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Pessime le credenziali dell’Italia alla Cop28: opaco il contrasto alla crisi climatica

All’avvio della Cop 28 il governo italiano arriva con un bilancio opaco sul contrasto alla crisi climatica, con segnali di grande sofferenza già sopportata da lembi assai vasti del territorio nazionale e, nonostante tutto ciò, con la pretesa di non cambiare rotta rispetto ai piani energetici che languono quasi immutati da oltre un lustro sulle scrivanie dei ministeri e degli enti energetici nazionali.

Da parte della maggioranza attuale le novità più rilevanti si collocano, da un lato, nell’avvicinamento e la promiscuità con quegli interessi europei che vorrebbero rilanciare il nucleare per ritardare la rivoluzione delle rinnovabili e, dall’altro, nell’aperta contraddizione di ridare fiato al gas facendo dell’Italia l’hub europeo non solo del metano, ma addirittura della CO2, da sotterrare in pianura padana o in Adriatico, trasportata da condotte provenienti anche da fuori dei nostri confini.

Occorre notare che l’Italia, dopo aver aderito alla dichiarazione della Cop di Glasgow, impegnandosi a porre fine a nuovi finanziamenti pubblici internazionali per progetti di estrazione, trasporto e trasformazione di carbone, petrolio e gas entro il 31 dicembre 2022, ha disatteso l’impegno, finanziando solo nei primi sei mesi del 2023 progetti fossili con oltre 1,2 miliardi di dollari di sussidi pubblici. E per di più, come denunciato da ReCommon, le istituzioni di finanza pubblica italiane continuano a promuovere il finanziamento di ulteriori progetti fossili sia sul suolo nazionale che, in particolare, in Africa, dove il binomio Meloni-Descalzi ha insediato un improbabile “piano Mattei” per dissimulare la continuità delle forniture di gas ben oltre i vincoli posti dallo stesso Green New Deal Ue.

In uno spaesamento generale del Paese entriamo alla conferenza di Dubai con pessime credenziali, nonostante la popolazione e i privati spingano responsabilmente per una crescita dell’energia rinnovabile. Intanto, mentre si allungano le ombre sul funzionamento delle assisi internazionali, tra ritardi sui vincoli climatici, assenti eccellenti e conflitti di interesse, anche l’Ue abbandona un ruolo di ambiziosa avanguardia, nascondendo sotto lo scudo dell’idrogeno “futuro” l’accettazione temporanea dell’espansione del gas, tuttora in promozione e allestimento in buona parte del continente.

Il capitolo italiano REpowerEU del Pnrr proprio in questi giorni è sceso da 19 miliardi di euro della proposta iniziale a poco più di 11. Inoltre, sul fronte Pnrr, la revisione stilata da Roma definanzia misure per oltre 15 miliardi, tra cui 6 miliardi per l’efficienza energetica nei Comuni, assieme ai fondi per gli impianti Fer innovativi e per l’idrogeno nei settori “hard to abate”. La cosiddetta “revisione al ribasso dei sussidi dannosi per l’ambiente” verrà immediatamente compensata da un sussidio per i costi di allacciamento alla rete del gas del biometano, con grande soddisfazione della Coldiretti.

Le grandi centrali a carbone di Brindisi e Civitavecchia verranno chiuse entro il 2025 – e questo è bene – ma nel contempo sulla costa tirrenica va a rilento l’intero piano complessivo per l’eolico off-shore di Civitavecchia, per cui ad oggi non sono previsti finanziamenti per l’allestimento delle strutture portuali adatte a farne l’hub per l’eolico nel Mediterraneo. E nemmeno è alle viste una adeguata azione di politica industriale per lanciare sul territorio laziale un complesso manifatturiero che sopperisca all’importazione di apparecchiature tanto innovative come le pale eoliche galleggianti.

Nondimeno, un complesso di istituti di ricerca e formazione dovrebbe fornire garanze di buona e duratura occupazione ad una popolazione che ha avuto il merito di lottare per la trasformazione energetica in una città che da oltre 70 anni sacrifica salute e fruibilità del territorio alla produzione di energia da olio minerale e carbone.

