Nord Stream, così si rompe un equilibrio ancora negoziabile della guerra in Ucraina

Forse pochi hanno notato come i media stiano – comprensibilmente – demonizzando la mossa oscena di Putin di annessione alla Russia di regioni ucraine, ma lascino in ombra l’amputazione per sabotaggio del collegamento tra la Russia e l’Europa dei due metanodotti del Baltico. Dal punto di vista “politico e militare”, le implicazioni sembrerebbero non essere confrontabili: ma, a ben guardare, stanno purtroppo in relazione. Di fatto, questi due fattori – da una parte l’espansione territoriale della Russia verso il Mar Nero, dall’altra il blocco dei canali energetici da oriente verso l’Europa – convergono ogni volta che la crisi raggiunge un punto di svolta e la guerra fa un balzo in avanti verso il baratro, come confermano i due missili lanciati sul parcheggio di un convoglio umanitario a Vinnytsia, e la minaccia dell’”atomica strategica” dietro l’angolo. Dal punto di vista “fisico”, sabotare un tubo di un metro di diametro caricato di metano e immerso con tutte le precauzioni in mare per 1200 km si risolve in un’esplosione di qualche centinaio di chilogrammi di tritolo applicata all’infrastruttura da apparati segreti ed invisibili, mentre la modifica dei confini nel Donbass, pur rappresentata dalla modifica di un tratto di matita sulla carta geografica cui viene associato un colore diverso, ha comportato massacri feroci e combattimenti cruenti sul terreno.

Ma perché tutta la stampa occidentale non vuole mettere in rapporto l’isolamento dei canali commerciali con la Russia e l’inverno terribile che ci aspetta, con la recrudescenza della guerra “pazza” – come dice Francesco – se non perché, oltre che nella pretesa di Putin, prevale nella testa di Zelensky e della Nato lo stigma della vittoria a tutti i costi?

Distruggere i due gasdotti è – come l’annessione del Donbass – distruggere un equilibrio ancora negoziabile della guerra in Ucraina: nel caso del metano in particolare, significa distruggere l’asse dell’energia ancora sopravvissuto fra Berlino (Roma?) e Mosca. Intanto i prezzi del gas sul Ttf olandese sono schizzati nuovamente in alto, fino a 208 euro/MWh a seguito del tentativo di destabilizzare ulteriormente l’approvvigionamento energetico dell’Ue. Va detto che finora la Russia, nonostante il calo delle importazioni del suo gas da parte dei Paesi Ue negli ultimi mesi, ha tratto ingentissimi profitti grazie alle elevate quotazioni del combustibile sui mercati, le quali hanno più che compensato la riduzione dei volumi venduti, e che Kiev ha anche sfruttato la situazione per chiedere maggiore sostegno militare contro gli aggressori, mentre il netto incremento dei volumi di Gnl verso la Ue dai mercati internazionali (Usa, Qatar, Azerbaijan e Norvegia in primis) hanno rimpinguato le casse degli apparati militari e fossili di tutti i cobelligeranti. Questo è il bilancio economico perverso della guerra in corso. Peraltro, gli “incidenti” sui gasdotti russi sono avvenuti in concomitanza con il lancio del gasdotto Baltic Pipe: inaugurato ufficialmente martedì 27 settembre a Goleniów, in Polonia, trasporterà fino a 10 miliardi di metri cubi di gas.

È solo una coincidenza? Quel che è certo è che affidarsi al gas è una scelta sempre più rischiosa, a prescindere da chi lo fornisce e come.

Mentre si discute la possibilità di introdurre un tetto Ue ai prezzi del gas – ipotesi che finora ha diviso gli Stati membri – la Commissione europea dovrebbe aumentare iniziative e investimenti per ridurre la domanda di energia e sviluppare le fonti rinnovabili, le uniche in grado di assicurare una maggiore sicurezza e indipendenza energetica, ora che il cordone ombelicale che legava la Russia all’Europa sul gas è stato spezzato e galleggia in alto mare.

