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Civitavecchia, dal gas al vento e al sole: una grande conquista dei cittadini di cui non si parla

In questi giorni è passata sotto silenzio una notizia di notevole rilievo che – a mio parere – potrebbe non solo influenzare ma qualificare il prossimo decennio dell’assetto del sistema energetico nazionale. Mentre la guerra in corso spinge i nostri ministri e capi di governo, affiancati dall’immancabile ad di Eni, De Scalzi, a siglare accordi per l’approvvigionamento di gas fossile proveniente dai pozzi e da regioni lontane dalla nostra penisola, con bilanci energetici ambientali e implicazioni finanziarie e politiche pesantemente sfavorevoli, il 22 marzo una serie simultanea di comunicati ufficiali – sottolineati con enfasi dalle sigle in calce di tre grandi imprese Eni, Cni, Cdp e Cip – hanno inondato le redazioni italiane e europee, senza tuttavia che le notizie in essi contenuti fossero in particolar modo amplificate da giornali, social o tv.

Il 22 marzo è stata formalizzata la costituzione di una colossale joint venture tra Eni, Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e un forte partner danese (Cip) – il più grande gestore di fondi dedicato agli investimenti verdi nelle rinnovabili – per rendere operativi a regime 3 GW di nuova capacità verde, ottenuta con eolico galleggiante a 30 km dalle coste del Tirreno (Civitavecchia) e delle grandi isole italiane.

Deve sempre sollevare apprensione la presenza di grandi interessi economici e finanziari nell’esecuzione di progetti decentrati e a carattere territoriale, ma credo che, nel caso della fruizione dell’elettricità, l’attenzione dei cittadini e il loro diritto a condeterminare le scelte partecipando e cooperando tra di loro possano risolvere ogni prevaricazione. Forse si può capire perché la comunicazione della nuova Joint Venture per l’eolico offshore sia stata data un po’ sotto traccia – come un improvviso colpo di fulmine da appannare dopo scoccato. In effetti, essa non poteva che risultare del tutto contraddittoria rispetto al rilancio del gas e del sistema centralizzato di approvvigionamento e combustione dei fossili per produrre energia, cui ci ha abituato il sistema che puntiamo a cambiare.

Siamo nel mezzo di una disputa aspra tra cittadini locali e rappresentanze istituzionali riguardo all’approdo in rada di enormi rigassificatori a Piombino e Ravenna. E il tenue clamore per un irreversibile rilancio delle rinnovabili, attraverso una partnership robusta e credibile, è del tutto spiegabile con il coinvolgimento e la compromissione dei nostri governi con la vecchia politica energetica. In questi stessi giorni viene rilanciato il progetto di sequestro di CO2 in Romagna, sotto l’egida di Eni e del Presidente della Regione, mentre la presidenza del Friuli mostra arrendevolezza nell’accettare la riconversione della Centrale a carbone di A2A a Monfalcone con un più potente turbogas.

Di conseguenza, un impegno così rilevante su eolico e fotovoltaico troverà resistenze e imbarazzi nel constatare che settori energetici, finanziari e industriali si muovono verso positive ricadute occupazionali, manifatturiere e ambientali fin qui ignorate dal Pniec (v. https://www.mase.gov.it/), dal maggior ente energetico nazionale e dai governi romani.

In ogni caso, non si può fare a meno di constatare che l’avvio di una riconversione dal gas al vento e al sole è maturata a Civitavecchia in un contesto di straordinaria partecipazione democratica che, andando oltre alla mera opposizione al metano, ha saputo costruire le condizioni per una coalizione sociale che ha favorito l’incontro di cittadini, studenti, sindacati, ricercatori e tecnici e ha tradotto in politica la pressione sociale per liberarsi dall’inquinamento.

Di questa premessa nei comunicati usciti il 22 marzo non c’è traccia, mentre sta proprio in essa il valore aggiunto dell’approdo cui si sta pervenendo e che richiederà passi ulteriori verso la solarizzazione delle strutture del porto, le comunità energetiche e la mobilità sostenibile.