Tutti gli attori in campo (Enel compresa, anche se il suo piano industriale esce ridimensionato sulle rinnovabili nel passaggio da Storace a Cattaneo alla testa del gruppo) devono sentire come una conquista faticosa ma esaltante la transizione dal fossile all’energia pulita; lo stesso Ministero per le Imprese e il Made in Italy dovrebbe svolgere un ruolo propulsivo in tal senso, rendendo sinergico il coinvolgimento delle istituzioni accanto alle forze sociali vive che hanno partecipato dal basso ad aprire una strada nuova per minimizzare l’impatto ambientale e sociale e massimizzare le opportunità che devono essere colte oggi e non domani.

Quel che vale per Civitavecchia andrebbe consapevolmente esteso a tutto il Paese.

La presidente Meloni partecipa alla Cop 28 con un mandato della sua maggioranza (non del Parlamento!) in cui spicca l’assenza di un chiaro impegno su come accelerare la diffusione delle energie pulite e l’assenza di tempistiche per destinare lo 0,7% del Pil in aiuti allo sviluppo, di cui il 50% alla lotta al cambiamento climatico. Si cita “un percorso nazionale di graduale riduzione ed eliminazione dei sussidi alle fonti fossili”, da realizzare però “secondo modalità compatibili con lo sviluppo economico e sociale del Paese”.

Se si pensa poi che l’esecutivo dovrà anche incentivare le sperimentazioni “volte all’abbattimento delle emissioni e allo stoccaggio a lungo termine dell’anidride carbonica”, in modo da garantire lo sviluppo della filiera del sequestro di anidride carbonica, allora sarebbe bene che non solo gli ambientalisti, ma quanti hanno a cuore il futuro delle nuove generazioni smettano di accontentarsi di rincorrere la notizia del giorno che sposta quella del giorno precedente, per seguire più da vicino un processo partecipativo e di lotta per un mondo senza guerre, senza ordigni nucleari, che contrasti efficacemente il cambio climatico e si mantenga in armonia con la natura e il resto del vivente.

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La transizione ecologica va fuori strada: subdole manovre di greenwashing lo dimostrano

In una puntuale riflessione apparsa su La bottega del barbieri di martedì 27 giugno sotto il titolo Una polemica disordinata, Giorgio Ferrari solleva una critica rivolta all’Ipcc e a molti ambientalisti per aver rappresentato la battaglia contro il cambiamento climatico come una mera surroga dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabile. In effetti, il confronto pubblico si è spesso fissato su questa semplificazione, ma, credo, più per colpa dei conservatori, ostinati ad associare ogni manifestazione vitale e di progresso alla potenza e all’efficienza di macchine e impianti alimentati da combustioni o addirittura reazioni nucleari, piuttosto che ispirate al criterio di sufficienza, caratteristico dei processi naturali sostenuti dall’irraggiamento solare. Un criterio che si indirizza a tempi più lenti e cicli meno dissipativi, compatibili con la conservazione della biosfera e associati a scorie frequentemente riciclabili.

Forse in nome di uno sviluppo e di una crescita che ormai fanno parte dell’archeologia della storia, la conversione ecologica richiesta dal brusco mutamento del clima non entra affatto nel lessico di governanti, ministri, esperti e dirigenti di vario calibro, che trattano le soluzioni all’emergenza come una questione da libro dei sogni. L’osservazione di Giorgio Ferrari tocca opportunamente il rischio di un probabile insuccesso nella lotta complessa contro il riscaldamento, dato che, non ponendosi nei confronti del capitalismo su uno spettro più ampio di quello delle tecnologie, non si esplicita molto oltre la rivendicazione di un’economia circolare e la ripartizione delle quote tra le fonti. Si arrischia così di oscurare quanto l’estrattivismo, che le rinnovabili portano con sé, finisca nel proseguire a sfruttare l’Africa e i paesi più poveri come una colonia per produrre elettricità e idrogeno da importare in casa propria.

