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Cambiamenti climatici, Venezia e i patrimoni Unesco sono in pericolo. Dobbiamo intervenire

Spesso non teniamo conto di come il clima – che è influenzato dal nostro stile di vita – possa essere responsabile di trasformazioni dell’ambiente e di comportamenti umani che riguardano il futuro e di come, sottovalutando tale questione, la società perda un’occasione di prevenire solidaristicamente il rischio di perdite irrecuperabili.

Riprendo quanto già esposto in precedenti post dove si espone una correlazione tra crisi ambientale, immigrazione e cura della “casa comune”, che si deve affrontare a partire da una prospettiva di accoglienza e di investimento nel rigenerare la natura, con prospettive di lavoro e di benessere che lo sviluppo attuale non assicura affatto.

Dovremmo quindi prendere in considerazione alcune ipotesi su cui gli scienziati più seri stanno fornendo prove di tendenza da correggere con estrema urgenza. In particolare, nel giro di poche generazioni il Mediterraneo tende a inaridirsi e siti a noi cari potrebbero essere allagati in seguito all’innalzamento delle acque marine.

Il Mediterraneo nei prossimi 100 anni sarà più arido

Uno studio internazionale di Nature Communications, di cui è stata partner l’Università di Pisa e che ha coinvolto 12 istituzioni, prevede per il clima del Mediterraneo nei prossimi cento anni crescente aridità e minori precipitazioni medie, probabilmente concentrate in tempi brevi. Le conclusioni derivano da una ricerca molto complessa e durata anni sulle analogie fra l’ultimo periodo interglaciale e la situazione attuale. Lo studio dell’ultimo periodo interglaciale è particolarmente rilevante perché è stato caratterizzato da un intenso riscaldamento artico, con temperature più alte di alcuni gradi rispetto a quelle attuali e quindi paragonabili agli scenari di riscaldamento previsti per la fine di questo secolo.

Come conseguenza del riscaldamento, la ricerca ha stimato che il livello globale del mare nell’ultima epoca interglaciale sia stato di circa 6-9 metri superiore al livello attuale, un innalzamento in buona parte dovuto alla fusione della calotta glaciale della Groenlandia e che ”un tale scioglimento dei ghiacci potrebbe aver contribuito a un’instabilità, della circolazione oceanica del Nord Atlantico, con momenti di indebolimento corrispondenti a periodi di scarsità di precipitazioni in Europa” come affermato da Giovanni Zanchetta del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa.

Per definire in dettaglio i cambiamenti oceanici e atmosferici dell’Atlantico settentrionale e dell’Europa meridionale, i ricercatori hanno prodotto una sorta di “stele di rosetta stratigrafica”, analizzando una carota di sedimento marino proveniente dal margine atlantico della penisola iberica e confrontando i pollini e i cambiamenti della vegetazione registrati con l’andamento delle precipitazioni registrato nelle stalagmiti della grotta ”Antro del Corchia”, nel nord Italia.

Il collegamento tra Corchia e il margine atlantico della penisola iberica documenta come una serie di eventi aridi nell’Europa meridionale siano collegati alle espansioni di acqua fredda nell’Atlantico settentrionale. La datazione dei cambiamenti climatici già registrati in epoche passate è stata “sovrapposta” a quanto sta oggi accadendo a causa dell’attività umana e ne è stato così tratto il profilo climatico nella zona mediterranea nei prossimi cento anni. Se ne conclude che il progressivo riscaldamento che stiamo osservando possa generare in futuro un’instabilità del clima associata a fenomeni significativi di siccità.

Rischio prossimo di inondazioni

Quasi tutti i siti patrimonio dell’umanità che si affacciano sul Mediterraneo sono a rischio inondazione, ma a causa dell’innalzamento del mare questo rischio aumenterà del 50% entro la fine del secolo. In Italia sono ben 13 i siti ad alto rischio, a cominciare da Venezia e l’area archeologica di Aquileia.

A livello globale, il livello medio del mare aumenta di poco più di tre millimetri all’anno, mentre i ghiacciai e le calotte di ghiaccio si sciolgono e l’acqua degli oceani si riscalda. Con il progressivo aumento del livello del mare, le inondazioni costiere rischiano di diventare sempre più frequenti e intense. Capire quali saranno le altezze massime che si raggiungeranno durante eventi estremi dovuti al concorso anche di maree e uragani è essenziale per decidere per tempo le misure di difesa necessarie.