La stima del progetto complessivo è data a circa 5 TWh (2 milioni di famiglie ai consumi attuali); la sua operatività è prevista tra il 2028 e il 2031 a valle della conclusione dell’iter autorizzativo e dei lavori di installazione da compiere. La realizzazione sarà affidata a un team di lavoro congiunto affiancato da Nice Technology e 7 Seas Wind Power, società italiane che si avviano a consolidare la loro esperienza nel comparto offshore incoraggiando la crescita occupazionale e professionale anche della filiera produttiva locale.

Forse comincia a traballare l’ipotesi propria del governo Cingolani-Draghi e, probabilmente, di quello attuale di dilazionare i tempi per l’abbandono del gas entro il 2050. E perfino l’Eni, dopo la rinuncia dell’Enel al turbogas di Torrevaldaliga, si comincia a rendere conto che non abbiamo più tempo per mantenere un mix fossile di fonti energetiche oltre la metà del secolo.

In conclusione, la risorsa che nasce dalla partecipazione e dalla democrazia dal basso dimostra che si possono far convergere sulla conversione ecologica interessi riluttanti a riprogettare l’erogazione di energia sulla base di un nuovo paradigma duraturo e desiderabile, in armonia con la biosfera, come si conviene in una fase di drammatica emergenza climatica e sociale.

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L’anno nero dell’energia /2 – Sul gas paghiamo il prezzo di non aver investito in transizione verde

[continua da qui]

Le conclusioni della Cop 27

Il 20 novembre, alla COP 27 di Sharm el-Sheikh, tra lo stallo dei governi e le pressioni delle lobby e dopo un’impasse tesa e molte ore di negoziati, quasi 200 paesi hanno raggiunto un accordo per istituire un fondo perdite e danni per assistere le nazioni più colpite dal cambiamento climatico – una richiesta considerata non negoziabile dai paesi in via di sviluppo. Questo però è l’unico risultato davvero significativo dell’Assise protratta tra notevoli tensioni oltre la sua scadenza prevista, dopo aver constatato l’impossibilità di far avanzare il processo avviato dopo Parigi 2015 verso il contenimento dell’aumento della temperatura del pianeta entro 1,5°C.

Ridurre gli obiettivi di Next Generation Ue?

Il confronto a tre (Commissione, Consiglio e Parlamento Ue) di inizio anno sulla tassonomia sembra ripetersi sulla riduzione dell’obbiettivo di rinnovabili al 2030, dal 45% al 40 %. I 27 ministri dell’Energia hanno trovato una maggioranza che sostiene la riduzione dell’obbiettivo, osteggiato solo da Austria, Danimarca, Estonia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Portogallo e Spagna, ma non dall’Italia. Toccherà al Parlamento organizzare una risposta per mantenere il 45% come livello da perseguire.

Ma anche la Germania sta glissando su queste aspettative: infatti è significativa la resistenza della popolazione di Lützerath, un piccolo centro della Renania, nella Germania nordoccidentale, che deve scomparire per far posto all’ampliamento di una delle maggiori miniere a cielo aperto d’Europa, che dovrebbe aumentare di 280 milioni di tonnellate l’estrazione di lignite. Malgrado le precedenti promesse di non farlo e i solenni impegni sulla riduzione delle emissioni che puntuali si rinnovano ad ogni conferenza internazionale sul clima, le istituzioni tedesche locali e nazionali hanno deciso di radere al suolo a metà di gennaio del 2023 il villaggio per continuare i processi di escavazione.

C’è solo un piccolo ostacolo: la popolazione locale – qualche migliaio di cittadini – e i movimenti territoriali non sono affatto d’accordo e hanno cominciato a fermare le solerti autorità che devono garantire la presunta inevitabile avanzata del progresso piegando brutalmente ogni resistenza.

Ccs a Ravenna?