Prima di passare a inquietanti considerazioni ecologiche, vorrei ricordare come ormai la politica energetica tedesca non veniva più decisa a Berlino ma a Washington: uscita di scena Angela Merkel, gli Usa hanno avuto campo libero e, con la distruzione dei due gasdotti, è stata preclusa ulteriormente la via del negoziato ed è stata consegnata l’Europa intera alla dipendenza prolungata dalle importazioni di gas soprattutto statunitense, con conseguenze incalcolabili sul tenore di vita della popolazione.

E poi c’è l’aspetto ambientale, anch’esso oscurato. Quello avvenuto a lato della Danimarca è il peggior disastro nel campo dell’emissione di metano. Greenpeace scrive che, secondo calcoli preliminari, il potenziale impatto climatico della fuoriuscita di metano dai Nord Stream potrebbe essere di 30 milioni di tonnellate di CO2eq nell’arco di 20 anni: nel prossimo ventennio, un arco di tempo cruciale per l’azione sul clima, ogni tonnellata di metano emessa avrà impatto pari a 84 tonnellate di CO2eq (pari alle emissioni di gas serra di due milioni di auto in un anno.

Intanto nella UE si discute del price cap del metano. Purtroppo, è sul mercato che la Ue stessa ha chiesto di spostare le modalità e i prezzi di acquisto: ma, essendoci tre mercati regionali d’acquisto, quello russo, ormai tagliato fuori, avrebbe mantenuto prezzi più contenuti. Intanto, si va allargando come conseguenza anche il prezzo dello scambio delle emissioni, con conseguente rincaro del metano bruciato. La notizia data da Cingolani di avere a disposizione quantità di scorte nazionali vicine al 100% non è per nulla rassicurante: innanzitutto, sono state pagate 10 volte rispetto l’anno precedente, mentre – in quasi totale silenzio – la domanda nazionale di greggio russo e di carbone nel 2022 sono aumentate del 112% e del 18% rispettivamente. In definitiva, con un profitto evidente di Usa, Qatar e Norvegia, rallenta la transizione ecologica del Next Generation Ue.

Purtroppo tutti i fattori – economici, commerciali e industrali – si allineano sul risultato più pericoloso, e in un certo senso i fattori dell’espansione territoriale della Russia in Ucraina e del blocco dei canali energetici verso l’Europa convergono ogni volta che la crisi raggiunge un punto di svolta. Ogni settimana più pericoloso. E ogni settimana da tenere sotto la stessa allarmata, se non disperata, apprensione.

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Bollette, extraprofitti e rinnovabili: perché l’Italia non nazionalizza l’energia?

Ben 328 miliardi di euro di ritorni economici, accanto alla creazione di oltre 2 milioni di posti di lavoro e al risparmio di 614 miliardi in ambito sanitario e produttivo. Ma, soprattutto, la possibilità di aumentare la sicurezza energetica nazionale, tagliando la spesa fossile di 1.914 miliardi di euro con l’obiettivo da raggiungere le zero emissioni al 2050. A calcolarli è “Net Zero E-conomy 2050″, lo studio redatto da Enel Foundation e The European House – Ambrosetti e presentato in occasione del forum di Cernobbio.

Lo studio mette in evidenza molto chiaramente la eccessiva dipendenza dell’Italia dal gas e i vantaggi molto evidenti che una “riduzione accelerata dell’uso delle fonti di energia fossile può portare proprio a chi oggi ne fa un uso smodato” come ha affermato Francesco Starace, Amministratore Delegato e Direttore Generale di Enel. Anche queste voci autorevoli sono però oscurate dalla politica nostrana, che ha nel gas e nel possibile ripristino del carbone la carta che preferisce adottare in emergenza.

Purtroppo, sul fronte delle energie rinnovabili, l’Italia è attualmente ancora lontana dal target 2030 (otto punti percentuali dall’obiettivo di portare al 30% le FER nei consumi finali). La situazione peggiora se si proietta lo sguardo al 2050, quando il gap tra risultati raggiunti e zero emissioni nette dovrebbe salire a 60,7 punti, stando all’attuale trend. La cosa stupefacente è che il bilancio di riduzione di spesa sarebbe favorevole sulla base di investimenti per 3.351 miliardi di euro; una spesa ben al di sotto di quella richiesta da minori ambizioni climatiche ed energetiche, grazie ai maggiori vantaggi sociali, economici, ambientali e di salute.