Eventi marini estremi possono spingere l’acqua al di là delle barriere costiere, inghiottire le case e inondare infrastrutture cruciali. È già successo e l’elenco riguarda i Paesi costieri, ricchi o poveri che siano. Le previsioni di inondazioni estreme sono rese confuse dall’incertezza sulla velocità con cui aumenteranno le emissioni di gas serra.

Per quanto ci riguarda, sempre Nature Communications segnala che, purtroppo, in cima alla lista delle località a più elevato rischio nel Mediterraneo vi sono gioielli italiani dell’alto Adriatico come Venezia e la sua laguna, l’area archeologica di Aquileia e anche Ferrara e in parte Ravenna. Se i pericoli sono reali – e vanno ben oltre il Mose – nasce l’opportunità, dato il loro valore simbolico, di promuovere campagne che sensibilizzino la popolazione sull’importanza primaria di mitigare i cambiamenti climatici.

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Cambiamenti climatici, le foglie diventano più spesse. E non è una buona notizia

Ha creato molto scalpore nel mondo scientifico e tra gli esperti di clima la notizia che nel pianeta le foglie diventano più spesse a causa dell’aumento di concentrazione di CO2, aggravando di conseguenza i cambiamenti climatici. Nonostante siamo a conoscenza degli effetti deleteri del nostro agire, continuiamo a immettere nell’atmosfera un’insostenibile quantità di carbonio e la concentrazione di CO2 ha raggiunto livelli mai visti. Lo scorso ottobre l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha certificato che la concentrazione di CO2 in atmosfera ha raggiunto il valore record di 403,3 ppm nel 2016, il 145% in più dei valori preindustriali.

La sottovalutazione e spesso l’ignoranza diffusa dei meccanismi naturali che possono ridurre l’aumento dei gas climalteranti, responsabili della crescita della temperatura nella crosta, nell’atmosfera e nei mari in cui si riproduce la vita, ci fa dimenticare che, prima di arrivare a illuminare il nostro corpo e inondare con la loro energia il mondo vegetale che ha preparato il nostro pianeta ad accoglierci e ad alimentarci, i raggi del sole hanno attraversato l’aria che sta sopra le nostre teste. Lì, nell’atmosfera si è moderato il calore degli astri e il freddo dell’universo, con una funzione determinante della quantità di CO2 in equilibrio come parte di un ciclo naturale in cui emissioni – respirazione, produzione energetica e industriale, rifiuti, agricoltura etc. – e assorbimento – masse arboree, vegetali e alghe marine in particolare – assicurano il mantenimento di un equilibrio energetico il cui indicatore più immediato è la temperatura locale. La vita sarebbe inspiegabile se non ci si rendesse conto della singolarità della Terra, dovuta alla sottile e inconsueta pellicola che la avvolge, al contrario dei miliardi di oggetti “galileiani” inanimati su cui non c’è vita né morte, pur comportandosi dinamicamente ed energeticamente secondo leggi universali “immutabili” che Newton e poi Einstein hanno esteso all’intero Universo.

Ma torniamo allo spessore delle foglie. Tutto ebbe inizio circa cinquecento milioni di anni fa, quando organismi, animali e vegetali iniziarono a differenziarsi; le piante scelsero di non muoversi mentre gli animali optarono per uno stile di vita nomade. Diciamo che noi scegliemmo di fare i migranti, le piante di mettere le radici da qualche parte e non spostarsi da lì. Questa scelta ha implicato per loro la necessità di svilupparsi ed evolversi in maniera insostituibile per il vivente, così da ricavare, dalla terra, dall’aria e dal sole attraverso la fotosintesi (che fornisce energia alimentare e riduce la quantità di CO2 in atmosfera) tutto il necessario perché anche la nostra specie potesse nascere, riprodursi e sopravvivere come parte “omologata” dei cicli naturali alimentandosi entro una finestra energetica stabile e molto limitata, caratterizzata da un intervallo di qualche decina di gradi di temperatura. I nostri principali e indispensabili alleati nella sopravvivenza e nella lotta ai mutamenti del clima sono quindi gli alberi.