Il nuovo ministro dell’Ambiente (più precisamente ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) Pichetto Fratin e la nuova Presidente del Consiglio Meloni fanno una gran pubblicità alla trasformazione del nostro Paese nell’Hub di distribuzione del gas per l’Europa come se fosse una idea rivoluzionaria del governo appena insediatosi. In realtà era già un progetto del governo precedente sponsorizzata da Eni, in questi mesi in odore di rinnovo del suo CdA. L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e l’amministratore delegato di Snam, Stefano Venier, hanno firmato lo scorso 19 dicembre un accordo attraverso il quale Eni e Snam, in joint venture paritetica, collaboreranno allo sviluppo e alla gestione della Fase 1 del Progetto Ravenna di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS), che prevede la cattura di 25mila tonnellate di CO2 dalla centrale Eni di trattamento di gas naturale di Casalborsetti (Ravenna). Una volta catturata, la CO2 sarà convogliata verso la piattaforma di Porto Corsini Mare Ovest e infine iniettata nell’omonimo giacimento a gas esaurito, nell’offshore ravennate. A testimonianza, quindi, di quanto il metano rimanga strategico nelle intenzioni delle burocrazie che guidano la politica energetica nazionale.

Extraprofitti e prezzo del gas

Grazie alle sanzioni, le società energetiche americane (v. Financial Times, 5 novembre 2022) hanno registrato tra aprile e settembre 2022 extra profitti per 200 miliardi di dollari, mentre le metaniere Usa navigavano davanti alle coste europee europee per scaricare quando i prezzi erano (e sono) ancora elevati. Bp, Eni, Equinor, Repsol, Shell e TotalEnergies, ovvero le sei principali oil major europee, hanno incamerato 74,55 miliardi di dollari di extra-profitti nel solo primo semestre del 2022.

E’ toccato a Starace, ad di Enel, di criticare al meeting Ambrosetti di Cernobbio l’eccessiva dipendenza del Paese dal gas. Anche queste voci autorevoli sono però oscurate dalla politica nostrana, che ha nel gas e nel possibile ripristino del carbone la carta che preferisce adottare in emergenza.

In una fase in cui vediamo le nostre bollette aumentare a dismisura, sia per effetto della speculazione finanziaria che della guerra, dobbiamo – oggi più che mai – leggere la situazione in tutta la sua enorme complessità, per non lasciare che l’emergenza e le paure di un carico insostenibile per bisogni primari siano usate per ridefinire la direzione delle politiche energetiche, gli assetti internazionali e, addirittura, il futuro del pianeta sulla base degli interessi di pochi.

Contrariamente a quello che ci viene detto, quello che viviamo oggi è il prezzo per non aver investito sulla transizione verde. Con la corsa al gas stiamo arricchendo governi autocratici quali Egitto, Azerbaigian, Algeria, Repubblica del Congo e ne stiamo avallando le drammatiche politiche repressive dei diritti umani e sociali e gettando così le basi per nuovi conflitti.

A livello europeo si è concordato che il prezzo del gas non debba scendere sotto un certo livello, per non penalizzare eccessivamente gli scambi speculativi di mercato dove viene quotato. E’ il mercato di Amsterdam (TTF) che decide il prezzo del gas, definendolo sulla base dei titoli future e non sull’effettivo scambio tra offerta e domanda. La sua recente oscillazione tra 330 euro al MWa ed il valore attuale attorno ai 100 euro al MWa è dovuta variabili contingenti, ma non si riflette immediatamente sul consumatore finale. Il regolatore europeo ha solo funzioni di coordinamento e armonizzazione ed il price cap introdotto per i valori dell’energia elettrica fissato a livello europeo è regolato al fine di evitare eccessive distorsioni prodotte dall’interscambio. E ciò non per fissare un prezzo “politico” in una fase di assoluta eccezionalità, ma per assicurare comunque margini di profitto alle compagnie Oil &Gas.

Il cambio di prospettiva

In direzione positiva, anche se criticata dai gruppi ambientalisti secondo cui l’accordo non è all’altezza di quanto necessario per mantenere l’aumento delle temperature globali al di sotto di 1,5 °C, va citata la nuova normativa UE sul Sistema per lo scambio delle quote di emissioni (ETS). La riforma degli Ets amplierà la platea dei settori interessati e ridurrà l’inquinamento del 62% entro il 2030, rispetto al 43% previsto attualmente. Il sistema Ets attuale riguarda circa 10.000 fabbriche e centrali elettriche, consentendo a chi ha quote di emissione in eccesso di realizzare un profitto più contenuto, vendendo permessi di CO2 sul mercato. Il prezzo del carbonio sarà di circa 100 euro, rispetto agli 80-85 euro attuali ed i permessi di emissione gratuiti saranno gradualmente sostituiti dalla nuova tariffa sul carbonio alle frontiere.

