserisce, agendo a monte, in una dimensione temporale in sincronia con la natura, i suoi cicli, la sua capacità di rigenerazione e si può sottoporre ad un esteso e efficace controllo sociale.

Se non ci si schiaccia sulla tattica politica del momento (e io non sono interessato a seguire il Presidente del Consiglio nella riduzione di temi di questo rilievo alle mene interne al PD) occorre essere già oggi fuori dalla difesa dell’esistente e non firmare con una mano a New York l’accordo Cop 21 e rilasciare con l’altra crediti alle corporation di gas e petrolio. Se, come indica l’intesa di Parigi, pur con le sue ambiguità e lacune, ci si vuole collocare dalla parte della seconda tra le opzioni descritte sopra, allora essa va praticata da subito in chiave sostitutiva ai fossili e andrebbe favorita e accelerata da processi di efficienza e riadeguamento su tutta la rete di distribuzione, accumulo e scambio, anziché osteggiata da misure tariffarie e incentivi alla rovescia. Quindi, i primi effetti sostitutivi vanno programmati laddove la questione ambientale è più drammaticamente urgente: le centrali a carbone e le trivelle in mare sono un esempio di questa priorità.

Questa sembra oggi, delle due alternative quella indiscutibilmente più in linea con la salvaguardia della vita sul pianeta ed è il quesito vero, di profilo storico, che è stato posto il 17 Aprile. Per cui quella data referendaria andrà inquadrata come segnale, ancorché insufficiente, in un processo che è in corso, anche se i media nostrani e il Governo non sanno dare ad esso rilievo, presi come sono dallo spostamento quotidiano da una notizia all’altra, schiacciati in un eterno presente da cui non si esce mai, visto che viene conculcata la partecipazione e non richiesta alcuna corresponsabilità. Ci troviamo in un percorso di transizione già in atto, certamente da istruire e completare, ma sul quale un segnale inequivocabile è stato dato: decarbonizzare e, contemporaneamente, assumere soluzioni sostitutive alternative, imprimendo al sistema un orientamento che con il tempo si farà dominante. Oggi il sistema oscilla ancora in modo disordinato, spinto da logiche contraddittorie. Comunque sia, il risultato delle pressioni dei movimenti sociali delle nuove eco-imprese e delle comunità locali si fa sempre più coerente e non è poco. trovarsi già, pur essere stati derubati del tempo sufficiente all’informazione e al confronto, con il 30% sul totale degli aventi diritto al voto che auspica e vorrebbe veder svilupparsi un sistema energetico differente.

Una delle curiosità – tra le altre – è che il referendum, secondo Swg, ha richiamato il 16 per cento di chi non vota più per principio alle politiche e un terzo di chi si dice indeciso su chi votare. Inoltre, tra coloro che hanno usato internet come fonte di informazione per capire di più della consultazione sulle trivelle, la quota che si è recata al voto è del 44% rispetto al 29% di chi si è informato solo ai TG. E’ evidente come si stia formando, fuori dagli equilibri politici e economici, un’opinione avversa alla strategicità del fossile, perseguita da Bersani a Monti a Passera e a De Vincenti secondo l’immagine inquietante dell’Italia “hub del gas” e avvalorata da una strategia energetica nazionale (SEN) mai portata all’approvazione del Parlamento.

E, questa volta, non c’è da accampare per i risulati del referendum la scusa della “complicità emotiva” (come per Fukushima e Chernobyl), tanto più che siamo a condizioni rovesciate, visto che del disastro del petrolio nel Polcevera l’opinione pubblica votante è stata tenuta accuratamente all’oscuro. Anzi,si è fatto forza sull’idea che 2000 posti di lavoro fossero la questione. In questi mesi 50.000 lavoratori delle aziende del gas ex municipalizzate verranno riassunti col Job Act e ripagandosi la pensione, grazie allo scarso interesse del Governo per il lavoro.

