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Comitato per la riconversione a 100% solare e idrogeno verde della centrale ENEL a carbone a Civitavecchia – Intervista a Mario Agostinelli

https://www.facebook.com/watch/?v=740765520035718

A Civitavecchia si sta aprendo un dibattito sulla riconversione della centrale a carbone che ha segni di novità molto importanti. In gioco c’è la riconversione ancora al fossile (gas) come da copione o, in alternativa, un progetto di completa riconversione di tutto il sitema energetico locale terrotoriale, che punta entro il 2040 al 100% di rinnovabili e all’idrogeno verde in un sistema integrato che riguarda la città, la mobilità, l’occupazione industriale, il porto, la valorizzazione del paesaggio e di un turismo di prossimità oltre che la salubrità dell’aria. Naturalmente siamo solo ai primordi di una possibile riconversione, che avrebbe forti chiance di realizzazione e significato nazionale ed europeo solo se mobilitasse proposte partecipazione, intelligenze, lavoro, ricerca, studio e democrazia. Risorse di cui è ricca la cittadina laziale e il territorio intorno. Insomma una comunità  energetica dopo il covid-19, laddove viene dismesso un sito carbonifero. Allegati trovate una descrizione del progetto e le prime prese di posizione di PD e Verdi di Civitavecchia.

Documentazione:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/07/06/civitavecchia-basta-combustibili-fossili-ora-servono-rinnovabili-idrogeno-e-lavoro/5858452/

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Cambiamenti climatici, le banche tifano per i combustibili fossili. Ma la natura non può più aspettare

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

In queste giornate di forti emozioni e coinvolgimento, creati dall’entrata in campo di un nuovo movimento schiettamente giovanile che si organizza su un terreno colpevolmente ignorato dai governanti delle generazioni passate, lascio alla testimonianza diretta degli eventi che si manifestano nelle assemblee e nelle piazze di tutto il pianeta il compito di trasmettere il loro potentissimo messaggio di fondo. Qui invece vorrei riflettere su un aspetto poco trattato quando si parla dell’emergenza climatica e si afferma – giustamente – che non esiste una soluzione “di mercato” ai disastri ambientali. Vorrei, cioè trattare il ruolo che il capitale finanziario e le banche hanno nel dare continuità al sistema dei fossili, ostacolando la decarbonizzazione che deve avvenire in orizzonti temporali vicinissimi.

Bill Mckibben, un ambientalista statunitense attivo anche come scrittore e giornalista, definito nel 2010 dal Boston Globe come “probabilmente l’ambientalista più influente della nazione”, ha lavorato sul cambiamento climatico per 30 anni e dice di aver imparato a liberare la sua angoscia e a tenerla sotto controllo. Ma, negli ultimi mesi, ammette che la sua angoscia vera riguarda i suoi figli. Lo scorso autunno gli scienziati climatici di tutto il mondo hanno affermato che, se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati nell’accordo sul clima di Parigi del 2015, abbiamo a disposizione un numero di anni che non vanno al di là delle dita delle mie mani.

Nel mondo di Trump, Putin, Bolsonaro e delle compagnie di combustibili fossili che li sostengono, sembra impossibile modificare il quadro che si prospetta. Invece non è nemmeno tecnologicamente impossibile: nell’ultimo decennio è stato abbassato il prezzo dell’energia solare ed eolica rispettivamente del 90 e 70 per cento. Ma non basta, se oltre alla tecnologia non muta la direzione dell’economia capitalista e se non entra in campo, assieme ai movimenti planetari degli studenti e delle donne, il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori che sentano la riconversione ecologica come il principale obiettivo contrattuale.

C’è un ruolo delle banche e della finanza, che di frequente viene occultato e che ritarda le misure urgenti per combattere il cambiamento climatico in corso. Chi concentra la maggior parte del denaro e della ricchezza creata a spese del lavoro e della natura, ha un potere che potrebbe essere esercitato in pochi mesi se cessasse di finanziare i fossili. Mckibben suggerisce che la chiave per interrompere il flusso di carbonio nell’atmosfera sia quella di interrompere il flusso di denaro verso carbone, petrolio e gas.

L’industria ha nelle sue riserve cinque volte più carbonio di quanto il consenso scientifico pensi che possiamo tranquillamente bruciare. Un’istituzione religiosa dopo l’altra si è spogliata di petrolio e gas e Papa Francesco ha convocato i dirigenti del settore energetico in Vaticano per dire loro che devono lasciare il carbone sottoterra.