Ricorro, a titolo conclusivo, ad una serie di osservazioni portate con competenza da Leonardo Berlen su Qualenergia e da me condivise.
In Italia abbiamo dai tre ai cinque anni per cambiare marcia al fine di arrivare ad installare al 2030 70 nuovi GW tra fotovoltaico ed eolico, investire in reti di distribuzione e trasmissione, elettrificazione dei consumi, sistemi di accumulo di vario tipo, iniziare a rendere operativi diversi elettrolizzatori per la produzione di idrogeno verde, per non parlare della riqualificazione profonda del nostro energivoro parco edilizio. Sotto questo profilo, la realizzazione del progetto eolico e fotovoltaico di Civitavecchia assume, anche per i tempi di attuazione e per la mobilitazione che l’ha sostenuto, una funzione nazionale paradigmatica.

Sono necessari interventi su vari fronti, sia sul quello autorizzativo e normativo per allocare ingenti investimenti nella formazione di tecnici e di addetti della pubblica amministrazione nazionale e locale, sia su quello della programmazione di politica industriale che favorisca la nascita di linee produttive nazionali per sistemi e componenti essenziali nell’ambito di una manifattura oggi in crisi e da riconvertire a confronto di prodotti importati da mercati in cui gli standard ambientali sono più deboli e che altrimenti godrebbero di un vantaggio competitivo ingiusto.
Per il solo fotovoltaico si tratta di allestire e collegare in rete 8 GW all’anno, passando dai 27 TWh/anno generati oggi dal solare a 100 TWh/anno: una produzione che ci consentirebbe di evitare l’importazione di 20 miliardi di metri cubi di gas/anno. Un compito ed una sfida che anche culturalmente deve riguardare la politica l’imprenditoria, il sindacato.

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Con la guerra prosperano carbone e metano. La nuova ‘transizione’ è verso i fossili?

Già il 22 ottobre scorso Federico Fubini poneva sul Corriere della Sera il dubbio se la transizione energetica, proiettata al 2030 dal Green Deal UE come “fit for 55- rinnovabili – efficienza – idrogeno verde”, fosse invece stata convertita, in seguito alla piega presa dalla guerra in Ucraina e all’applicazione delle sanzioni alla Russia, in ricerca affannosa di un approvvigionamento d’emergenza di gas, reso sollecitamente accessibile dagli Stati Uniti di Biden.

La potenza militare più temuta al mondo, già egemone tecnologicamente e autonoma energeticamente, avrebbe così posto l’Italia “in uno stato di inferiorità strategica, competitiva e industriale rispetto al mondo di oltreoceano con pochi precedenti recenti”.

Anche nell’ultimo numero di Limes (9/2022) molti articoli sollevano analoga preoccupazione, estesa all’intera Europa. In essi si rimarca l’inedita e svantaggiosa dipendenza da gas importato e quotato al mercato a prezzo ben più caro rispetto al gas russo bloccato dalle sanzioni. Il fixing è ormai passato alla borsa di Amsterdam e si è moltiplicato inesorabilmente, dato che i rifornimenti sotto forma di Gnl (Gas liquido naturale) stanno provenendo via nave e in gran parte dal Golfo del Messico.

Oltre Atlantico, infatti, viene estratto il gas di scisto, trasferito ad impianti di liquefazione e trasportato dalle metaniere che, oltre alla Spagna ed ai Paesi baltici, dove già approdano, potrebbero ormeggiare lungo le nostre coste presso grandi impianti rigassificatori, a complemento del gas residuo dei metanodotti dall’Africa e dall’Azerbaijan.

Il ciclo Gnl è molto inquinante: passa infatti da estrazioni rovinose sotto il profilo ambientale (shale gas e sabbie bituminose), dal successivo processo di liquefazione, dal trasporto via mare da lunga distanza in grandi serbatoi, dalla successiva rigassificazione e dall’aggancio finale ai tubi dei gasdotti locali. In questi passaggi complessi risulta ancor più rilevante la dispersione in atmosfera di quantità di CH4 puro, fortemente climalterante.

