La rivoluzione delle rinnovabili non si ferma con una modifica della Costituzione

di Giovanni Carrosio

Molto è già stato scritto sulla Strategia Energetica Nazionale. Si vedano l’intervento di Agostinelli su Pubblico e l’editoriale di Silvestrini sul numero di settembre/ottobre della rivista Qualenergia, che mettono in luce le criticità di una strategia improntata principalmente sul gas e sull’intensificazione di estrazioni petrolifere nel nostro paese. Condividendo nel merito gli interventi citati, preme fare qualche considerazione sulla parte del documento che intende intervenire sugli aspetti di governance, nel quale si paventa una modifica della Costituzione per ri-centralizzare la programmazione energetica nelle mani dei ministeri competenti, al fine di ridurre il potere delle autonomie locali sia nelle fasi di programmazione, che di intervento nelle procedure di valutazione ambientale delle infrastrutture energetiche.

La “modernizzazione del sistema di governance” prevede una serie di interventi importanti: la modifica del titolo V della Costituzione; l’adozione di procedure di coinvolgimento degli enti locali; l’introduzione di procedure autorizzative semplificate per le infrastrutture energetiche strategiche e l’accorciamento degli iter autorizzativi in generale.

Intanto un dato politico che denota una involuzione della capacità della classe dirigente di intervenire in termini di programmazione con una visione di lungo periodo: dopo anni di retorica sull’integrazione europea, sull’Europa delle regioni e delle autonomie locali, con la modifica dell’articolo V della Costituzione si ritorna all’interesse Nazionale, che deve prevalere sui sistemi territoriali locali e sulle dinamiche transfrontaliere. In secondo luogo, nel documento si afferma come sulla modifica della Costituzione vi sia un largo e trasversale consenso in parlamento. Sarebbe bene capire che cosa ne pensano le forze politiche e a questo punto che il dibattito sulla SEN entri con forza nelle primarie di entrambi gli schieramenti.

 

Bisogna cogliere la filosofia generale della revisione dei meccanismi di regolazione  e dei livelli di governo del comparto energetico: la strategia energetica nazionale individua nell’accentramento il sistema di governance migliore per depotenziare la diffusione delle rinnovabili e salvaguardare il tradizionale oligopolio legato alle fonti convenzionali. Ai territori non spetta più la facoltà di programmare, ma soltanto un potere consultivo, perché il piano Passera ha sostanzialmente due obiettivi: combattere il decentramento energetico in atto, che vede interi territori diventare energeticamente autonomi e sovrani grazie alla straordinaria diffusione delle rinnovabili, ed evitare che le autonomie locali intralcino lo sviluppo delle grandi infrastrutture energetiche. Si prevede un passaggio da una governance prevalentemente orizzontale ad un sistema di governo gerarchico, dove il centro decide e le periferie si adeguano.

 

Il ruolo dei territori diverrebbe così marginale: essi andrebbero coinvolti soltanto al fine di ratificare le scelte prese ai piani alti dei ministeri, attraverso strumenti capaci di prevenire proteste a priori dovute ad una “cattiva informazione”. Si cita persino uno strumento partecipativo, il “dibattito pubblico informativo” (ben diverso dal dibattito pubblico alla francese), come marchingegno di governo funzionale a favorire l’inserimento delle grandi infrastrutture energetiche (metanodotti, rigassificatori, trivelle, impianti di raffinazione) nel territorio. Dopo anni di studi sui fenomeni partecipativi e sui movimenti territoriali, francamente stupisce una visione così grezza della partecipazione, banalizzata nell’adozione di strumenti di coinvolgimento volti a superare “la mancanza di informazioni affidabili e concrete”.  Come se i movimenti di protesta fossero mossi da ignoranza e non da approfondita conoscenza. Come se bastasse indottrinare, e non coinvolgere realmente nella formazione delle politiche.