Era dal 2011 (referendum acqua, nucleare e legittimo impedimento), che la politica e soprattutto la narcotizzata società italiana non veniva investita dal dibattito su un tema fondante per il futuro del Paese. Chiedere ai cittadini di disertare le urne e non far maturare un dibattito dopo la Laudato sì e la Cop 21 è delittuoso e dà l’idea della fragilità di una politica che punta solo a ritardare processi per salvaguardare poteri non legittimati dalla risorsa del confronto continuo. Tra l’altro, occorrerà prestare attenzione ad un aspetto sottovalutato finora: non essendo state abrogate da un referendum, le altre norme sulle trivelle cancellate dal governo prima di andare al vaglio della Corte Costituzionale, possono essere ripresentate in qualsiasi momento all’interno di un Consiglio dei Ministri che non ha dato alcuna garanzia di lealtà sugli impegni presi. Non sarà semplice né facile riportare la politica su queste linee a sguardo lungo nel tempo.

Ho l’impressione che anche l’insistenza di molti commentatori a sinistra nel trovare connessioni tra l’esito referendario del 17 Aprile e le previsioni per quello autunnale sulle riforme istituzionali sia fuorviante, a meno che si inquadri la questione costituzionale come una priorità del futuro e non una reiterazione del passato, seppure glorioso. Il futuro della sinistra è quello di applicarsi alla sociologia delle emergenze, interpretando le tendenze che possono essere determinanti per affrontarle. Su questa base stanno intervenendo tendenze di riunificazione nell’area della sinistra e nelle componenti religiose: esse però vengono messe in difficoltà dallo spostamento al centro di forze che hanno ereditato l’organizzazione dei movimenti operai del dopoguerra e oggi giocano nel campo avverso. E’ il caso, sempre più netto del PD renziano in e questo schiacciamento sul presente e oscuramento del futuro è un danno enorme per la politica e per la conquista ad essa delle nuove generazioni. Il neoliberismo è un’immensa macchina di produzione di aspettative negative, in modo che le persone non possano conoscere i motivi reali della loro sofferenza, accontentandosi di quel poco ancora che hanno, paralizzati dalla paura di perdere. La riunificazione di sinistra e forze religiose serve ad attenuare la paura e a propiziare il ritorno di qualche speranza. (ed è quanto era accaduto a Milano con Pisapia ma, forse, non è stato da lui stesso abbastanza compreso). La speranza è un concetto aperto e attiguo alla partecipazione. Proprio perciò la tenuta e la chiarezza sulla questione costituzionale diventa determinante per il futuro, così come attuare un sistema elettorale più rappresentativo e più trasparente e rafforzare la democrazia partecipativa. Una democrazia finalizzata ad una interpretazione del mondo e della vita altamente condivisi e inverati nel patto sociale che non può che avanzare, altro che arretrare!

Concludo queste considerazioni sul quadro nazionale trasferendole nel contesto in cui la transizione energetica rimescola le carte della supremazia del neoliberismo sul piano globale. Dopo l’Enciclica papale (impossibile non considerarla per i suoi effetti vistosi in America e in Africa) e le conclusioni a Dicembre e le firme ad Aprile dell’accordo di Parigi, l’impermeabilità al forte messaggio di trasformazione è un lusso che in politica deve avere un costo. Italia, Inghilterra, Polonia e Ungheria guidano – e non da ora – il fronte della staticità del sistema fossile in Europa, addirittura con implicazioni sullo svolgimento della trattativa sul TTIP per la liberalizzazione del gas e del petrolio da scisto proveniente da America e Canada. Non è che le politiche di Obama, Merkel, Xi Jinping siano esenti da contraddizioni: pensiamo alle problematiche ambientali statunitensi del fracking, all’uso della lignite tedesca, all’inquinamento delle città cinesi. Ma quelli sono leaders che danno l’impressione di avere una visione che li ha portati ad avviare una profonda trasformazione dei sistemi energetici. Le primarie negli Usa vedono il climate change, la costruzione di oleodotti, i vincoli sulle emissioni dei veicoli come discriminante tra democratici e repubblicani. E la piena occupazione dei giovani e il minimo salariale sotenute come priorità da Bernie Sanders vengono osteggiati esplicitamente e con durezza dalle corporation del petrolio e del gas e dai grandi consumatori di fossili come la Walmart con i suoi 4000 centri commerciali e oltre 7500 TIR. In ogni caso gli investimenti mondiali sulle rinnovabili nel 2015 sono stati del 60% più elevati della somma di quelli delle nuove centrali elettriche a carbone, a gas e nucleari: c’è quindi una politica industriale e una riconversione ecologica delle produzioni con dinamiche occupazionali assai interessanti che sono in attesa.