Sostituzione gas-gas, quindi, non gas-rinnovabili e ad un prezzo che da noi si paga sei volte quel che si paga negli States. A questo proposito, fa sorridere l’obiezione delle soprintendenze al paesaggio al posizionamento di pale eoliche a 30 Km dalle coste, come a Civitavecchia, rispetto all’accettazione di un enorme impatto in porto dovuto a mastodontiche navi cisterna assistite da serpentine riscaldate dall’acqua di mare per portare a temperatura di evaporazione il metano liquefatto nei serbatoi. Un impianto rilevante anche per volume, immerso sott’acqua e grazie al quale viene sconvolta se non congelata per anni la biosfera che si muove nei fondali attorno.

L’effetto del nuovo sistema di movimentazione del gas allo stato liquido anziché gassoso porterà ad un protrarsi del ricorso al metano ben oltre i termini fissati dalla Ue: parlo – dati gli ingenti investimenti e la mole degli impianti – di assai più di dieci anni di mantenimento di questa fonte fossile nel mix nazionale di produzione di elettricità.

La fornitura di gas liquido, in effetti, rappresenta una rivoluzione silente, ma molto perniciosa e, di fatto, contiene la risposta di Gas &Oil per ritardare la “transizione ecologica”, da Giorgia Meloni trasformata – anche lessicalmente – in “sicurezza energetica”.

Come se non bastasse, la diplomazia dell’Eni si è mossa con Mario Draghi in Africa a complemento e potenziamento di nuove condotte che, dopo essersi immerse nel Mediterraneo, risbucherebbero lungo la nostra penisola, per renderla così l’hub del rilancio dei fossili. Quindi, transizione infinita, e definitiva concentrazione finanziaria e produttiva nelle mani dei soliti noti, attorniati magari da ricambi maggiormente affini alla nuova maggioranza parlamentare.

In sostanza, sotto la supervisione di Guido Crosetto e di Roberto Cingolani, il governo associa l’invio di armi all’Ucraina ad un revival della combustione ad elevate emissioni (e, in futuro, chissà, reattori nucleari!), come attestano i profitti delle industrie delle armi e di Oil&Gas che si sono impennati dai primi mesi 2022.

Quindi, carbone a pieno ritmo nelle centrali, sfruttamento estensivo di tutti i giacimenti nazionali fossili e decisa e duratura ripresa della filiera che dal metano finisce in CO2, dispersa in atmosfera o infilata sottoterra, con bilanci di energia e materia insostenibili e inconfrontabili con quelli delle filiere rinnovabili assistite da stoccaggi e finalizzate a comunità energetiche.

C’è un legame tra la guerra, la procrastinazione dell’uso del gas, il brusco cambio del clima da una parte e le manifestazioni di insofferenza degli studenti, la coscienza sicura e diffusa del degrado della biosfera e del pericolo nucleare dall’altra, che vanno a sostegno della mobilitazione razionalmente non violenta e senza bandiere dei pacifisti. Si incomincia ad intendere, anche sotto le atrocità della guerra e alle minacce della bomba, che c’è un “taglio militare” che sostiene la “sicurezza energetica e climatica” contrapponendola alla “giustizia climatica” .

Ho la speranza che cominci a manifestarsi un bisogno di democratizzazione del processo decisionale e l’emergere di nuove forme di sovranità che richiederebbero necessariamente una riduzione del potere e del controllo dei militari e delle corporazioni e un aumento del potere e della responsabilità nei confronti dei cittadini e delle comunità. La crescita dell’astensionismo recente significa anche questo e la politica dovrebbe rendersene conto.

Ora che stiamo avviandoci a convivere con la “terza guerra mondiale” domandiamoci: che impatto hanno i fossili, il militarismo e la guerra sull’ambiente e la crisi climatica, nel momento in cui stiamo valicando il limite di 1,5 °C per attestarci oltre 2,5°C? E’ ancora accettabile l’annientamento di popoli, territori, coltivazioni, animali, in oltre 200 territori in armi nel mondo, uno dei quali dentro l’Europa?

La sicurezza energetica e climatica che i governi continuano a perseguire è un concetto a carattere prevalentemente nazionale che rafforza le dinamiche a favore della militarizzazione dei confini e descrive la migrazione su larga scala come “il problema più preoccupante associato all’aumento delle temperature e del livello del mare”.