Tuttavia, anche se la critica di adagiarsi su un orizzonte limitato alla sola questione energetica, intesa come la mera sostituzione delle fonti fossili, è un ammonimento di cui tener conto – ed è benevolmente rivolta anche a me – provo a mettere in conto come contrastare gli interessi intercapitalistici che tenderebbero a coprire con subdole manovre di “greenwashing” una rapida e salvifica uscita dall’Antropocene.

Parto proprio dalla necessità di cambiare rapporti e stili di vita in sintonia con la affermazione (imposizione?) di nuove tecnologie, che devono subire un’accelerazione in sintonia con una crescita di partecipazione, informazione e formazione che coinvolga in modo specifico un rapporto continuativo tra scuola, ricerca e lavoro. Nel caso dell’energia, trovo che non sia tanto una questione di cifre, quote o obbiettivi soltanto, ma di discontinuità con un sistema che ha il suo perno nella potenza e nell’efficienza anziché nella sufficienza.

Non si può allora restare indifferenti di fronte alla scelta del governo Meloni di riaprire il dossier nucleare, mentre lancia un “Piano Mattei” perché l’Italia diventi lo snodo del gas dal Mediterraneo all’Europa e la cloaca – dalla pianura padana alle dorsali appenniniche fino alla Basilicata – della CO2 sequestrata nelle caverne svuotate dal metano Eni e nutrite con condotte di gas climalterante provenienti dalle combustioni di metano da tutta Europa.

Parrebbe incredibile che, proprio mentre si registra al 3 luglio il giorno più caldo sulla Terra mai censito dall’uomo, un governo che ha preso in giro gli stakeholders sull’aggiornamento del nuovo Pniec con una finta consultazione, si pronunci con le sue più alte autorità per infrangere e sbeffeggiare le ultime raccomandazioni che proprio l’Ipcc ha consegnato ai governi, alle banche, alle imprese.

Dopo l’inserimento nella tassonomia “verde” di nucleare e gas, le incertezze della Commissione Europea rispetto agli stessi obbiettivi del Green Deal si sono rivelate convinzioni nella decisione di estendere la produzione di idrogeno al nucleare. Non deve stupire che entrambe le aperture siano state prese a cuore dal governo Meloni, che nel Piano Energia e Clima “sottoposto a consultazione” e inviato pochi giorni fa a Bruxelles, ha chiarito le vere intenzioni dei suoi ministri ispirati da Big Oil.

Lunedì 19 giugno 2023, l’Organizzazione Mondiale di Meteorologia (Omm), organismo Onu, e il Servizio sul Cambiamento Climatico Copernicus (C3s), della Unione Europea, hanno confermato che la temperatura media dell’Europa aumenta due volte più velocemente della media mondiale a causa della crisi climatica. Nel 2022 l’estate è stata la più calda mai osservata, con una deviazione di +0,79 °C dalla norma 1991-2020.

A giudicare della eco trovata sui media, per l’Italia si tratta di un’altra non notizia.

Ormai si comincia a dire all’opinione pubblica che gli effetti della mitigazione non saranno in grado di impedire ulteriori peggioramenti del clima, per cui la priorità passerà all’adattamento, traccheggiando quanto più possibile con il gas e il Ccs e mettendo sullo sfondo un nucleare inesistente e, magari, facendo l’occhiolino alla geoingegneria, come avviene per le improbabili nuvole di gesso, zolfo e acqua, suggerite da Bill Gates per riflettere nello spazio parte dei raggi del sole, limitando il riscaldamento globale.

Intanto, Pichetto Fratin promette un “cambiamento il più possibile rapido del mix energetico, con una transizione energetica realistica e non velleitaria”: ovvero un hub del gas e tante rinnovabili con un vasto programma di idrogeno verde, che – ove mai esisterà – potrebbe muoversi nelle stesse infrastrutture del gas, tipo la dorsale adriatica in via di appalto. Tutto e il suo contrario. “Certo, aggiunge, su questo siamo un po’ in ritardo per via delle ‘difficoltà autorizzative’”.