Va tenuto aperto il dibattito pubblico sul tema del modello di sviluppo che l’Italia vuole perseguire alla luce degli accordi sulla riduzione dei gas climalteranti, mettendo in luce al contempo l’incompatibilità della compromissione della politica con gli interessi economici delle multinazionali del petrolio e i poteri forti.  Altro che ridurre tutto alle dinamiche interne al PD!  Sono assai ridotti i sostenitori di un’economia fossile in grado di presentarsi ai cittadini con trend economici positivi e capacità di rispondere alle esigenze di abbattimento dei costi ambientali. Perciò i15 milioni di cittadini alle urne dimostrano quanto sia necessario creare continuità tra linguaggi delle piazze e strumenti di partecipazione di massa. Se guardiamo al referendum come ad un passaggio intermedio di una battaglia di lungo periodo e connessa a tematiche che vanno ben oltre il tema dell’estrazione di idrocarburi offshore, la prospettiva è tutt’altro che a tinte fosche, e possiamo considerare questo come l’inizio di un ancora lungo lavoro di articolazione sociale che persegue un modello produttivo e di consumo frutto di una forte richiesta di partecipazione. Se ci muoviamo progressivamente in questa direzione, anche in occasione e in preparazione delle prossime scadenze elettorali, eviteremo di entrare nel gioco condotto da Renzi di riservarsi il prossimo gradino da cui rendere più agevole il balzo verso quella che Boaventura Sousa De Santos chiama “democrazia ad intensità molto bassa”.

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Referendum No Triv: non è che l’inizio!

a cura di Antonella Leto e Roberta Radich – di PrimalePersone

Era dal 2011 (referendum Acqua, Nucleare e legittimo impedimento), che la politica e soprattutto la narcotizzata società italiana non veniva investita dal dibattito su un tema fondante per il futuro del Paese.

In appena un mese, quello concesso dal governo per informare i cittadini, e senza alcuna risorsa se non le nostre braccia, le nostre gambe e la nostra creatività, siamo riusciti ad ottenere l’attenzione ed il voto di un terzo degli italiani. Questo a testimonianza che la società reagisce quando stimolata e non narcotizzata dall’informazione o dalle forme autoreferenziali della politica.

Il successo dei referendum NO TRIV parte dall’aver convinto, da movimenti, ben 10 regioni a deliberare a maggioranza assoluta la loro proposta. Successo che prosegue con la resa del governo Renzi, che pur di non fare esprimere i cittadini sulle trivelle a mare e terra, ha assorbito in legge di stabilità tre dei sei quesiti. Sono state così  rigettate dal MISE, Ministero dello Sviluppo Economico, 27  autorizzazioni a nuove trivellazioni entro le 12 miglia, tra cui Ombrina mare,  segnando la seconda vittoria del fronte NO TRIV. La terza e più importante vittoria è stata quella di aver imposto al dibattito pubblico il tema del modello di sviluppo che l’Italia vuole perseguire alla luce degli accordi di Parigi sulla riduzione dei gas climalteranti che ha come unica via d’uscita un cambiamento delle politiche energetiche che conducono alla conversione ecologica, mettendo in luce al contempo la grave compromissione della politica con gli interessi economici delle multinazionali del petrolio e i poteri forti.

In appena un mese sono nati spontaneamente in tutt’Italia centinaia di comitati che hanno lavorato a testa bassa per informare e promuovere il SÌ, lottando contro la mistificazione, la disinformazione del governo e contro l’invito all’astensione.
È stata cosi disvelata una presa di posizione gravissima dell’esecutivo di governo che tradisce una insofferenza all’esercizio democratico popolare previsto dalla Costituzione, ed ancor più il desiderio di avere mani libere nelle decisioni assunte, non solo scavalcando regioni ed enti  locali, ma prefigurando una volontà autoritaria che si concretizza nelle riforme costituzionali in combinato con la legge elettorale.

Infatti proprio sulla modifica costituzionale del Titolo V, con cui il governo vorrebbe accentrare al proprio esecutivo scavalcando lo stesso parlamento le competenze attribuite alle regioni in materia ambientale,  si riaprirà presto la partita per la democrazia sostanziale e di prossimità.

Laddove si vorrebbe sanare attraverso le modifiche costituzionali quella che è diventata, di fatto,  una democrazia solo formale trasformandola in “democratura”, si troveranno i cittadini, i comitati e le associazioni.