I piani di sicurezza climatica si nutrono di narrazioni di paura e di un mondo a somma zero in cui non tutti possano sopravvivere. Ad essa, purtroppo, ritengo si possa orientare l’attuale governo in carica, se non ci sarà un’opposizione sociale e politica all’altezza.

La giustizia climatica, al contrario, non contempla la guerra e adotta un approccio incentrato su forme pacifiche e non violente di risoluzione dei conflitti. Alla ricerca urgente di soluzioni praticabili come le energie naturali e le comunità energetiche, che ci permettano di prosperare in pace e di proteggere i più vulnerabili. La manifestazione del 5 novembre avrà al centro anche queste riflessioni.

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Nord Stream, così si rompe un equilibrio ancora negoziabile della guerra in Ucraina

Forse pochi hanno notato come i media stiano – comprensibilmente – demonizzando la mossa oscena di Putin di annessione alla Russia di regioni ucraine, ma lascino in ombra l’amputazione per sabotaggio del collegamento tra la Russia e l’Europa dei due metanodotti del Baltico. Dal punto di vista “politico e militare”, le implicazioni sembrerebbero non essere confrontabili: ma, a ben guardare, stanno purtroppo in relazione. Di fatto, questi due fattori – da una parte l’espansione territoriale della Russia verso il Mar Nero, dall’altra il blocco dei canali energetici da oriente verso l’Europa – convergono ogni volta che la crisi raggiunge un punto di svolta e la guerra fa un balzo in avanti verso il baratro, come confermano i due missili lanciati sul parcheggio di un convoglio umanitario a Vinnytsia, e la minaccia dell’”atomica strategica” dietro l’angolo. Dal punto di vista “fisico”, sabotare un tubo di un metro di diametro caricato di metano e immerso con tutte le precauzioni in mare per 1200 km si risolve in un’esplosione di qualche centinaio di chilogrammi di tritolo applicata all’infrastruttura da apparati segreti ed invisibili, mentre la modifica dei confini nel Donbass, pur rappresentata dalla modifica di un tratto di matita sulla carta geografica cui viene associato un colore diverso, ha comportato massacri feroci e combattimenti cruenti sul terreno.

Ma perché tutta la stampa occidentale non vuole mettere in rapporto l’isolamento dei canali commerciali con la Russia e l’inverno terribile che ci aspetta, con la recrudescenza della guerra “pazza” – come dice Francesco – se non perché, oltre che nella pretesa di Putin, prevale nella testa di Zelensky e della Nato lo stigma della vittoria a tutti i costi?

Distruggere i due gasdotti è – come l’annessione del Donbass – distruggere un equilibrio ancora negoziabile della guerra in Ucraina: nel caso del metano in particolare, significa distruggere l’asse dell’energia ancora sopravvissuto fra Berlino (Roma?) e Mosca. Intanto i prezzi del gas sul Ttf olandese sono schizzati nuovamente in alto, fino a 208 euro/MWh a seguito del tentativo di destabilizzare ulteriormente l’approvvigionamento energetico dell’Ue. Va detto che finora la Russia, nonostante il calo delle importazioni del suo gas da parte dei Paesi Ue negli ultimi mesi, ha tratto ingentissimi profitti grazie alle elevate quotazioni del combustibile sui mercati, le quali hanno più che compensato la riduzione dei volumi venduti, e che Kiev ha anche sfruttato la situazione per chiedere maggiore sostegno militare contro gli aggressori, mentre il netto incremento dei volumi di Gnl verso la Ue dai mercati internazionali (Usa, Qatar, Azerbaijan e Norvegia in primis) hanno rimpinguato le casse degli apparati militari e fossili di tutti i cobelligeranti. Questo è il bilancio economico perverso della guerra in corso. Peraltro, gli “incidenti” sui gasdotti russi sono avvenuti in concomitanza con il lancio del gasdotto Baltic Pipe: inaugurato ufficialmente martedì 27 settembre a Goleniów, in Polonia, trasporterà fino a 10 miliardi di metri cubi di gas.

È solo una coincidenza? Quel che è certo è che affidarsi al gas è una scelta sempre più rischiosa, a prescindere da chi lo fornisce e come.