Un nuovo studio rivela però che, proprio a causa dell’elevata quantità di CO2 oggi presente, la capacità delle piante di sequestrare carbonio sta diminuendo, diventando le loro appendici più spesse e meno efficienti e ingenerando un cambiamento della temperatura sempre meno adatta alla riproduzione a all’abitabilità degli umani sul pianeta. Lo studio Leaf trait acclimation amplifies simulated climate warming in response to elevated carbon dioxide, condotto da Marlies Kovenock e Abigail Swann ritiene che sia di fondamentale importanza una migliore comprensione di come le risposte della vegetazione ai cambiamenti climatici possano fornire feedback sul clima. Le osservazioni mostrano che le caratteristiche della pianta (forma, spessore e densità delle foglie) sono modificate all’elevarsi della concentrazione di anidride carbonica. Si giunge perfino a suggerire modalità più efficienti di potatura, di osservare la maggior profondità a cui tendono i gambi dei funghi, di notare la maggior difficoltà delle castagne a uscire dal riccio una volta a terra. Infatti, queste “acclimatazioni” delle proprietà vegetali possono alterare l’area fogliare e, quindi, la produttività e i flussi di energia superficiale.

L’adattamento a più elevate temperature di una foglia in risposta all’aumento del biossido di carbonio – nella simulazione si ipotizza un aumento di un terzo della massa fogliare per area – ha un impatto realmente significativo sul ciclo climatico e sul ciclo del carbonio nel sistema terrestre. La produttività primaria netta globale di assorbimento di anidride carbonica diminuisce di una quantità pari alle attuali emissioni annue di combustibili fossili. Si rende pertanto necessario prevedere come gli ammassi vegetali risponderanno alle condizioni ambientali future, così da includerli nelle proiezioni climatiche. Va notato che l’attuale patrimonio arboreo del pianeta, secondo uno studio del 2017, avrebbe la capacità di ridurre l’emissione di sette miliardi di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2030.

C’è anche una componente di risparmio energetico di sicuro peso: gli alberi creano una “bolla di penombra” e le chiome vegetali intercettano la radiazione solare, determinando una temperatura radiante delle superfici ombreggiate inferiore a quella delle superfici esposte alla radiazione diretta. Ogni albero adulto può traspirare fino a 450 litri d’acqua al giorno e per ogni grammo di acqua evaporata sottrae 633 calorie dall’ambiente, producendo un abbassamento di temperatura (locale) equivalente alla capacità di cinque condizionatori d’aria di piccola potenza. Piantare alberi, ampliare boschi e foreste, non cementificare e evitare gli incendi significa mitigare il cambiamento climatico in atto e, quindi, ora lo sappiamo, agire perché le foglie non cambino spessore.

L’Accordo di Parigi ha dato un ruolo centrale alle foreste, alle foglie, alla rete collaborativa con cui le piante si sviluppano e si consolidano (chiedetevi come mai i frutti maturino negli stessi giorni e i funghi spuntino nelle stesse settimane in tutto l’arco alpino). Gli ecosistemi terrestri, ed in particolare le foreste, sono parte della causa e parte della soluzione del problema dei cambiamenti climatici. Causa perché la deforestazione (soprattutto tropicale) è responsabile di circa il 10% delle emissioni antropiche di gas serra a livello globale. Soluzione perché già oggi le foreste assorbono circa un terzo delle emissioni antropiche globali di CO2 .

L’insieme dei Paesi dominati dalle foreste, secondo una contabilizzazione che le giudica “prevalenti” nel territorio – Paesi Lulucf – potrebbe con adeguata manutenzione e realistica implementazione passare da essere una fonte netta di emissioni (come lo è stato nel periodo 1990-2010) a diventare assorbitore netto di CO2 entro il 2030, arrivando a fornire il 25% degli obiettivi di riduzione delle emissioni a livello globale. A due condizioni: che vengano finalmente erogati supporti tecnologico-finanziari ai Paesi in via di sviluppo e che le foglie non si ispessiscano troppo.

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Lo ha detto anche il Guardian: gli americani sono i prossimi migranti climatici

I dati sulle migrazioni sono impressionanti: il pianeta è sempre più privo di spazi per abitare e sopravvivere decentemente. Nel 2015 In totale, il numero di persone che ha richiesto l’intervento dell’Unhcr ammontava a almeno 35.833.400. A metà 2018 stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati: 65.6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. Normalmente associamo l’immigrato ad una donna o uomo di colore proveniente dall’Africa. Ma il cambiamento di temperatura avvolge l’intero pianeta e riduce gli spazi vitali complessivi.