Francesco Starace ha già spinto per la soluzione ad eolico galleggiante a Civitavecchia al posto di un turbogas da 1860 MW. Ma quale piano avrà il governo? Quali sono gli interessi allora che bloccano questa direzione della transizione energetica?

La verità è che l’invasione dell’Ucraina e la pratica delle sanzioni hanno sconvolto completamente il mercato energetico, ritardando l’introduzione delle rinnovabili e facilitando una speculazione inedita sul mercato dei fossili provenienti da sorgenti sempre più lontane e con trasposto di metano liquefatto da Paesi poco affidabili, per cui l’Eni non viene certo messa in ansia da Draghi e Cingolani (che hanno steso i contratti sul gas sotto la supervisione di Descalzi!).

La generalizzazione del riarmo imposta dagli Stati Uniti ai paesi della Nato non significa semplicemente che l’economia di guerra costituisca la continuazione e il prolungamento dell’economia di mercato che si è drammaticamente inceppata. Significa che i blocchi si ricostruiscono non più su basi prevalentemente ideologiche, ma che – mentre geopolitica e biosfera si toccano da vicino – i limiti ecologici-planetari del sistema Terra impongono una riconversione della merceologia e della geografia delle fonti energetiche. Questo era richiesto dalla Cop di Parigi, ma in forma di cooperazione, non di conflitto militare.

Una riconversione energetica che blocchi le emissioni climalteranti non può nascere certo solo interrompendo nell’immediato la dipendenza dell’Unione Europea dai fossili di Eurasia e, contemporaneamente, avvicendando la provenienza delle fonti – ancora! – di gas, petrolio e carbone dalle sponde atlantiche e mediorientali, a costi più alti e con sprechi energetici più elevati. Le proposte approvate prevedono un aumento di combustione di carbone, la riattivazione e la prospezione di nuovi giacimenti di metano, il potenziamento e la costruzione di nuovi gasdotti nonché l’ancoraggio nei porti di navi e rigassificatori con l’importazione di pari quantità di combustibili da Paesi di non comprovata affidabilità.

Contrariamente alla politica succube degli Stati Uniti, la Germania ha annunciato lo stanziamento di 200 miliardi di euro da investire nella conversione energetica rinnovabile entro il 2026. I fondi dovranno essere impiegati per stazioni di ricarica per i motori elettrici, impianti di creazione di idrogeno, oltre che per calmierare l’aumento dei prezzi energetici, con un intervento pubblico consistente.

Infatti, la crisi energetica ha portato alla decisione tedesca di nazionalizzare Uniper, il principale fornitore di gas per la Germania. Berlino, infatti, punta a controllare il 98,5% della società. A cosa è dovuta la mossa della Germania? Il problema è che Uniper in questi mesi ha accumulato circa 8 miliardi e mezzo di perdite legate al gas, perché le interruzioni delle forniture russe hanno costretto la società a comprare combustibile fossile da altri esportatori, principalmente Gnl via nave, a costi molto più alti.

Di conseguenza Uniper, diventata pubblica, sarà in grado di assicurare la sicurezza degli approvvigionamenti energetici al Paese.

Berlino intende così prendere in mano direttamente la compagnia e garantire maggiore stabilità ai mercati energetico almeno fine del 2022. Anche la Francia si sta muovendo per nazionalizzare ulteriormente EDF. Da noi nulla di tutto questo: gli extraprofitti di Eni vanno in gran parte agli azionisti privati, mentre le bollette di famiglie e imprese crescono senza sosta.

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Gorbaciov, l’Occidente non colse la straordinaria novità del suo pensiero

Si è spento a 91 anni, dopo una lunga malattia, l’ex presidente dell’Unione sovietica Mikhail Gorbaciov.