Ma il sistema bancario si è unito alle industrie del fossile per impedirne l’uscita di scena. Nei tre anni trascorsi dalla fine dei colloqui sul clima di Parigi, la banca Chase ha investito 196 miliardi di dollari in finanziamenti per l’industria dei combustibili fossili, molti dei quali per finanziare nuove iniziative estreme: trivellazioni in acque ultra-profonde, estrazione di petrolio artico, trivellazioni nell’Adriatico. Nei fatti Jamie Dimon, il Ceo di JPMorgan Chase, è un barone del petrolio, carbone e gas quasi senza pari. Lo stesso vale per le attività di gestione patrimoniale e assicurativa: senza di esse le società di combustibili fossili rimarrebbero quasi letteralmente a corto di gas.

Nei tre anni successivi alla firma dell’accordo sul clima di Parigi, i prestiti delle banche all’industria sono aumentati ogni anno e gran parte del denaro va verso le forme più estreme di sviluppo energetico. Tutti sanno che prima o poi l’era dei combustibili fossili finirà, e se una banca gigantesca come Chase – o altre analoghe – si ritirasse, invierebbe un segnale inconfondibile di un’imminente “bolla del carbonio”, con danni gravi per i vettori ferroviari, i proprietari di porti e le imprese appaltatrici di carbone o dipendenti dal gas. Un danno che tuttavia impallidirebbe a fronte del tipo di previsioni su quel che resterebbe del pianeta se l’industria dei combustibili fossili continuasse sul suo percorso attuale per un altro decennio.

Quando si riflette sulla dimensione di questi problemi, appare in tutta la sua povertà di strategia la dimensione della politica energetica nazionale, che garantisce la costruzione di gasdotti come il Tap o la riconversione delle centrali a carbone in impianti a gas fossile come previsto per Civitavecchia, con la prospettiva di un ritorno degli investimenti a 25 anni, quando le tariffe pagate dai cittadini in bolletta continueranno magari a essere incassate, mentre la natura non avrà più risorse sufficienti a rigenerarsi.

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Petrolio, carbone e gas salveranno il lavoro?

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l’incarico di sostenere l’accordo di Parigi 2015. Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni fa, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l’incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo. Vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve che, secondo l’Ipcc, non può andare oltre i prossimi 15 anni.

Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni – senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Donald Trump Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali a essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella Laudato Si’ e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma (mi auguro) già capace di segnali al prossimo congresso Cgil. L’accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare la strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (Tav) o lungo un litorale marino (Tap) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all’eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine “giusta transizione”, che non può che basarsi su un’attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5°C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. È d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati a una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone, petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice un’ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione Ue è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all’Ue. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Val di Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

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La transizione energetica in Italia: tra strategie di conservazione e comunità emergenti

Con una postilla sul referendum del 17 aprile 2016

a cura di Giovanni Carrosio

Siamo nel mezzo di una crisi energetica, forse la piùimportante nella storia dell’umanità. Faccio riferimento al concetto di crisi, così come è stato adoperato da Immanuel Wallerstein: una fase nella quale le contraddizioni interne al sistema energetico dominante non possono piùessere risolte ristrutturando il sistema tale e quale, ma inducono ad un periodo di transizione caratterizzato da instabilitàe oscillazioni sempre più estreme tra varie alternative possibili di uscita dalla crisi. Una fase nella quale il sistema è aperto a diverse soluzioni alternative, ognuna delle quali èintrinsecamente possibile: si fronteggiano progetti di egemonia differenti, alcuni con più possibilità di affermazione, perchésorretti da poteri ancora dominanti, altri più fragili, perché decisamente discontinui rispetto ad essi.

Nei periodi di transizione, chi del sistema è parte, sia in una logica consociativa che antagonistica (movimenti sociali, forze politiche organizzate, gruppi di interesse economici, governi e istituzioni, cittadini e comunità locali) esercita un ruolo importante: in base alla composizione delle pressioni esercitate, il sistema prende un orientamento che con il tempo si fa dominante. I periodi di transizione possono essere anche molto lunghi, certamente caotici: il sistema oscilla in modo disordinato spinto da logiche contraddittorie, ma a un certo punto, il risultato delle pressioni diventa coerente e ci si ritrova collocati in un sistema energetico differente.