Chomsky in una recente intervista a “Il manifesto Alias” dell’8 Settembre, fa risalire al negazionismo climatico, sbandierato dalle élite mondiali, il clima di esclusione, respingimento, paura e involuzione democratica che prende corpo negli elettorati. Non sostengo che la questione migranti o l’attacco al lavoro e al welfare dipendono solamente dall’espulsione di un intervento di mitigazione del clima dall’elenco delle emergenze nell’agenda dei governanti. Tuttavia vorrei sostenere il collegamento sempre più vasto eppure sottaciuto tra crisi ambientale, immigrazione e esclusione. In effetti, non avere come sfondo la rigenerazione della Terra intera, serve ad accreditare un sovranismo chiuso a difesa di casa propria, ad espellere disumanamente migranti e rifugiati ambientali e a cercare illusorie soluzioni protezioniste anche quando la vendetta della natura sui nostri comportamenti comincia a colpire anche le nostre terre ricche.

Cominciamo da due notizie rilevanti.

Il gigante delle riassicurazioni Swiss Re (compagnia che vende polizze di assicurazione ad altre compagnie assumendosi una parte dei loro rischi) ha reso noto a Settembre 2017 un nuovo rapporto che fa la graduatoria globale delle città minacciate da disastri naturali e climatici e che quindi registrerà massicci spostamenti di abitanti. La classifica globale, che tiene conto della popolazione potenzialmente colpita espressa in milioni di persone è la seguente: Tokyo-Yokohama (Giappone) 57,1, Manila (Filippine) 34,6, Delta del Fiume delle Perle (Cina) 34,5, Osaka-Kobe (Giappone) 32,1, Giakarta Indonesia) 27,7, Nagoya (Giappone) 22,9, Calcutta (India) 17,9 Shanghai (Cina) 16,7, Teheran (Iran) 15,6. La collocazione prevalente è verso il mare (non nei deserti e nelle steppe già in parte abbandonati) proprio a causa dell’innalzamento delle acque e la violenza degli scambi termici (tifoni e piogge).

Da più di quindici giorni una testata prestigiosa come il Guardian raccoglie e pubblica dati esemplari sull’allontanamento dalle proprie terre e sull’impoverimento dovuto alle crescenti catastrofi climatiche nelle zone ricche del mondo. Partendo dall’America e con un titolo shock, “Americani: i prossimi migranti climatici”, descrive e quantifica sotto il profilo dell’abitare e sopravvivere gli effetti dell’uragano Sandy nel 2012 su differenti quartieri di New York e la distruzione recentissima da parte di “Florence” sulla North Carolina, che tratterò la prossima volta.

Gran parte delle abitazioni pubbliche di New York è circondata dall’acqua, a Red Hook, a Coney Island, a Lower East Side, ai Rockaways. Il quartiere di Brooklyn, una penisola circondata dall’acqua, si è rivelata una pianura alluvionale dopo l’uragano Sandy nel 2012. I valori di mercato delle case sono scesi, ma i più ricchi si sono spostati nella zona centrale dei grattacieli.

Red Hook ha uno dei più antichi e più grandi progetti di edilizia pubblica d’America. Più della metà dei dodicimila residenti di Red Hook sono inquilini della New York City Housing Authority. Nelle strade del quartiere le inondazioni sono state pesanti e secondo le proiezioni degli scienziati, i moli della città svaniranno sotto l’alta marea nel 2020. Entro il 2080, l’alta marea normale invaderà alcune strade. Una parte di Van Brunt Street, l’arteria principale di Red Hook, dovrebbe essere allagata ogni giorno. Qui, dove la gente è più povera, il mercato delle case danneggiato ha attirato compratori di ceto medio e speculatori per affari a breve termine.