C’è poi un solido ottimismo sul nucleare, che “non emette climalteranti”. A tal proposito basta analizzare l’esposizione di Sergio Zabot dove si scopre che le quantità di CO2 emessa nell’intero ciclo di vita dell’uranio è comparabile con quella emessa da un equivalente ciclo combinato alimentato a gas naturale. Vero è che il pianeta Terra ha la febbre: ma la transizione energetica sta andando fuori strada. “Al momento non solo è a rischio l’obiettivo di contenere la temperatura entro il grado e mezzo rispetto ai livelli preindustriali, ma anche i due gradi sono a rischio”, ha messo in guardia il direttore generale di Irena, Francesco La Camera, secondo il quale l’aumento di 1,5 gradi potrebbe esser raggiunto già in un paio di anni!

Ma, sempre secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, il taglio delle emissioni previsto dal piano nazionale nei settori dei trasporti, dei servizi, dell’agricoltura e delle industrie a basso consumo energetico sarebbe del 35-37% rispetto al target del 43,7% fissato dalla Ue. Parrà strano, ma la viceministra dell’Ambiente Vannia Gava ha confermato l’approccio prudente del governo. “Basta con i libri dei sogni, serve concretezza, vogliamo arrivare a net zero nel 2050 ma dobbiamo farlo con le tecnologie disponibili, in modo graduale”. La stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha indicato, lunedì 3 parlando agli industriali, che “La transizione va fatta con criterio, non possiamo smantellare la nostra economia per inseguirla”, confermando le resistenze del governo italiano a livello Ue su temi come l’auto elettrica o l’efficientamento energetico degli edifici.

Se queste sono le idee, i contrasti e le emergenze in campo, si capisce come il 2022 sia stato l’anno in cui si è registrata una spinta record sulle rinnovabili, ma anche quello con i più alti livelli di sussidi ai combustibili fossili di sempre. La partita per una transizione ecologica è ineludibile, ma tutta da giocare: le destre in Europa hanno deciso di farlo su un fronte prettamente sociale, prima che tecnologico…

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Tra le istituzioni prende piede la versione più recente del negazionismo climatico

Il governo Meloni non tiene il passo del sistema di aiuti europei, non solo sul Pnrr. Il 27 giugno scade la data di aggiornamento dei piani nazionali climatici e sull’energia che fanno riferimento agli obbiettivi del Green Deal UE, che prevede la neutralità climatica per il 2050. Quali obbiettivi raggiungerà il nostro Paese?

Il consiglio di 28 accademie scientifiche nazionali degli Stati membri dell’Ue ha elaborato un documento in cui spiega l’urgenza di uscire dal gas, aggiungendo che per aumentare massicciamente la produzione di energia elettrica da rinnovabili occorre sostenere le famiglie e le imprese vulnerabili per limitare la povertà energetica e gli impatti derivanti da bollette energetiche elevate. Un programma dettagliato e ragionevole, in cui si esclude che investimenti in gas naturale vengano considerati compatibili con l’obbiettivo di contenere la temperatura del pianeta entro 1,5°C.

Eppure, il 23 maggio, il nostro Consiglio dei Ministri ha approvato, proprio nel decreto per le alluvioni in Emilia-Romagna, una norma che, all’art 6, consente di “realizzare nuova capacità di rigassificazione e di spostare, per utilizzarle altrove, se occorre, le navi che stoccano e rigassificano gas liquefatto”. La contraddizione è palese e contiene addirittura una provocazione: l’emergenza non si concentra solo sulle popolazioni colpite, ma viene in subdolo soccorso degli interessi di Big&Oil, tra i responsabili accertati degli eventi disastrosi cui assistiamo.