Assai difficile prevedere quali saranno i caratteri peculiari del nuovo sistema, non siamo ancora in una fase matura della transizione, e per questo i movimenti sociali, le nuove eco-imprese e le comunità locali hanno ancora molte possibilità per orientarne la direzione. Ciòche dobbiamo fare è innanzitutto cercare di comprendere in modo analitico ciò che sta succedendo. Èindispensabile uno sforzo di analisi per collocare le nostre scelte nel presente, affinché le cose prendano verosimilmente il corso che auspichiamo.

Le ragioni della crisi energetica

La crisi energetica prende forma per una serie di ragioni interne ed esterne al sistema: sono ragioni interne l’esaurimento delle risorse e la crescita della domanda globale di energia; sono invece fattori esterni il cambiamento climatico, la nascita di gruppi di pressione che orientano il proprio agire politico per modificare il sistema energetico, le lotte ambientali portate avanti dalle comunità contro i danni ambientali provocati da grandi impianti per la produzione di energia.

Proviamo ad approfondire i vari fattori citati. Il progressivo esaurimento delle risorse fossili è uno dei fattori predominanti della crisi: su di esso esistono proiezioni condivise, nonostante sia molto difficile fare delle previsioni. I paesi detentori delle risorse fossili tendono a minimizzare i dati che mostrano la scarsità di risorse, così come le grandi compagnie di estrazione. La maggior parte degli scienziati, tuttavia, concorda su proiezioni che ci vedono nel pieno del picco del petrolio, con conseguenze imprevedibili sulla scala temporale: è difficile prevedere quando vi saranno conseguenze irreversibili sui sistemi socio-politici e con quale velocità. L’andamento del prezzo del petrolio sarà un nodo cruciale di accelerazione o rallentamento della crisi energetica: controllarne le dinamiche significa anche governare la crisi. Esistono perciò forze organizzate che certamente hanno più potere di altre nell’orientare il sistema durante la transizione. Il secondo fattore, strettamente connesso al primo, è l’incremento dei consumi da parte dei paesi emergenti. Il fatto che Cina, India e Brasile abbiano sempre più bisogno di energia per dare gambe alla crescita economica, introduce un elemento di instabilità nel sistema energetico globale. Non solo le risorse fossili sono in esaurimento, ma il numero di pretendenti si allarga ed i consumi globali crescono vorticosamente. Le instabilitàche si producono sono soprattutto di natura geopolitica, dovute alla contraddizione tra sicurezza energetica degli stati nazionali e contrazione delle risorse disponibili e alle conseguenti tensioni tra stati per l’accaparramento di nuovi giacimenti. I recenti accadimenti in Ucraina ci mostrano con forza come la competizione per le risorse produca conseguenze geopolitiche incontrollabili. E le drammatiche tensioni che continuano a generarsi a partire dal Medio-Oriente, con l’avanzata del terrorismo di Daesh che si sorregge su un’economia petro- terroristica, ci ricordano come il legame tra consumatori occidentali di energia e padroni dei pozzi sia fatto di intrecci che producono commistioni e zone d’ombra tra apocalittiche categorie etiche come quella del Bene e del Male.

Un fattore esterno al sistema energetico rende il quadro ancora più complesso: mi riferisco al climate change, ovvero alle alterazioni che le emissioni per la produzione di energia da fonti fossili hanno provocato al clima. Gli effetti del riscaldamento del pianeta sono ormai tangibili: essi prendono forma nel caos climatico, che si manifesta con eventi estremi sempre più frequenti, capaci di mettere in ginocchio intere regioni del pianeta. L’esistenza della specie umana sulla terra rischia di diventare assai difficile, a causa dell’innalzamento dei mari, dell’inaridimento di vaste porzioni di terra, di temperature sempre piu elevate e dell’erosione del saggio di produttività dell’agricoltura, che potrebbe mettere in serio pericolo la sicurezza alimentare su scala globale. Le conseguenze economiche di questi eventi atmosferici, che attirano l’attenzione dei poteri dominanti piùdelle catastrofiche conseguenze ambientali, non sono piùtrascurabili e pongono il tema della lotta al cambiamento climatico e delle strategie di mitigazione e adattamento al centro dell’agenda politica di una parte delle organizzazioni internazionali. Una delle principali misure per ridurre le emissioni in atmosfera riguarda proprio il settore energetico: diminuire drasticamente i consumi e convertire il sistema fossile verso un sistema carbon free è l’obiettivo prioritario per provare a mitigare il cambiamento climatico. Queste esigenze si scontrano però con quelle dei paesi emergenti, di molti governi e con gli interessi di grandi gruppi industriali: i paesi emergenti pretendono di perseverare sulla strada della crescita, come l’Occidente ha fatto nel corso degli ultimi due secoli; i governi occidentali e grandi gruppi economici temono che un’applicazione rigorosa del protocollo di Kyoto li porti a perdere l’egemonia sul sistema economico globale.