Il referendum NO TRIV ha aperto una strada, ha costretto la politica a schierarsi pro o contro,  a dividersi facendone emergere le pesanti contraddizioni interne. Ha ridato voce ad un terzo degli cittadini, ha rivitalizzato ogni territorio con un mese di mobilitazioni dal basso che restituiscono linfa vitale alla Democrazia ed alla partecipazione.
Non è che l’inizio!
Siamo partiti da tempo promuovendo un altro modello di sviluppo, sostenibile, solidale.
Non ci fermeremo.   
Un altro mondo è possibile e siamo qui per costruirlo!

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Non sarà il mancato raggiungimento del quorum a salvare le fonti fossili

Comunicato Stampa di Legambiente

“Il quorum non è stato raggiunto ma di due cose siamo certi. La prima è che la proroga senza limiti delle concessioni per l’estrazione di petrolio e gas rimane una colossale ingiustizia, in contrasto con le regole del diritto UE sulla libera concorrenza. La seconda, è che non sarà certamente il mancato raggiungimento del quorum a fermare un cambiamento del modello energetico che sta già mettendo le fonti fossili ai margini, perché esiste un altro scenario più conveniente, pulito, democratico. La nostra battaglia continua e la straordinaria mobilitazione dal basso organizzata in poche settimane, malgrado disinformazione e inviti all’astensione, dimostra il consenso di cui gode tra i cittadini il tema dello sviluppo sostenibile, per combattere i cambiamenti climatici e far crescere le energie pulite”.

Questo il commento della presidente di Legambiente Rossella Muroni ai risultati del referendum sulle trivellazioni. La campagna referendaria, secondo l’associazione ambientalista ha messo in evidenza come l’ambiente sia diventato oggi una questione centrale per i cittadini e trasversale agli schieramenti politici. Il Governo Renzi, malgrado gli inviti all’astensione e le politiche a favore delle fonti fossili, dovrà prenderne atto e accelerare sulle scelte di tutela degli ecosistemi e di sviluppo incentrato sulle fonti rinnovabili. L’Italia possiede  oggi risorse naturali e opportunità per ridurre l’utilizzo di petrolio e gas puntando sulle alternative realmente competitive ma bloccate da politiche miopi e sbagliate: l’autoproduzione da energie rinnovabili, il biometano, l’efficienza energetica.

Legambiente annuncia quindi che nei prossimi giorni presenterà una denuncia alla Commissione europea contro la norma che concede concessioni illimitate per le estrazioni di petrolio e gas. Continuerà la battaglia affinché si intervenga da subito sulle numerose criticità emerse rispetto alle attività estrattive in mare, a partire dalla dismissione delle piattaforme che già oggi non sono più attive e per stabilire royalties giuste per tutte le attività estrattive, cancellando un sistema iniquo per cui larga parte delle concessioni non paga le royalties e chi lo fa le deduce dalle tasse. In tutto il mondo si sta andando verso una tassazione legata alle emissioni di gas serra per spingere gli investimenti verso l’efficienza e il nostro Paese avrebbe tutto l’interesse ad andare in questa direzione cancellando privilegi assurdi per i petrolieri.

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Referendum, the day after

Articolo di Marica Di Pierri apparso su HuffPost (18 Aprile 2016)

Le premesse

Il referendum popolare sulle trivellazioni in mare ha portato ieri alle urne, nonostante l’assordante silenzio mediatico e gli incessanti tentativi di delegittimazione e boicottaggio, più di 15 milioni di cittadini ed ha avuto il merito di imporre finalmente nel dibattito pubblico una discussione non più rimandabile sul modello energetico, i suoi impatti sui territori e l’urgenza di procedere verso un’economia a bassa intensità di carbonio.

Questo risultato, tutt’altro che scontato, rappresenta già, di per sé, l’importante affermazione – in termini di consenso pubblico – di una visione radicalmente alternativa a quella vigente rispetto alla tutela ambientale e al modo di produrre energia.

A questo grande passo in avanti va sommata – è importante ricordarlo – l’altra grande vittoria riconducibile all’iniziativa referendaria: è stato infatti soltanto grazie alla mobilitazione popolare di migliaia di cittadini e centinaia di comitati e associazioni, raccolta poi dalle Regioni che hanno formalmente chiesto la convocazione del referendum, se il contenuto di 5 dei 6 quesiti estesi per il voto popolare è stato recepito nella legge di stabilità di dicembre, costringendo il governo ad una marcia indietro in assoluta controtendenza rispetto alla direzione precedentemente intrapresa.