Il “Doomsday clock” consiste in un grafico calcolato da un centinaio di scienziati (tra cui 11 premi Nobel) in cui il pericolo della fine dell’umanità viene quantificato tramite la metafora di un orologio simbolico la cui mezzanotte simboleggia la fine del mondo, mentre i minuti precedenti rappresentano la distanza ipotetica da tale evento. Originariamente, la mezzanotte rappresentava unicamente la guerra atomica, mentre dal 2007 si considera qualsiasi evento che può infliggere danni irrevocabili all’umanità (come, ad esempio, i cambiamenti climatici).

Oggi ci troviamo a soli 100 secondi dalla mezzanotte, ma finché Gorbaciov rimase presidente dell’Urss le lancette stazionavano sempre oltre le 12 ore, fino a raggiungere le 17 ore al tempo dell’accordo Gorbaciov-Reagan sulla moratoria delle armi nucleari. Dalla scomparsa dalla scena politica di questo grande statista gli sforzi di pace si sono ridotti e la stessa fine della guerra fredda non ha arrestato la corsa a precipizio delle sfere dell’orologio.

Ho avuto l’avventura di avvicinarlo il giorno dei funerali di Berlinguer e di presenziare ad un suo intervento sull’ambiente al tempo in cui si riuniva il tribunale Russell. Ricordo una sua frase straordinaria (era il 1987): “Stiamo passando dalla geopolitica alla biosfera e il futuro non sarà più nella guerra, ma nella tutela dell’ambiente”.

Tutti conoscono la sua estromissione ad opera di Eltsin e la vicenda storica della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Ma l’avvicendarsi frenetico degli eventi non può cancellare una profonda ingiustizia nei suoi confronti: l’Occidente non ha colto la straordinaria novità di un pensiero che vedeva la globalizzazione non come una feroce competizione, ma come una cooperazione tra popoli che sentono impellente la necessità di sviluppo delle idee di uguaglianza. Una tensione capace anche di superare rigidità ideologiche per costruire il senso di un “limite” che va posto alla distruttività di uno sviluppo frutto della rapacità verso la natura, lo sfruttamento del lavoro, l’intreccio tra tecnica e finanza agenti da dominatori sulla politica.

Con le parole chiave “glasnost” (trasparenza) e “perestrojka” (riorganizzazione) il processo di riforma avviato nel 1985 dall’allora segretario generale del Pcus Gorbaciov pose fine ad una lunga stagnazione economica e politica, introducendo processi che avvicinarono la fine del conflitto Est-Ovest e portarono alla caduta della “cortina di ferro” e, quindi, alla fine della “Guerra Fredda” senza alcuno spargimento di sangue. Gli stessi popoli, le regioni e le repubbliche dello Stato multietnico dell’Unione Sovietica hanno utilizzato l’avvio di un processo che oggi possiamo considerare rivoluzionario, nelle condizioni difficili in cui si apriva. Accanto alle nuove aspirazioni, l’Unione Sovietica si è disintegrata, ma Gorbaciov non ha mai smesso di procedere anche sotto diverse funzioni sovranazionali a sostenere un afflato umanitario e globale, che lo porterà a dirigere l’organismo internazionale per il diritto all’acqua e a presiedere comitati per la pace in più continenti.

Occorre riconoscere che le democrazie liberali, diventate liberiste, videro l’occasione per liquidare quella che ancora molti nel mondo – nonostante tutto – vedevano come un’alternativa di progresso, per decretare la “fine della storia” con la vittoria dell’Occidente. Un’illusione, come forse sapeva Gorbaciov e come dimostra il mondo che abbiamo ereditato dal crollo dell’Urss e del muro di Berlino, dove la democrazia sociale che doveva sostituire il comunismo sovietico si è trasformata in democrature, in regimi conservatori e illiberali, e dove le alternative sono troppo spesso improntate alla violenza e all’uso di armi sempre più micidiali.