Esistono ancora due fattori esterni, che si manifestano come frattura tra sistema energetico dominante e società. In primo luogo, crescono le opposizioni delle comunità locali alla ricerca di nuovi siti estrattivi, alla costruzione di nuove infrastrutture energetiche, alla presenza di impianti inquinanti. Ne sono un esempio, nel caso italiano, i movimenti contro la conversione a carbone delle centrali di Porto Tolle, La Spezia, Rossano Calabro, Civitavecchia; i comitati che si battono per la conversione ecologica del sito minerario del Sulcis, la rete di associazioni che contesta la costruzione di rigassificatori al largo delle coste, i cittadini organizzati che si oppongono alle attività estrattive dell’ENI in Basilicata. In secondo luogo, prende forma un consumerismo critico dell’energia. Nascono gruppi di consumatori ed associazioni che reclamano energia pulita e giusta. Alcuni esercitano pressione sui grandi gruppi che gestiscono le risorse fossili e si organizzano per acquisti collettivi di piccoli dispositivi per la micro-generazione di energia da fonti rinnovabili – per esempio le cooperative Retenergie – oppure danno vita a cooperative di consumo di energia 100% etica e rinnovabile – come ènostra, che consente ai propri soci di staccarsi dai tradizionali fornitori di energia elettrica. Altri, si organizzano in forme comunitarie per il raggiungimento dell’autonomia energetica su scala locale, diventando co-produttori di energia. Le associazioni in particolare – come Energia Felice, Comitato Sìalle Rinnovabili No al Nucleare – si mobilitano in positivo per la piena attuazione del referendum sul nucleare. Accanto ai movimenti sociali per l’alternativa energetica, vi è una fitta rete di imprese medio-piccole, che cercano spazio tra le pieghe non presidiate dal sistema dominante: professionisti, installatori, produttori di micro-dispositivi, certificatori energetici, appartenenti alla filiera della nuova edilizia a consumi zero.

Un altro fronte, spesso sottovalutato dai movimenti sociali e loro potenziale alleato, è dato dal riposizionamento di grandi imprese ad alto tasso di innovazione tecnologica, come Siemens, che stanno investendo in nuove tecnologie legate alle smart grid, dando una spinta dall’interno del mondo industriale alla transizione. Si tratta di operazioni spesso ambivalenti, portate avanti anche da colossi del settore energetico tradizionale – pensiamo ai concentratori solari luminescenti di ENI – che fanno parte allo stesso tempo di strategie di conservazione (si veda prossimo paragrafo), e di operazioni che aprono contraddizioni e dissociazione di interessi all’interno dello stesso regime energetico.

Le strategie di conservazione: grandi imprese, carbon lock-in e la trappola del gas

Abbiamo giàdetto come la transizione energetica non sia un processo univoco. Il passaggio da un sistema incentrato sulle risorse fossili ad uno fondato prevalentemente su quelle rinnovabili èun percorso accidentato, con fasi di accelerazione, fasi di stallo e momenti di arretramento. Nei periodi di transizione operano tante forze: resistenza e cambiamento si scontrano. Le forze dominanti adottano diverse strategie per non perdere l’egemonia sul sistema energetico. Alcuni parlano di carbon lock-in, come quell’insieme di azioni funzionali alla conservazione del sistema tecno- istituzionale che sfrutta le fonti fossili. Per riprodursi incontrastato, questo sistema agisce su diversi fronti.

Il primo èpiù tangibile: si tratta della strenua conservazione dell’esistente, soprattutto laddove non esistono forti opposizioni politiche e sociali capaci di mettere in discussione le loro attività e i sistemi regolativi sono molto permissivi sotto il profilo ambientale. La Strategia Energetica Nazionale di Passera va ampiamente in questa direzione, prevedendo anche la sottrazione della materia energetica alle regioni per un ri-accentramento decisionale. Il caso lucano ci rimanda a questo tema: un’area socialmente fragile, dove non esistono consistenti risorse di mobilitazione capaci di rimettere in discussione le attività dell’ENI.