Red Hook ha una storia di comunità solida e molti dei suoi abitanti non hanno intenzione di vendere la casa in cui sono cresciuti. Una migrazione verso zone rurali a basso costo potrebbe salvare i residenti sul lungomare di lunga data dall’innalzamento delle acque, ma non li salva dalla perdita delle loro case e dei rapporti cui sono affezionati. Senza investimenti governativi nella protezione dalle inondazioni, sono in imminente pericolo. Le megalopoli di Londra, Tokyo, Rotterdam e Shanghai hanno installato parapetti, barriere anti-tempesta, super-argini e anelli per tenere l’acqua fuori dalle strade. New York no e se lo facesse, li preserverebbe per un po’. Gli speculatori con cinismo assicurano che “si faranno parapetti prima di 30 o 40 anni e solo dopo la terra si allagherà.”

In sostanza, l’effetto dei più frequenti uragani in America si concretizza nel fatto che i ricchi possono permettersi di muoversi, mentre i poveri non ne hanno possibilità. L’effetto vale anche per la siccità e le temperature crescenti. Mentre le persone fuggono il calore intenso in Arizona per climi più miti, i valori di noleggio e proprietà salgono continuamente e le banche non allungano crediti a chi ha patrimoni irrilevanti o case minacciate. Alcuni residenti di una città progressista, Juad Suarez, a 300 miglia a nord del confine messicano hanno adottato lo slogan “costruisci il muro” di fronte a un’ondata di nuovi arrivati. Ma questi interlocutori percepiti sono nettamente diversi dall’immaginazione di Donald Trump. Sono americani, principalmente bianchi e stanno fuggendo dal caldo invivibile.

Lo chiamano un modello di gentrificazione (trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni) dettata dal clima. Fenomeno che si sta diffondendo negli Stati Uniti, poiché coloro che sono in grado di ritirarsi da inondazioni, tempeste, ondate di calore e incendi boschivi si spostano verso aree più sicure, portando con sé proprietà in ascesa e valori locativi. Ma dove andranno a vivere le persone a basso reddito? Basterà odiare, perseguitare e privare di diritti persone di colore diverso?

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Sanzioni all’Ungheria, uno schiaffo in faccia a Salvini

Ma quanti se lo aspettavano? Il Parlamento europeo ha fatto mercoledì 12 settembre un primo passo per imporre una sanzione storica all’Ungheria, raccomandando di applicare l’articolo 7 dei Trattati, che includerebbe come pena per il governo xenofobo e autoritario di Orban la perdita del diritto di voto al nel Consiglio dell’Unione Europea. Anche se la gran parte dei nostri media nazionali sono concentrati e quasi ammaliati dalle virtù più arroganti di Salvini, dovranno pur accorgersi che si è consumato un fatto politico di enorme portata: con 448 voti a favore e 197 contro, il Parlamento ha approvato una relazione che sostiene che il governo magiaro sta mettendo a rischio i valori fondamentali dell’Europa.

Solo ieri (12 Settembre) Stefano Folli su “Repubblica” affermava che “i leghisti ormai rappresentano lo spirito dei tempi” e che “dalla vicenda europea “Salvini avrebbe ottenuto una più solida egemonia sull’area di centrodestra”. Evidentemente era convinto che il voto in plenaria in Parlamento sarebbe stata una questione tra furbi e smaliziati e chi, secondo la nostra stampa, lo è più di Salvini o più di Orban nell’area di cetrodestra?

Invece, per la prima volta, un Parlamento, rappresentativo dei 27 Paesi membri, ha approvato a stragrande maggioranza un dossier considerato come “un’arma nucleare”, a causa della sua natura dissuasiva di fronte a derive autoritarie e agli evidenti rischi politici coinvolti nel suo utilizzo. L’approvazione del rapporto – che espressamente dice che sono forti le “preoccupazioni europee in merito all’indipendenza del sistema giudiziario, alla libertà d’espressione e ai diritti delle minoranze e dei migranti in Ungheria. Questi ultimi si trovano ad affrontare un regime sempre più repressivo a seguito dell’adozione di leggi che limitano fortemente le possibilità di richiedere asilo nel paese.

Dobbiamo stigmatizzare concetti contrari ai valori europei, quali “nessuna popolazione straniera potrà stabilirsi in Ungheria” o il reato di promozione dell’immigrazione clandestina destinato a colpire a Ong che offrono soccorso ai migranti” – ha già scatenato un’enorme crepa nel Ppe, la famiglia politica del partito di Orbán, ma anche della Merkel.