Nella vita di Gorbaciov l’atomo e il nucleare civile furono tra le cause dell’insuccesso di quella che alcuni richiedevano diventasse una “seconda rivoluzione russa”. Nel mio ricordo c’è quel 19enne a bordo di un Cessna, con una bandierina tedesca sul timone, che atterrò nel 1987 sulla Piazza Rossa, a un passo dal Cremlino, beffando l’aviazione sovietica. Il ragazzo mandava un segnale beffardo e drammatico: entravamo in un’era in cui il controllo sociale non era più efficace di fronte a manufatti di tale potenza da rompere irreversibilmente la convivenza tra umani e l’armonia con la natura. La tragedia nucleare di Chernobyl dimostrò tutta l’indecisione di Gorbaciov e quanto la sua perestrojka non fosse riuscita a scalfire la parete oscura che legava e lega il nucleare civile a quello militare. E di quanto l’apparato di segretezza che lo circondava (passato armi e bagagli prima a Eltsin e poi a Putin) fosse ormai incistato nel Paese che si stava disfacendo, condizionandone il passato, il presente e il futuro.

Il disastro nucleare spinse l’ormai ex presidente di un Paese che non c’era più a fondare l’Ong ambientalista Green Cross International: in quella veste lo ascoltai alla Camera del Lavoro di Milano, accompagnato dalla amatissima moglie, mentre argomentava sulle minacce interconnesse che l’umanità e la nostra Terra devono affrontare a causa di armi nucleari, armi chimiche, di uno sviluppo insostenibile che comporta la devastazione dell’ecologia del pianeta indotta dall’uomo.

Gorbaciov è morto, ma il mondo che lo ha estromesso, isolato, umiliato è ancora ben vivo. E non è un mondo pacifico e libero dalle armi nucleari, né un mondo più ecologico e meno inquinato. A Milano, quella sera del 1996, lasciò la platea con la frase che suo padre gli aveva detto al suo ritorno dalla Seconda Guerra Mondiale: “Abbiamo combattuto fino a quando non abbiamo finito la lotta ed è così che devi vivere”. Ci ha provato, ma fino ad ora la lotta non accenna a placarsi.

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Ucraina, gravi rischi per la centrale nucleare di Zaporizhzhia: non se ne parli irresponsabilmente

Uno sterminio nell’unità di tempo (110mila morti all’istante) tanto intenso si è verificato ad opera umana solo 77 anni fa, alla conclusione della seconda guerra mondiale, con l’inutile (oserei dire “gratuito”, ma anche questo termine lacera ogni coscienza) massacro di due popolazioni giapponesi ormai vinte, quasi a marchiare quanto il ricorso al nucleare trascenda la convivenza e possa avere a destino, a questo punto, perfino la fine del nostro mondo. Eppure, non solo i governanti, ma la stessa opinione pubblica mondiale continua a sottovalutare, se non addirittura a ignorare, la minaccia atomica.

La guerra in Ucraina oggi ripropone d’attualità questo rischio efferato. Il territorio di quel Paese è disseminato di 15 reattori nucleari. A Zaporizhzhia, sulle rive del fiume Dnepr e in piena zona di guerra, è in funzione l’impianto nucleare di maggior potenza in Europa con ben sei reattori da 950 MWe ciascuno.

E’ noto come le centrali nucleari siano tra le installazioni più complesse e soggette a rischio. Per mantenerle operative e al riparo da danni dovute alle reazioni radioattive incontrollate, occorre che le garanzie – necessariamente sovrabbondanti – previste in fase di progettazione degli impianti vengano mantenute inalterate in tutte le fasi di operatività e in qualsiasi condizione. A Zaporizhzhia la guerra in corso non solo lambisce la centrale, ma rende del tutto precaria la disponibilità di risorse in grado di contrastare un incidente catastrofico.

Una centrale nucleare operativa richiede in ogni momento la fornitura di elettricità alle pompe di alimentazione e la fornitura di acqua adeguate per raffreddare il combustibile nucleare, sia nel reattore che nell’adiacente vasca di combustibile nucleare esaurito. Sia una eventuale fusione del nocciolo, sia la reazione chimica altamente esotermica nella vasca provocherebbero il rilascio di un volume molto elevato e micidiale di radioattività. E’ quanto è già avvenuto a Fukushima, dove vi è stata sì fusione del nocciolo, ma, casualmente e fortunatamente, la vasca è rimasta coperta da un sufficiente strato d’acqua in ebollizione, evitando che l’incidente fosse ancora più spaventoso.