Il secondo fronte èpiù subdolo, perché propagandato spesso come cambiamento in una direzione di sostenibilita. Si tratta dell’ammodernamento dell’esistente, secondo i principi della modernizzazione ecologica. I grandi investimenti in ricerca e sviluppo per la diffusione di tecnologie di cattura e stoccaggio di CO2 nelle centrali a carbone, sono un esempio di come i grandi gruppi orientano la ricerca sulle tecnologie per combattere il cambiamento climatico in una logica di preservazione della propria egemonia. Il carbon capture and storage consente di continuare a produrre energia da carbone, rendendo il processo meno inquinante in termini di emissioni. Si tratta di una innovazione interna al percorso tecnologico del carbone, che ne consente la sopravvivenza anche in ambienti più ostili, dove le pressioni sociali sono forti e le normative ambientali più stringenti. In questo caso si innova per conservare, affinché la produzione di energia da carbone non venga sostituita da sistemi tecnologici alternativi. Su questa tecnologia esistono controversie scientifiche importanti. Molti scienziati e analisti ritengono che lo stoccaggio di anidride carbonica nel sottosuolo non sia affatto sicuro: alcuni paventano un legame tra incremento del rischio sismico ed esperimenti di storage. Si tratta pertanto di una soluzione difficilmente percorribile al fine di ridurre le emissioni climalteranti, ma sulla quale si riversano enormi quantità di denaro per ricerca e sviluppo (a discapito della ricerca su risparmio e rinnovabili). Ancora una volta, perciò, non si trova soluzione ad un problema ambientale, ma lo si sposta su un altro versante non ancora saturo.

Il terzo fronte èdi apertura nei confronti delle rinnovabili e di condizionamento delle politiche di incentivazione e di regolazione. Il sistema dominante entra nel mercato delle rinnovabili, per orientarlo e governarlo, imprimendo accelerazioni e provocando fasi di stallo a seconda delle proprie esigenze. Il tentativo di governare le rinnovabili è funzionale a costruire un sistema nel quale esse ricoprano un ruolo esiziale e complementare. Enel, per esempio, ha da qualche anno dato vita alla società controllata Enel GreenPower, con l’obiettivo di investire nelle energie rinnovabili, mantenendo il controllo sul mercato dell’energia. Gli investimenti nelle rinnovabili cresciuti con forza negli ultimi cinque anni, hanno provocato una destabilizzazione del sistema elettrico nazionale, con importanti problemi di gestione della rete. I grandi gruppi hanno investito in produzione di energia, senza intervenire sullo stoccaggio e l’ammodernamento delle reti. In questo modo, contribuiscono a diffondere una immagine falsata sulle rinnovabili creando un clima di delegittimazione. L’immagine che trasmettono è di inaffidabilità e incapacità di garantire la continuità nella fornitura di energia.

Ai tre fronti di conservazione va aggiunta la trappola del gas: ovvero, l’idea dominante per cui il passaggio dalle fonti fossili alle rinnovabili richieda una fonte di transizione rappresentata dal gas naturale. Ma gli ingenti investimenti che stanno facendo le grandi imprese fossili con il consenso di alleanze interstatali su questo fronte sono un ulteriore tentativo di bloccare la transizione. L’imponente apparato tecno-istituzionale del gas naturale si impone come nuovo dispositivo di conservazione del sistema fossile. L’Italia si trova al centro di questa strategia, con l’ambizione di diventare hub strategico del gas per il resto d’Europa. Rientrano in questo obiettivo i tre rigassificatori entrati in funzione negli ultimi anni (Panigaglia, Porto Tolle e Livorno), i quattro approvati (Porto Empedocle, Gioia Tauro, Priolo Gargallo, Trieste, Capobianco) e i cinque ancora in fase progettuale (Ravenna, Taranto, Monfalcone, Rosignano, Porto Recanati). A questi va aggiunto il Trans Adriatic Pipeline (TAP), un progetto di gasdotto che dalla Grecia dovrebbe passare per l’Albania, immergersi nel Mar Adriatico per poi rispuntare in Puglia, in uno dei tratti di costa piu belli e incontaminati del Salento. Il TAP èsolo un segmento di un’opera ancora più grande, un serpentone di 3.500 chilometri che una volta completato porterà in Europa il gas che si trova al largo dell’Azerbaigian, nel Mar Caspio. In un secondo momento il Corridoio potrebbe comprendere anche il gasdotto Trans-Caspian, dal settembre 2011 oggetto di un negoziato diretto tra la Commissione europea e il governo del Turkmenistan. Gli altri due tratti si chiamano Trans Anatolian Gas Pipeline (TANAP) che, come dice il nome, interesserà il territorio turco, e Southern Caucasus Gas Pipeline, che parte dal Mar Caspio e passa per le Georgia.