Tra i principi reintrodotti dal governo con la chiara intenzione di evitare di aggiungere altri quesiti al voto di ieri troviamo il ripristino del divieto di nuove concessioni estrattive entro le 12 miglia, introdotto per la prima volta nel 2010 – non nel 2006 come i detrattori del referendum hanno più volte affermato – ed eliminato poi nel 2012 dal decreto sviluppo salvo ricomparire nella legge di stabilità del dicembre scorso non certo per una ritrovata velleità ambientalista dell’esecutivo di unità nazionale.

Per la medesima via è stata ottenuta dal movimento referendario la sostanziale cancellazione del contestatissimo art.38 del decreto Sblocca Italia che avrebbe messo una pietra tombale sulla possibilità degli enti locali di dire la propria in materia energetica, anche in presenza di progetti impattanti per il territorio.

Sono ben 27 i procedimenti concessori bloccati grazie all’infaticabile pressione esercitata sul governo. Se non avessimo in tal modo osteggiato la piena implementazione dello Sblocca Italia e della Strategia Energetica Nazionale del marzo 2013 (governo Monti) staremmo oggi combattendo in tutto il paese contro il raddoppio delle frontiere estrattive in terra e in mare.

Questi elementi, di grande importanza, sono da ricordare a mo’ di premessa a chiunque abbia come obiettivo la ridicolizzazione del referendum quale strumento di democrazia diretta, utile non solo alla cancellazione di norme sbagliate, ma anche ad indirizzare chi ci governa verso scelte virtuose.

Una corsa ad ostacoli e contro il tempo

Prima di provare a tirare un bilancio del voto e a proporre alcune riflessioni estensive, è utile passare in rassegna i numerosissimi tentativi di boicottaggio che il referendum ha subito:

– il brevissimo tempo concesso per la campagna referendaria, pari al minimo previsto dalla legge (la data poteva essere individuata tra il 15 aprile e il 15 giugno: il 17 aprile era la prima domenica utile). Un mese e mezzo in tutto non è un tempo congruo per permettere di muovere efficacemente la macchina organizzativa e rendere quanto più capillare possibile la diffusione di informazioni: due mesi di tempo in più avrebbero fatto la differenza;

– il governo ha scientemente deciso di non accorpare il referendum alle amministrative e per scongiurare il raggiungimento del quorum ha speso in tal modo ben 340 milioni di euro di soldi pubblici. Sarebbe bastato un decreto legge (il governo vi ricorre piuttosto spesso, questa volta cosa ostava?) come avvenuto nel 2009 per evitare di spendere una cifra che equivale esattamente al gettito di royalties che lo stato italiano riceve annualmente;

– i dati diffusi dall’AGCOM – Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, hanno rilevato una tardiva e inadeguata copertura mediatica sull’appuntamento referendario, rendendo difficile una efficace circolazione di informazioni sull’appuntamento;

– il Comitato del NO (i cosiddetti “Ottimisti e Razionali”), formato da pochi (e ben pagati) lobbisti, ha speso fior di quattrini di pubblicità ingannevoli in Tv e sul web, ed ha inquinato la campagna referendaria con dati falsi e mistificatori che hanno spostato l’attenzione su conseguenze inesistenti, come gli 11.000 posti di lavoro a rischio inventati di sana pianta (la fonte di questi dati qual è? non ci è mai stato dato saperlo) o come la bufala della indipendenza energetica, per la quale è evidentemente irrilevante l’esigua quantità di idrocarburi presenti nei nostri mari;

– i continui ed esecrabili appelli all’astensione da parte delle forze di governo cui si sono unite le cadute di stile di rappresentanti istituzionali di rilievo come il Presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano, che da garante della costituzione si è trasformato – ahi lui! – in maldestro tifoso di parte, e specificamente della parte che invita i cittadini a disinteressarsi della cosa pubblica;

– le migliaia di segnalazioni che hanno registrato ostacoli al voto di ogni genere durante le operazioni elettorali: seggi senza urne, Presidenti di seggio assenti, file chilometriche agli uffici elettorali, problemi per il voto dei rappresentanti di lista fuori sede.

CONTINUA >>>

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