In una guerra come l’attuale condotta da mesi a colpi di artiglieria pesante e a lanci di missili e con il rifornimento continuo di armi sempre più micidiali, una centrale nucleare è molto vulnerabile a un’interruzione dei sistemi di supporto, sia di energia elettrica, sia di acqua di raffreddamento: in tal caso, centinaia di lavoratori e mezzi speciali a soccorso dovrebbero poter raggiungere l’impianto da vicino: il che, evidentemente, non è fattibile in circostanze belliche. Ogni interruzione tecnica, per qualsiasi motivo, potrebbe richiedere un’importante operazione logistica a livello nazionale che sarebbe gravemente compromessa dalle esplosioni intorno alla centrale.

Lo spettro di gravi rischi per la più grande centrale nucleare d’Europa è diventato nelle ultime settimane purtroppo molto attuale. E non riguarda solo il danneggiamento e la fusione delle barre di uranio, ma la struttura di stoccaggio di combustibile esaurito (2.204 tonnellate secondo uno studio di Greenpeace). Il Consiglio di Sicurezza Onu dell’11 agosto ha condannato i bombardamenti avvenuti venerdì e sabato nei pressi della centrale e Guterres ha chiesto “alle forze armate della Federazione Russa e dell’Ucraina di interrompere immediatamente qualsiasi operazione militare”, mentre continua lo scaricabarile tra Mosca e Kiev sulla responsabilità degli attacchi.

A chiedere un incontro urgente al Palazzo di Vetro sull’incolumità del sito era stata proprio la delegazione russa guidata dall’ambasciatore Vasilij Nebenzja, che ha inoltre sollecitato una missione dell’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica) presso l’impianto nel più breve tempo possibile.

Ora c’è da chiedersi: chi tra i belligeranti (Ucraina e Russia) ha diritto di lanciare accuse su un possibile responsabilità di disastro nucleare in seguito ad operazioni belliche? La centrale è da tempo condotta da tecnici russi che hanno sostituito il personale ucraino per “assicurare maggiore protezione”. Mi risulterebbe strano dal punto di vista strategico o semplicemente razionale assumere un compito e poi renderlo vano consapevolmente con rischi tutt’altro che improbabili di una estensione del disastro ben al di là degli occupanti (russi!) e delle regioni limitrofe ucraine, del Donbass ed oltre. Viene poco ricordato come l’impianto fornisca energia non solo alle zone “filorusse”, ma anche alla Crimea e che quindi l’occupazione abbia un po’ il senso di una “preda di guerra” da scambiare, arrivati alla augurabile cessazione del fuoco, sul tavolo delle trattative.

Ma la questione, terrificante per la sua portata catastrofica, non si limita alle parti in conflitto diretto: sono spariti dall’orizzonte della discussione la voce e l’interesse di Francia e Germania, che pure avevano mantenuto relazioni d’appoggio alle agenzie russe produttrici di materiale fissile nella trattativa Ue per la tassonomia verde affibbiata anche a gas e uranio. Forse il relativo silenzio su Zaporizhzhia fa parte di una intesa generale per il rilancio del nucleare, a cui non si sono sottratti nemmeno gli Stati Uniti, che non hanno applicato alcuna sanzione alle esportazioni di materiale fissile fuori dalla Federazione russa.

Dobbiamo sollevare un grande allarme: un paese nucleare è in guerra, altri parlano di atomiche tattiche, negli Usa tornano i filmati del terrore post-atomico, centrali nucleari sono sulla linea di tiro. I negoziati per il disarmo non hanno fatto passi avanti e la guerra ucraina ha creato l’occasione per rimettere sul tavolo l’idea che testate nucleari “piccole” potrebbero essere usate al fronte. Pura follia, ovviamente, mentre ci sono leader mondiali che parlano di questo argomento in modo approssimativo e irresponsabile, senza considerare l’effetto devastante e permanente – “transtorico”, direi – che l’uso di testate nucleari avrebbe sulla popolazione e sulla vita dell’ambiente.