L’alternativa energetica: risparmio, micro-generazione e comunità locali

Di fronte alla pervasività del sistema dominante e alla sussunzione delle rinnovabili all’interno di una strategia di conservazione, sembra impossibile intervenire dal basso per orientare la transizione energetica verso un sistema energetico democratico, giusto e libero dal carbonio. Nella lunga transizione dal carbone ai giorni nostri, i soggetti del cambiamento sono mutati.

Un bravo storico della Columbia University, Timothy Mitchell, nel suo libro “Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil (2012)”, ha delineato una relazione molto stretta tra l’avvento del carbone e l’importanza della classe operaia come soggetto politico organizzato all’interno delle democrazie occidentali. Il ciclo del carbone permetteva alla classe operaia di poter rivendicare diritti attraverso lo sciopero in una serie di nodi centrali del ciclo produttivo, dalla sua estrazione fino all’utilizzo nelle centrali. Bloccare una sola di queste fasi significava far mancare energia a tutto il sistema produttivo di uno stato nazionale. Pensiamo a quanta risonanza e valore simbolico ha avuto ancora negli anni 1984-1985 lo scontro tra i minatori del carbone e la Tatcher, che voleva chiudere – ed effettivamente chiuse – tutti i siti minerari in Inghilterra non solo per ragioni economiche, ma per sottrarre ai lavoratori un terreno di lotta attraverso cui rivendicare diritti e democrazia. E non a caso, la chiusura delle miniere prevedeva una transizione energetica verso petrolio e nucleare, fonti energetiche che richiedono un sistema di potere molto concentrato.

Per Mitchell il declino tardo novecentesco del movimento operaio come forza del cambiamento ha una delle cause proprio nel mutamento del sistema energetico e nel passaggio dalla centralità del carbone a quella del petrolio. Quest’ultima, fonte poco controllabile socialmente perché dislocata soprattutto nei paesi mediorientali e bisognosa di un apparato militare per gestirne le implicazioni geopolitiche, ha fatto sì che i lavoratori e i cittadini dei paesi occidentali perdessero la possibilità di controllare l’elemento primario per il funzionamento degli apparati sociali e produttivi della società contemporanea.

Come si collochino oggi i lavoratori nella transizione energetica, se forza di cambiamento o di conservazione, è un elemento che richiederebbe un approfondimento. Se il conflitto è tra decentramento dei sistemi produttivi – fino ai micro-dispositivi famigliari – e centralizzazione emergono nuovi soggetti: i cittadini e le comunità locali, insieme ai professionisti e alle piccole e medie imprese, hanno ampi spazi di agibilità politica dentro il paradigma della transizione. Essi mettono in luce una serie di antinomie che ci portano oltre la dialettica tra capitale e lavoro: decentramento/accentramento, risparmio/produzione, autonomia/dipendenza, sovranità energetica/sicurezza energetica. Dentro questa cornice concettuale, il modello “fordista” di produzione di energia entra certamente in crisi con tutte le sue componenti, anche quella del lavoro e della sua rappresentanza. E cambiano anche le forme e i fini delle lotte. Il risparmio energetico diventa lo strumento più forte per orientare la transizione dal basso (si veda Leonardo Becchetti, Il mercato siamo noi. Politiche per un’economia della felicità) mettendo in discussione il patto produttivistico tra imprese fossili e lavoro. Risparmiare energia significa rendere superflua una buona parte della produzione, riducendo il peso che le grandi imprese energetiche hanno sull’ambiente. Con le nuove tecnologie e adottando comportamenti virtuosi è possibile ridurre drasticamente i consumi di energia mantenendo inalterata la qualità delle nostre vite. Fare pressione per ambiziose politiche di risparmio energetico su più livelli è molto importante. Ma è altrettanto importante mobilitare cittadini e comunità locali perché adottino strategie di risparmio. Il risparmio di energia è una forma di critica materiale al sistema energetico dominante: bisogna riflettere come mai fino ad oggi le mobilitazioni locali contro il biocidio delle grandi imprese di energia non hanno promosso forme di lotta inedite e generalizzabili come lo sciopero dei contatori; può essere mobilitato un patrimonio di creatività per innovare le forme di protesta, in modo tale da sottrarre al sistema fossile la linfa vitale. Il secondo strumento per orientare la transizione energetica è la produzione di energia in forma decentrata, a livello di comunità o di singole famiglie. In Italia, ad esempio, vi è stata una straordinaria diffusione del fotovoltaico.