Mentre si discute la possibilità di introdurre un tetto Ue ai prezzi del gas – ipotesi che finora ha diviso gli Stati membri – la Commissione europea dovrebbe aumentare iniziative e investimenti per ridurre la domanda di energia e sviluppare le fonti rinnovabili, le uniche in grado di assicurare una maggiore sicurezza e indipendenza energetica, ora che il cordone ombelicale che legava la Russia all’Europa sul gas è stato spezzato e galleggia in alto mare.

Prima di passare a inquietanti considerazioni ecologiche, vorrei ricordare come ormai la politica energetica tedesca non veniva più decisa a Berlino ma a Washington: uscita di scena Angela Merkel, gli Usa hanno avuto campo libero e, con la distruzione dei due gasdotti, è stata preclusa ulteriormente la via del negoziato ed è stata consegnata l’Europa intera alla dipendenza prolungata dalle importazioni di gas soprattutto statunitense, con conseguenze incalcolabili sul tenore di vita della popolazione.

E poi c’è l’aspetto ambientale, anch’esso oscurato. Quello avvenuto a lato della Danimarca è il peggior disastro nel campo dell’emissione di metano. Greenpeace scrive che, secondo calcoli preliminari, il potenziale impatto climatico della fuoriuscita di metano dai Nord Stream potrebbe essere di 30 milioni di tonnellate di CO2eq nell’arco di 20 anni: nel prossimo ventennio, un arco di tempo cruciale per l’azione sul clima, ogni tonnellata di metano emessa avrà impatto pari a 84 tonnellate di CO2eq (pari alle emissioni di gas serra di due milioni di auto in un anno.

Intanto nella UE si discute del price cap del metano. Purtroppo, è sul mercato che la Ue stessa ha chiesto di spostare le modalità e i prezzi di acquisto: ma, essendoci tre mercati regionali d’acquisto, quello russo, ormai tagliato fuori, avrebbe mantenuto prezzi più contenuti. Intanto, si va allargando come conseguenza anche il prezzo dello scambio delle emissioni, con conseguente rincaro del metano bruciato. La notizia data da Cingolani di avere a disposizione quantità di scorte nazionali vicine al 100% non è per nulla rassicurante: innanzitutto, sono state pagate 10 volte rispetto l’anno precedente, mentre – in quasi totale silenzio – la domanda nazionale di greggio russo e di carbone nel 2022 sono aumentate del 112% e del 18% rispettivamente. In definitiva, con un profitto evidente di Usa, Qatar e Norvegia, rallenta la transizione ecologica del Next Generation Ue.

Purtroppo tutti i fattori – economici, commerciali e industrali – si allineano sul risultato più pericoloso, e in un certo senso i fattori dell’espansione territoriale della Russia in Ucraina e del blocco dei canali energetici verso l’Europa convergono ogni volta che la crisi raggiunge un punto di svolta. Ogni settimana più pericoloso. E ogni settimana da tenere sotto la stessa allarmata, se non disperata, apprensione.

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Bollette, extraprofitti e rinnovabili: perché l’Italia non nazionalizza l’energia?

Ben 328 miliardi di euro di ritorni economici, accanto alla creazione di oltre 2 milioni di posti di lavoro e al risparmio di 614 miliardi in ambito sanitario e produttivo. Ma, soprattutto, la possibilità di aumentare la sicurezza energetica nazionale, tagliando la spesa fossile di 1.914 miliardi di euro con l’obiettivo da raggiungere le zero emissioni al 2050. A calcolarli è “Net Zero E-conomy 2050″, lo studio redatto da Enel Foundation e The European House – Ambrosetti e presentato in occasione del forum di Cernobbio.

Lo studio mette in evidenza molto chiaramente la eccessiva dipendenza dell’Italia dal gas e i vantaggi molto evidenti che una “riduzione accelerata dell’uso delle fonti di energia fossile può portare proprio a chi oggi ne fa un uso smodato” come ha affermato Francesco Starace, Amministratore Delegato e Direttore Generale di Enel. Anche queste voci autorevoli sono però oscurate dalla politica nostrana, che ha nel gas e nel possibile ripristino del carbone la carta che preferisce adottare in emergenza.