E’ ormai grande la distanza dei governi dalle emergenze epocali che la scienza segnala e a cui le nuove generazioni dedicano finalmente grande attenzione. Non si tratta più soltanto di una “Greta” da isolare quando contesta gli effetti letali delle combustioni fossili, ma di un’ondata in crescita di ragazze e ragazzi che hanno consapevolezza di quanto il presente non prepari per loro un futuro desiderabile.

Occorre rendersi conto che, con un lavoro assiduo e dietro le quinte dei comitati, dei think-tank e dei conferenzieri strapagati, ma anche dentro le commissioni istituzionali dei Parlamenti nazionali della Ue e dei vari G7, sta prendendo piede la versione più recente del negazionismo climatico: le rinnovabili consumeranno troppi materiali rari, non potranno raggiungere il 100% e dovranno obbligatoriamente cedere il passo ad un pesante soccorso di gas e nucleare per “scollinare” il 2050. Risulta così ancor più brusca la distanza tra la scienza (non solo quella di fisici eccellenti come Rovelli o Parisi, ma quella dell’intero staff globale dei climatologi dell’Ipcc) e i governanti, che si alleano per andare all’attacco degli accordi internazionali sottoscritti a Parigi nel 2015 e anno dopo anno infranti.

Le manovre di avvicinamento tra il Ppe (destre classiche) e i sovranisti (destra estrema), nella prospettiva delle prossime elezioni europee (6-9 giugno 2024), si stanno concentrando proprio sul freno al Green New Deal Ue. I contatti sono sempre più stretti e contano anche sulle convenienze di settori finanziari e industriali legati alle fonti fossili e nucleari e sulla influenza sui rispettivi governi (si vedano le nomine negli enti del governo italiano) di imprese partecipate che approfittano della guerra in Europa per accumulare extraprofitti da impianti obsoleti e drammaticamente nocivi. Un recente studio pubblicato da Reclaim Finance, ReCommon e Greenpeace ha calcolato che meno del 20% degli investimenti previsti da Eni nei prossimi anni andranno a finanziare progetti di energie rinnovabili, superando del 70% la prevista riduzione delle emissioni previste dalla IEA per il 2030.

La destra europea, compresa quella italiana, punta – dopo l’invasione russa dell’Ucraina – a mantenere gas e nucleare in una funzione cruciale nella transizione verso il “tutto elettrico”. E la ragione politica sfugge tuttora agli ambientalisti e alle sinistre: c’è un tratto di liberismo che è ampiamente sostenuto nel mercato energetico. Da quando i flussi energetici statunitensi hanno contribuito a sostituire buona parte del petrolio e del gas russi, l’aspetto proprietario dello shale gas americano fornito da produttori indipendenti ed estratto su terreni di proprietà privata viene giocato sul libero mercato. In tal guisa, il GNL diviene proprietà dell’acquirente non appena viene caricato su un’apposita nave cisterna e il carburante è considerato franco a bordo (FOB) in quanto all’acquirente è data la flessibilità di spostarlo in qualsiasi luogo desideri. Ciò significa spesso vendere il gas liquefatto nel luogo in cui il prezzo produce il maggiore profitto. Un danno per i consumatori, ma non per Eni e per le aziende private o ex municipalizzate che hanno interesse ad avere più gas in circolazione e a venderlo ovunque richiesto, in Italia o altrove, possibilmente sul mercato spot, perché questo massimizza i profitti.

Quindi, mantenere turbogas e condotte e puntare a fare dell’Italia “l’hub europeo del gas” (un punto di vendita nel caso di sovrabbondanza) significa badare ad interessi molto precisi, a danno, ovviamente, della sostituzione con energie da rinnovabili (ad uso misurato delle comunità locali). Il governo Meloni non vuole “scatenare le rinnovabili”, mentre non ha problemi a dare immediata via libera ad una nave “gasiera” – una fabbrica galleggiante che arriverà a giugno a Ravenna – mentre un impianto simile è arrivato a Piombino a marzo tra mille polemiche. Intanto è in costruzione un nuovo gasdotto tra Sulmona, in Abruzzo, e Minerbio, in provincia di Bologna, per nuova capacità di rigassificazione nazionale, qualificato come “opera di pubblica utilità indifferibile e urgente.