Il rapporto, redatto dalla parlamentare verde olandese Judith Sargentini, richiedeva il voto favorevole dei due terzi dei voti espressi, con un minimo di 376. Il risultato è sorprendente, perché Orban, Salvini, Kaczynski, gli esponenti di destra austriaci e bavaresi come Seehofer e Kurz ostentavano un patto per assolvere l’Ungheria, contando sull’improbabilità di una spaccatura così netta dei parlamentari del Ppe. Anche a costo della rinuncia ai valori sociali e democratici in un’Europa dove la grancassa dei sovranisti e dei populisti annuncia da tempo la fine di un processo di smarcamento dell’Unione rispetto al neoliberismo più smodato e alle intromissioni di Trump nelle fazioni europee legate dal patto di Visegrad.

Le ramificazioni politiche del caso ungherese sono di ampia portata, perché Orbán appartiene alla più grande famiglia politica in Europa, in cui militano leader nazionali come Angela Merkel, Silvio Berlusconi, Pablo Casado e Sebastian Kurtz, o autorità della comunità come Jean-Claude Juncker (presidente della Commissione), Donald Tusk (presidente del Consiglio) o Antonio Tajani (presidente del Parlamento europeo).

La foto di Orban e Salvini sorridenti non ha quindi entusiasmato abbastanza Bruxelles e Strasburgo e lo schiaffo alle aree estremiste è stato tonante, anche in vista delle prossime elezioni nella Comunità. Allora, perché i nostri media hanno quasi glissato sulla notizia e continuano a schiacciare i nostri ascolti e le nostre letture sulla diatriba DiMaio-Salvini con l’incomodo ministro Tria? Credo che si faccia avanti un’area potente, silenziosa e un poco sottotraccia, che cerca consensi lontano dalla democrazia rappresentativa, dall’angoscia per il clima, dalle disuguaglianze che caratterizzano il sistema, dalla politica che costituzionalmente dà potere ai cittadini e che mistifichi questi diritti con un’attenzione spasmodica alle lotte interne, alla banalità, ai personalismi che escludono partecipazione.

Il voto di mercoledì pomeriggio a Strasburgo sullo stato della democrazia in Ungheria e sullo smantellamento dello stato di diritto va realmenteinterpretato come un ricorso al diritto per combatterne il suo rovescio. Se l’esito della vicenda resta ancora tutto da scrivere, – il processo sarà molto complicato. La risoluzione del Parlamento, deve essere approvata da una maggioranza qualificata nel Consiglio dei ministri dell’Ue e Paesi come la Polonia, la Slovacchia, la Romania, Malta, la Repubblica Ceca o anche l’Italia, probabilmente resisteranno alle indagini sul governo di Orbán.

Possiamo tuttavia contare che, con tutte le riserve che abbiamo purtroppo sperimentato da Maastricht in poi, il diritto europeo può restare ancora una difesa della democrazia di fronte all’insorgere dell’autoritarismo. Ossia, la lotta del diritto contro il suo rovescio. Purché i cittadini ritornino ad essere partecipi e protagonisti: In gioco non c’è solo la tenuta dello Stato di diritto in Polonia e Ungheria, c’è la futura direzione dell’Unione e dell’Europa: aperta e democratica, oppure chiusa e autoritaria. In questo senso il pugno in faccia ad Orban è uno schiaffo a Salvini e alle illusioni che lui ama disinvoltamente a coltivare.

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Governo, il clima è una malattia. E la politica non la cura

Questa volta voglio prenderla alla larga visto che la crisi del rapporto tra politica e società viene sempre svelata ex-post; come una sorpresa superiore alle previsioni dei politici!

La dodicesima notizia più censurata negli Stati Uniti riguarda il problema della fine dei combustibili fossili. “Vivremo se l’80% dei combustibili fossili rimarrà sottoterra”, dice l’Ipcc report, ma gli americani e il resto del mondo non lo devono sapere. E, d’altro canto, di cosa discutono Matteo Salvini e Luigi Di Maio nelle loro apparizioni televisive? Hanno forse rimesso in discussione che l’Italia debba mirare ad essere l’hub del gas d’Europa e che la Sardegna debba essere metanizzata a suon di navi metaniere e rigassificatori?