Purtroppo, sul fronte delle energie rinnovabili, l’Italia è attualmente ancora lontana dal target 2030 (otto punti percentuali dall’obiettivo di portare al 30% le FER nei consumi finali). La situazione peggiora se si proietta lo sguardo al 2050, quando il gap tra risultati raggiunti e zero emissioni nette dovrebbe salire a 60,7 punti, stando all’attuale trend. La cosa stupefacente è che il bilancio di riduzione di spesa sarebbe favorevole sulla base di investimenti per 3.351 miliardi di euro; una spesa ben al di sotto di quella richiesta da minori ambizioni climatiche ed energetiche, grazie ai maggiori vantaggi sociali, economici, ambientali e di salute.

Francesco Starace ha già spinto per la soluzione ad eolico galleggiante a Civitavecchia al posto di un turbogas da 1860 MW. Ma quale piano avrà il governo? Quali sono gli interessi allora che bloccano questa direzione della transizione energetica?

La verità è che l’invasione dell’Ucraina e la pratica delle sanzioni hanno sconvolto completamente il mercato energetico, ritardando l’introduzione delle rinnovabili e facilitando una speculazione inedita sul mercato dei fossili provenienti da sorgenti sempre più lontane e con trasposto di metano liquefatto da Paesi poco affidabili, per cui l’Eni non viene certo messa in ansia da Draghi e Cingolani (che hanno steso i contratti sul gas sotto la supervisione di Descalzi!).

La generalizzazione del riarmo imposta dagli Stati Uniti ai paesi della Nato non significa semplicemente che l’economia di guerra costituisca la continuazione e il prolungamento dell’economia di mercato che si è drammaticamente inceppata. Significa che i blocchi si ricostruiscono non più su basi prevalentemente ideologiche, ma che – mentre geopolitica e biosfera si toccano da vicino – i limiti ecologici-planetari del sistema Terra impongono una riconversione della merceologia e della geografia delle fonti energetiche. Questo era richiesto dalla Cop di Parigi, ma in forma di cooperazione, non di conflitto militare.

Una riconversione energetica che blocchi le emissioni climalteranti non può nascere certo solo interrompendo nell’immediato la dipendenza dell’Unione Europea dai fossili di Eurasia e, contemporaneamente, avvicendando la provenienza delle fonti – ancora! – di gas, petrolio e carbone dalle sponde atlantiche e mediorientali, a costi più alti e con sprechi energetici più elevati. Le proposte approvate prevedono un aumento di combustione di carbone, la riattivazione e la prospezione di nuovi giacimenti di metano, il potenziamento e la costruzione di nuovi gasdotti nonché l’ancoraggio nei porti di navi e rigassificatori con l’importazione di pari quantità di combustibili da Paesi di non comprovata affidabilità.

Contrariamente alla politica succube degli Stati Uniti, la Germania ha annunciato lo stanziamento di 200 miliardi di euro da investire nella conversione energetica rinnovabile entro il 2026. I fondi dovranno essere impiegati per stazioni di ricarica per i motori elettrici, impianti di creazione di idrogeno, oltre che per calmierare l’aumento dei prezzi energetici, con un intervento pubblico consistente.

Infatti, la crisi energetica ha portato alla decisione tedesca di nazionalizzare Uniper, il principale fornitore di gas per la Germania. Berlino, infatti, punta a controllare il 98,5% della società. A cosa è dovuta la mossa della Germania? Il problema è che Uniper in questi mesi ha accumulato circa 8 miliardi e mezzo di perdite legate al gas, perché le interruzioni delle forniture russe hanno costretto la società a comprare combustibile fossile da altri esportatori, principalmente Gnl via nave, a costi molto più alti.

Di conseguenza Uniper, diventata pubblica, sarà in grado di assicurare la sicurezza degli approvvigionamenti energetici al Paese.

Berlino intende così prendere in mano direttamente la compagnia e garantire maggiore stabilità ai mercati energetico almeno fine del 2022. Anche la Francia si sta muovendo per nazionalizzare ulteriormente EDF. Da noi nulla di tutto questo: gli extraprofitti di Eni vanno in gran parte agli azionisti privati, mentre le bollette di famiglie e imprese crescono senza sosta.

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