Ovviamente le compagnie del gas puntano ai fondi del Pnrr e di RePowerEu, o, almeno, ad ottenere garanzie pubbliche per un piano di investimenti che ci legherà ancora di più al gas negli anni a venire: non importa se la domanda interna diminuisce, si venderà altrove. E il clima e gli eventi catastrofici, ovviamente, renderanno ancora più insopportabili le guerre in corso.

Velocizzare l’installazione di impianti eolici e solari, sviluppare le “comunità energetiche”, agire sull’efficienza, riconvertire i consumi richiede mobilitazione e una coalizione sociale che sappia fare un’opposizione propositiva per giovani e lavoro. Le iniziative svolte il 27 a Roma e quelle in preparazione su tutto il territorio nazionale per la prima decade di giugno fanno ben sperare.

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Cingolani, il fisico più inviso agli ambientalisti risulta il politico più affidabile per Meloni e Descalzi

Probabilmente Roberto Cingolani, fisico, esperto e manager multiforme, si era già “recato” sul Sole dove aveva acclarato il verificarsi del fenomeno della fusione che prometteva per il prossimo decennio sulla Terra, senza contare che si trattava di fenomeni e condizioni assai differenti. Infatti, l’enorme gravità della stella consente di compenetrare in abbondanza e con naturalezza – alla distanza di 150 milioni di km da noi – atomi di idrogeno che si trasformano in elio e non di dover creare apparati artificiali improbabili di enorme potenza soltanto per fondere per una frazione di secondo isotopi rari dell’idrogeno, come il trizio e il deuterio. Insomma, un impreciso diversivo pur di non affrontare il precipitare del cambiamento climatico.

“Ritornato” come se niente fosse sulla Terra, si è distinto nel dilazionare i tempi di passaggio alle rinnovabili insediandosi nella capitale in veste di Ministro per la Transizione Ecologica. Risultato: il Pniec è dopo un lustro ancora in revisione e la rincorsa al gas da ogni dove, gradita a Draghi e poi suggellata da Meloni e dal suo “vicepremier” Descalzi, è stata avviata nei suoi uffici. Dobbiamo molto a lui se una strategia energetica di fuoriuscita dal fossile – nonostante i favori che il Pnrr attribuisce all’Italia – non è nemmeno confrontabile con quella elaborata in Spagna o nei paesi nordici e se il conto terrificante delle emissioni di CO2 dovuto alle guerre in corso (un giorno di combattimenti in Ucraina equivale alle emissioni della provincia di Bologna) non lo turba affatto nel trasferirsi nella funzione di amministratore delegato di Finmeccanica, la massima industria bellica italiana. Quindi, il fisico più inviso agli ambientalisti risulta il politico più affidabile per Meloni e Descalzi, determinati al punto di offrirgli un banco di prova per una politica economica estera, dove i pagamenti avvengono spesso tramite il commercio di armi.

Sull’incredibile ritardo accumulato sulle rinnovabili è apparsa il 13 aprile su Italia Libera una lettera a Schlein e Conte, inviata da quattro ambientalisti protagonisti della svolta antinucleare italiana – che invito a leggere e che andrebbe spedita all’intera area (non solo Pd e M5S) – che sostiene un futuro di ecologia integrale: Gianni Mattioli, Vincenzo Naso, Massimo Scalia e Gianni Silvestrini rivendicano di essere stati tra i protagonisti di un percorso di transizione ecologica nato in Italia prima che in altri Paesi, ma che ora ha bisogno di un “aggiornamento”, di un obbligo rispetto all’accelerazione dei drammatici fenomeni innescati dal global warming. Non si può che condividere la richiesta di un impegno serio e possibile nelle fonti rinnovabili, rispetto al “bacino” dei 180 GW che già tre anni fa risultavano a Terna come richieste di allaccio alla rete e che avrebbe ottenuto ad oggi una quasi totale indipendenza dal gas russo.