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Tassonomia verde, il Parlamento Ue ha tradito il clima e i cittadini

Il 6 luglio 2022 il Parlamento Europeo si è prestato a una mistificazione che sa di scandalo: non respingendo l’atto delegato della Commissione presieduta da Ursula von der Leyen, nella sessione plenaria ha tradito il clima e i cittadini, approvando a maggioranza una serie di norme sulla finanza sostenibile che convoglieranno miliardi di euro in attività che, accelerando il cambiamento climatico, danneggeranno il pianeta e la vita delle nuove generazioni.

Grandi manifestazioni e centinaia di migliaia di firme in tutta Europa avevano esortato i loro europarlamentari a respingere un “greenwashing” coperto da aiuti pubblici e facilitazioni finanziarie.

L’inclusione del gas fossile nella tassonomia dell’Ue crea un serio pericolo di contrasto con altre leggi dell’Ue, in particolare con gli obblighi previsti dall’Accordo di Parigi, dalla Legge europea sul clima, dal Green New Deal malamente azzoppato.

Con questo atto delegato la direzione è ora segnata, benché l’inclusione di gas e nucleare sia limitata nel tempo e dipenda da condizioni specifiche e requisiti di trasparenza, che quasi sempre rimangono a discrezione delle aziende. Inceneritori, cogeneratori a gas per teleriscaldamento e teleraffreddamento, nuove centrali nucleari e un loro prolungamento del ciclo di vita sono ritornati prepotentemente in gioco e potranno quindi ricevere finanziamenti da parte degli investitori con grande soddisfazione delle lobby energetiche che operano alacremente a Bruxelles.

L’impegno dell’Europa per i cambiamenti climatici rimane invariato: è ancora obbligatorio ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento nel 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, in linea quindi con la legge europea sul clima… almeno sulla carta e con l’ipocrisia che caratterizza ogni contraddizione con gli obiettivi di ecologia integrale.

A votare contro l’inclusione delle due fonti energetiche in tassonomia sono stati 278 eurodeputati. La maggioranza necessaria per bloccare il progetto della Commissione guidata da Ursula von der Leyen era fissata a 353. Greenpeace ha annunciato che intraprenderà un’azione legale contro la Commissione europea. L’associazione ambientalista ha specificato che prima richiederà formalmente una revisione interna. Se il risultato di questa sarà ancora negativo, allora la causa verrà presentata davanti alla Corte di giustizia europea. Ora la discussione passa al Consiglio europeo. Se neanche il Consiglio respingerà la mozione, l’atto delegato sulla tassonomia entrerà in vigore il 1° gennaio 2023. Anche l’associazione “A Sud” ha promosso una campagna legale contro lo Stato italiano, intitolata Giudizio Universale, accusandolo di inazione nei confronti della crisi climatica in corso.

La maggioranza “Ursula” si è però spaccata a metà e anche quella che in Italia sostiene il governo Draghi è divisa. A votare per il rigetto dell’atto delegato sono stati Verdi, Sinistra e S&D. Per mantenere l’atto delegato hanno votato invece Ppe, Ecr, Id e la maggioranza del gruppo Renew. I voti in dissenso nel Ppe sono stati 36, quelli nei socialisti 21.Tra gli italiani Pd (compatto nel voto), M5S e Verdi hanno votato per il rigetto, FI, Fdi, Lega e Iv hanno invece votato a sostegno.

In assenza di una politica che sappia davvero ascoltare e dare seguito alle istanze ambientali, la strada giudiziaria è sempre più percorsa. Ma affinché la partita non sia chiusa occorre una volontà politica degli stati e dei governi, sorretta da una coscienza popolare e da un vasto movimento politico che non si rassegni a sopportare che profitti, capitale e riarmo soffochino le prospettive di vita e l’urgenza di cura del pianeta. Un folto gruppo di ragazze e ragazzi presidiava da due giorni il parlamento a Strasburgo. E’ ora che una adeguata mobilitazione calchi anche le vie e le piazze di un Paese dalle cui montagne si staccano inesorabilmente i ghiacciai.

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