Questa diffusione ha avuto certamente connotati ambivalenti: ci sono state speculazioni sugli incentivi da parte di fondi di investimento e imprese multinazionali e una buona parte della potenza installata è rappresentata da impianti a terra, che hanno occupato terreni agricoli talvolta molto fertili. La questione importante che pochi osservatori hanno messo in evidenza, è che circa 200 mila famiglie, grazie al sistema di incentivazione, hanno installato piccoli impianti raggiungendo l’autonomia energetica della propria abitazione. Le motivazioni possono essere molteplici, ma la cosa che conta è che queste persone sono uscite dal sistema fossile per la produzione di energia domestica. Su un livello più alto, è necessario ripensare l’interazione tra utenti ed ex municipalizzate, soprattutto nel Nord Italia. Le più importanti multi-utilities del Paese si muovono ormai come imprese de-territorializzate e rappresentano uno dei freni più importanti alla transizione energetica.

La rivendicazione di spazi di democrazia all’interno di questi gruppi, attraverso la partecipazione diretta dei cittadini, è un elemento fondamentale per gestire a livello locale la transizione, invertendo la deriva produttivistica che queste imprese hanno assunto e riportando la lettura dei bisogni delle comunità locali al centro delle strategie imprenditoriali. Altrettanto importante, conoscere e mettere in rete le comunità locali che hanno adottato in modo autonomo azioni collettive per la produzione ed il risparmio di energia locale: nei piccoli comuni delle aree interne del Paese, esistono tanti progetti ed esperienze concrete di socializzazione dell’energia e di comunità in transizione verso un sistema libero dal carbonio. In altre zone, emergono esperienze come i Gruppi d’Acquisto di energia verde, o ancora i GAS per l’acquisto collettivo di micro- dispositivi energetici. Si fanno largo imprese sociali che operano nel settore del risparmio, e nuove cooperative di produzione e consumo, per la realizzazione di impianti fotovoltaici, mini- idroelettrici, eolici attraverso forme di azionariato popolare.

Legare queste esperienze di pratica dell’alternativa energetica alle lotte contro il biocidio provocato dal sistema energetico dominante è allora strategico, al fine di intervenire nella crisi energetica ed aprire inedite vie d’uscita, che si pongano come alternativa alle diverse facce assunte dalla predominante spinta alla conservazione.

Postilla: il referendum del 17 aprile 2016 nella transizione energetica

Il referendum del 17 aprile – al di là del perimetro ristretto del quesito sul quale siamo chiamati ad esprimerci – rappresenta un voto sulla transizione energetica. Quel giorno siamo chiamati a fare una scelta di campo: con il mondo ormai decadente delle fossili, o per una alternativa energetica ancora in gran parte da scrivere, ma sulla quale i cittadini, le eco-imprese, le comunità locali, i movimenti sociali possono realmente incidere nella sua definizione. E sarà anche l’occasione per chiedere con forza l’attuazione degli impegni presi durante la Conferenza di Parigi, COP21. Arturo Lorenzoni, economista dell’energia dello IEFE – Bocconi, coglie questa macroscopica contraddizione “applaudiamo al timido accordo raggiunto a Parigi alla Cop21, auspicando un’azione efficace per decarbonizzare l’economia, oppure ignoriamo i vincoli climatici e continuiamo a guardare all’economia attuale, preservandone equilibri e traiettorie tecnologiche? Le due cose non sono conciliabili, per quanto il nostro governo provi a difendere la sua posizione altalenante”.

Allo stesso modo, Giovanna Ricoveri, nell’ultimo editoriale della rivista Ecologia Politica, ci ricorda come il referendum rappresenta una occasione per invertire la politica ambientale del governo italiano, che da una parte sottoscrive l’impegno preso alla Conferenza di Parigi per contenere la febbre della Terra e dall’altra non solo incentiva le fonti energetiche fossili a discapito delle rinnovabili, ma invita i cittadini a non andare a votare affinché il referendum fallisca.