Mentre “uno dei vicepremier –si legge nella lettera – si balocca su proposte tempestive e altamente attendibili come il ‘ponte sullo Stretto’ o il nucleare da fare ‘a Baggio’, sua residenza, mentre l’altro si fa espropriare gli interventi più importanti di politica estera dal ceo dell’Eni, Claudio Descalzi, che in verità, più che sembrare, è il vero dominus dell’Amministrazione Meloni. Infatti, si trascurano i suoi risibili obiettivi – 15 GW di rinnovabili entro il 2030, a fronte dei 100 GW della Total e di 50 GW della Bp – mentre propone l’Italia, forte della sua posizione nel Mediterraneo, come hub del gas per tutta l’Europa del Nord. Subito accompagnato dal cinguettio omofono di Giorgia Meloni, in nome della sovranità energetica nazionale”.

E’ del tutto da condividere il dar vita ad un grande progetto per la riconversione ecologica dell’economia e della società, come da decenni richiedono in tutto il mondo i movimenti ambientalisti, per la pace e per la giustizia sociale. È un impegno gigantesco, che necessita della partecipazione diretta dei cittadini, in forme di rappresentanza diretta, indiretta, partecipativa, associativa e sindacale, già in atto peraltro in alcune situazioni europee, che rimonti l’attuale disgusto per la politica così impietosamente misurato dalla costante crescita dei non votanti alle elezioni.

Si può e si deve fare: ne va sempre più drammaticamente del futuro nostro, dei figli e dei nipoti. Una risposta come quella realizzata a Civitavecchia, di cui sono stato testimone, ha costruito l’alternativa rinnovabile alla centrale a turbogas lungo la costa tirrenica e innescato nuovi progetti anche manifatturieri con grandi benefici per il lavoro, la sua riqualificazione e la salute del territorio.

Intanto, anche sulle spinte qui illustrate, nel Paese si incomincia ad avviare un percorso il più possibile largo e partecipato – con lo slogan in prima approssimazione “voi bloccate le rinnovabili, le rinnovabili bloccano i vostri uffici” – per un appuntamento di mobilitazione a inizio giugno sul tema del fermo delle rinnovabili nel nostro Paese. Finalmente anche l’Italia unisce le forze per impedire – come insidiosamente si palesa anche in alcuni incoerenze che spuntano nella stessa Commissione Ue – che la guerra, il pericolo nucleare e la crisi climatica rendano invivibile il pianeta che abbiamo ottenuto in prestito.

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Civitavecchia, dal gas al vento e al sole: una grande conquista dei cittadini di cui non si parla

In questi giorni è passata sotto silenzio una notizia di notevole rilievo che – a mio parere – potrebbe non solo influenzare ma qualificare il prossimo decennio dell’assetto del sistema energetico nazionale. Mentre la guerra in corso spinge i nostri ministri e capi di governo, affiancati dall’immancabile ad di Eni, De Scalzi, a siglare accordi per l’approvvigionamento di gas fossile proveniente dai pozzi e da regioni lontane dalla nostra penisola, con bilanci energetici ambientali e implicazioni finanziarie e politiche pesantemente sfavorevoli, il 22 marzo una serie simultanea di comunicati ufficiali – sottolineati con enfasi dalle sigle in calce di tre grandi imprese Eni, Cni, Cdp e Cip – hanno inondato le redazioni italiane e europee, senza tuttavia che le notizie in essi contenuti fossero in particolar modo amplificate da giornali, social o tv.

Il 22 marzo è stata formalizzata la costituzione di una colossale joint venture tra Eni, Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e un forte partner danese (Cip) – il più grande gestore di fondi dedicato agli investimenti verdi nelle rinnovabili – per rendere operativi a regime 3 GW di nuova capacità verde, ottenuta con eolico galleggiante a 30 km dalle coste del Tirreno (Civitavecchia) e delle grandi isole italiane.