Ma, davvero, se si escludono eccezioni, la questione del clima può essere sempre più impunemente travolta dalle corporation dei tubi e delle trivelle, dagli interessi finanziari delle multinazionali, da politiche neocolonialiste e dalle manovre di guerra? Sulla rivista After oil, Bill McKibben ha scritto che, per quanto riguarda il cambiamento climatico, il problema essenziale non è “industria contro ambientalisti o repubblicani contro democratici. Sono le persone contro la fisica“. Per questo motivo, i tipici compromessi e compensazioni offerti nella maggior parte dei dibattiti pubblici non funzioneranno abbastanza, perché “è inutile fare pressioni con la fisica”. E, al riguardo, la critica di Bill alla concorrenza, che il gas porta all’espansione delle rinnovabili è molto dura. La parola d’ordine del movimento dello scienziato statunitense “lasciamo sotto terra l’80% delle riserve di carbone, petrolio e gas” è stata censurata e fatta sparire da tutti i media internazionali, escluso il Guardian che l’ha invece ripresa con risalto.

L’invito di McKibben quindi, pur ragionevole ed essenziale, non muove fremiti quanto gli scandali della nomenclatura romana. Dice con naturalezza che “con alternative a combustibili fossili ormai sempre meno costose, per vincere non abbiamo bisogno di questa ostinata lotta per sempre tra climalteranti e sopravvivenza. D’altra parte, se possiamo tenere a bada lo sviluppo dei combustibili fossili (gas compreso!) “per qualche altro anno (…) avremo reso irreversibile la transizione verso l’energia pulita, il 100% di rinnovabili”.

A sostegno di questa scelta e di un percorso realizzabile entro il 2050, in La festa è finitaRichard Heinberg esamina tre livelli ragionevoli e praticabili di intervento anche in una fase di crisi. Interventi che non agiscono tanto sulla domanda, quanto sulle scelte politiche e di comportamento. In primo luogo, la transizione diventa un segnale di partenza vera quando si modificherà in modo sostitutivo la produzione di elettricità dalle fonti a contenuto di carbonio alle fonti di energia eolica e solare. Una volta che l’energia solare ed eolica generano elettricità, “ha senso elettrificare gran parte del nostro consumo energetico il più possibile” Oltre ad adattare gli edifici all’efficienza energetica e ad aumentare la quota di mercato degli alimenti biologici locali, il livello di cambiamento “potrebbe raggiungere almeno il 40% di riduzione delle emissioni di carbonio in 10-20 anni “. Occorre, ovviamente, praticare una politica industriale nella direzione delle fonti sole e vento, sostenuta da una forte spesa in ricerca.

Infine, poiché la produzione di cemento è necessaria e richiede alte temperature, queste potrebbero essere fornite dalla luce del sole, elettricità o idrogeno, ben sapendo che un simile cambiamento significherebbe “una ridefinizione quasi completa del processo di produzione non solo del calcestruzzo, ma anche della pianta urbana, della mobilità, delle modalità di relazioni e convivenza. A ciò andrebbe aggiunta la riprogettazione del sistema alimentare “per ridurre al minimo la lavorazione, l’imballaggio e il trasporto”. Naturalmente, investimenti, programmazione, formazione e lavoro dignitoso per accompagnarne una estesa diffusione.

Aggiungo che senza maggiori sforzi dei governi per promuovere la crescita dello stoccaggio delle batterie e delle interconnessioni energetiche tra paesi diversi, e senza finanziamenti verdi per favorire le utilities elettriche a migliorare i servizi energetici e della mobilità elettrica, il 2018 sarebbe un altro anno perso. Se avanzassero, come dovrebbero, la generazione distribuita, lo stoccaggio di energia e le abitazioni passive, i consumatori necessiterebbero di una tecnologia che consenta loro di gestire la produzione e il consumo di energia domestica con la massima efficienza e di vendere di nuovo alla rete. È il caso, ormai realizzabile, di veicoli elettrici messi in rete: Enel sta collaborando con il produttore di automobili Nissan per creare un sistema grazie al quale i proprietari di Nissan EV possono vendere energia immagazzinata nei loro veicoli alla rete per ottenere un guadagno.

Nulla di quanto qui riportato è assunto come asse strategico nel “contratto” del governo del cambiamento che sì è appena costituito. Mentre la scienza del clima ha fatto quanto poteva, rilevando i sintomi, individuando la patologia e formulando la prognosi, ora tutto è nelle mani del paziente: che sembra non voler guarire, abbandonando la politica ad esercizi di fiacco potere.

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