La vittoria del SI al referendum del 17 aprile prossimo sarà un ulteriore tassello per orientare la transizione energetica verso un modello democratico e giusto, che guarda al futuro e al lavoro, come avrebbe detto un grande profeta liberale e socialista del nostro paese, Aldo Capitini, un voto per l’omnicrazia (energetica).

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Giù il petrolio, giù le borse, su il carbone

dal Blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015L’obiettivo principale della decarbonizzazione dell’economia, così duramente discusso nelle riunioni preparatorie e sottolineato come priorità dall’IPCC, è stato ridotto alla conferenza Cop 21 di Parigi a un vago riferimento. Il picco di emissioni potrebbe raggiungere qualsiasi grandezza, raggiungere il suo massimo in un periodo di tempo indefinito, scendere a zero solo a fine secolo. Non si menziona neanche una volta che i combustibili fossili abbiano termine. Qui è evidente la resistenza delle industrie del settore fossile e dei padroni del petrolio, del gas e del carbone. Secondo un’analisi congiunta dell’Istituto per lo Sviluppo Internazionale e dell’ODI, solo i paesi del G20, le prime 20 economie, canalizzano ogni anno oltre 600 miliardi di dollari di fondi pubblici sotto forma di sussidi alle compagnie dell’energia fossile. In questi sussidi non sono considerati i 1200 miliardi all’anno che gli Emirati Arabi mettono a bilancio per tenere basso il prezzo del petrolio e combattere la loro guerra contro i concorrenti di USA, Iran e Russia, con qualche complicità tollerata con l’esecrato ISIS.

Un notevole gruppo di 32 personalità, guidato da Stiglitz e altri premi Nobel ha chiesto l’introduzione di tasse per le emissioni di carbonio, sia per coprire i costi ambientali e sociali che sono ora trasferiti alla società che per ridurre le emissioni e investire in sistemi energetici senza emissioni di carbonio. Uno straordinario contributo ad affrontare la crisi togliendo soldi e armi alle multinazionali del passato e investendo in occupazione, risanamento del clima, redistribuzione del reddito. Ma di questa misura così necessaria non se ne discute a Davos o nei consessi dei banchieri che, pur di mantenere una rendita finanziaria, agitano lo spread e deprimono i listini delle borse terrorizzando i risparmiatori.

Cosa può succedere se, dopo la conferenza di Parigi, che ha fissato ad 1.5 °C il limite dell’innalzamento della temperatura del pianeta, l’economia e la politica, anziché rivolgersi al sole, al rifiuto dello spreco e all’intelligenza continueranno a ruotare attorno ai prezzi dei combustibili da bruciare nelle caldaie e nei motori? La Banca Mondiale avanza una interessante previsione: i prezzi all’ingrosso dell’energia elettrica in Europa rimarranno depressi e la curva dei prezzi dell’energia elettrica per il futuro nella maggior parte dei mercati manterrà una tendenza al ribasso. Se anche il prezzo del gas scenderà anche a seguito del calo del petrolio, non ci sarà recupero rispetto all’avanzamento delle rinnovabili, che saranno l’unica quota elettrica in crescita a prezzi convenienti. Di fatto, il rapido afflusso di energie rinnovabili, che hanno un costo marginale zero nella generazione e nell’accesso prioritario alla rete, ha rotto (BMI usa proprio la parola “BROKEN”) il business tradizionale dell’energia, mettendo in difficoltà le grandi utilities che, avendo investito in centrali a turbogas, producono in eccesso e sono costrette a tenere in stand by interi impianti, nonostante che il prezzo del gas che viene dai gasdotti dalle navi metaniere sia in discesa. La prospettiva è quella di una ulteriore irreversibile penetrazione economicamente conveniente dell’energia da sole, vento e acqua.

A meno che si rilanci il carbone, che è l’unica fonte in grado di reggere la pressione al ribasso delle fonti a bassa emissione e rimane la carta sporca del sistema energetico centralizzato, messo in discussione a livello innanzitutto ambientale, ma ora a livello anche economico e geopolitico.

Carbon tax e una decarbonizzazione a favore di un sistema energetico decentrato e rinnovabile sono carte ineliminabili per affrontare la crisi e, a lungo termine, per non subire, impotenti, gli shock di borsa. Perché non ce ne parla il cupo ministro Padoan e non prendono decisioni al riguardo i leader europei, che preparano ancora una volta missioni di guerra?

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