Deve sempre sollevare apprensione la presenza di grandi interessi economici e finanziari nell’esecuzione di progetti decentrati e a carattere territoriale, ma credo che, nel caso della fruizione dell’elettricità, l’attenzione dei cittadini e il loro diritto a condeterminare le scelte partecipando e cooperando tra di loro possano risolvere ogni prevaricazione. Forse si può capire perché la comunicazione della nuova Joint Venture per l’eolico offshore sia stata data un po’ sotto traccia – come un improvviso colpo di fulmine da appannare dopo scoccato. In effetti, essa non poteva che risultare del tutto contraddittoria rispetto al rilancio del gas e del sistema centralizzato di approvvigionamento e combustione dei fossili per produrre energia, cui ci ha abituato il sistema che puntiamo a cambiare.

Siamo nel mezzo di una disputa aspra tra cittadini locali e rappresentanze istituzionali riguardo all’approdo in rada di enormi rigassificatori a Piombino e Ravenna. E il tenue clamore per un irreversibile rilancio delle rinnovabili, attraverso una partnership robusta e credibile, è del tutto spiegabile con il coinvolgimento e la compromissione dei nostri governi con la vecchia politica energetica. In questi stessi giorni viene rilanciato il progetto di sequestro di CO2 in Romagna, sotto l’egida di Eni e del Presidente della Regione, mentre la presidenza del Friuli mostra arrendevolezza nell’accettare la riconversione della Centrale a carbone di A2A a Monfalcone con un più potente turbogas.

Di conseguenza, un impegno così rilevante su eolico e fotovoltaico troverà resistenze e imbarazzi nel constatare che settori energetici, finanziari e industriali si muovono verso positive ricadute occupazionali, manifatturiere e ambientali fin qui ignorate dal Pniec (v. https://www.mase.gov.it/), dal maggior ente energetico nazionale e dai governi romani.

In ogni caso, non si può fare a meno di constatare che l’avvio di una riconversione dal gas al vento e al sole è maturata a Civitavecchia in un contesto di straordinaria partecipazione democratica che, andando oltre alla mera opposizione al metano, ha saputo costruire le condizioni per una coalizione sociale che ha favorito l’incontro di cittadini, studenti, sindacati, ricercatori e tecnici e ha tradotto in politica la pressione sociale per liberarsi dall’inquinamento.

Di questa premessa nei comunicati usciti il 22 marzo non c’è traccia, mentre sta proprio in essa il valore aggiunto dell’approdo cui si sta pervenendo e che richiederà passi ulteriori verso la solarizzazione delle strutture del porto, le comunità energetiche e la mobilità sostenibile.

La stima del progetto complessivo è data a circa 5 TWh (2 milioni di famiglie ai consumi attuali); la sua operatività è prevista tra il 2028 e il 2031 a valle della conclusione dell’iter autorizzativo e dei lavori di installazione da compiere. La realizzazione sarà affidata a un team di lavoro congiunto affiancato da Nice Technology e 7 Seas Wind Power, società italiane che si avviano a consolidare la loro esperienza nel comparto offshore incoraggiando la crescita occupazionale e professionale anche della filiera produttiva locale.

Forse comincia a traballare l’ipotesi propria del governo Cingolani-Draghi e, probabilmente, di quello attuale di dilazionare i tempi per l’abbandono del gas entro il 2050. E perfino l’Eni, dopo la rinuncia dell’Enel al turbogas di Torrevaldaliga, si comincia a rendere conto che non abbiamo più tempo per mantenere un mix fossile di fonti energetiche oltre la metà del secolo.

In conclusione, la risorsa che nasce dalla partecipazione e dalla democrazia dal basso dimostra che si possono far convergere sulla conversione ecologica interessi riluttanti a riprogettare l’erogazione di energia sulla base di un nuovo paradigma duraturo e desiderabile, in armonia con la biosfera, come si conviene in una fase di drammatica emergenza climatica e sociale.

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