 

Del resto la filosofia che emerge dalla lettura del documento è questa: il centro progetta grandi infrastrutture energetiche, individua i territori destinati ad ospitarle, tenta di inserirli sui territori in modo consensuale, illustrando i benefici per le popolazioni locali, e “in caso di mancata intesa della Regione, la decisione sia rimessa al Consiglio dei Ministri”.

 

Siamo di fronte ad una vera e propria offensiva, che vede le procedure autorizzative e le autonomie locali come intralci alla modernizzazione del paese. Francamente non si capisce se vi sia della cattiva fede o una mancata percezione dei fenomeni realmente in atto: calano i consumi di energia, diminuisce progressivamente l’intensità dei picchi di domanda, crescono le energie rinnovabili e decresce il ruolo strategico delle centrali convenzionali. Migliaia di piccole imprese e cittadini diventano produttori di energia, grazie alla installazione diffusa di piccoli dispositivi energetici. Si diffondono progetti di integrazione territoriale delle energie rinnovabili, con l’obiettivo di conquistare spazi di sovranità energetica. Nuove imprese investono in ricerca e sviluppo, creando lavoro e conquistando importanti quote di mercato anche all’estero. È certo che questa esplosione delle rinnovabili fa paura alle grandi lobby dell’energia, delle quali il ministro Passera si presenta come uno strenuo garante. Ma non sono proprio i riformisti di ogni colore ad averci ribadito in questi anni che i processi vanno accompagnati? E sull’energia cosa facciamo, tentiamo di congelare il corso della storia con una modifica delle Costituzione? Per fortuna la costruzione dell’alternativa energetica è un processo che è partito dal basso, che è radicato nei territori e si sta diffondendo a macchia di leopardo formando tanti presidi di democrazia reale – perché produrre energia sui territori significa accrescere la democrazia locale distribuendo il potere economico – che poco badano alle macchinazioni ministeriali.

La lotta tra carbone e rinnovabili in Cina

di Gianni Silvestrini – Qualenergia 19 novembre 2012

La settimana prossima inizia a Doha, nel Qatar, la 18° Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici – COP 18, un passaggio del percorso a ostacoli che entro il 2015 dovrebbe consentire di trovare un accordo globale per contenere le emissioni climalteranti al 2020.
Ma intanto qual è il panorama globale? La Cina, che alla firma del Protocollo di Kyoto nel 1997 aveva emissioni pari alla metà degli Usa, l’anno scorso è stata responsabile del 29% della produzione mondiale di anidride carbonica, più di Europa e Stati Uniti messi insieme. Nel grafico le emissioni in milioni di tonnellate di CO2 dal 1990 al 2010. Impressionante il boom della Cina: l’incremento dell’ultimo decennio supera da solo le emissioni totali degli Usa o dell’Europa (fonte: JRC, European Commission).

Principale imputato il carbone. La superpotenza asiatica lo scorso anno ha consumato 3,7 miliardi di tonnellate, circa la metà della produzione mondiale. Sempre in Cina nei prossimi quattro anni dovrebbero essere realizzate 160 nuove centrali a carbone. Nel grafico il consumo di carbone nel mondo (in miliardi di tonnellate, fonte EIA).

Uno scenario dunque tutto nero? In realtà questo sistema sta scricchiolando. Non solo per i 2.500 minatori che muoiono ogni anno o per le terribili conseguenze sanitarie che stanno provocando vere ribellioni, come quando lo scorso dicembre 30.000 residenti hanno bloccato la costruzione di una nuova centrale nella provincia di Guandong. In discussione sono i profitti. Il rallentamento dell’economia e il blocco delle tariffe stanno infatti provocando grosse perdite ai produttori elettrici cinesi. Così, gli investimenti in nuove centrali a carbone nel 2011 si sono dimezzati rispetto al 2005 e le centrali che verranno completate nel 2012 sono la metà rispetto allo scorso anno.

Nel frattempo continua la corsa delle rinnovabili. Con 63 GW installati alla fine dello scorso anno la Cina ha rafforzato la sua leadership mondiale nella potenza eolica installata e dovrebbe raggiungere 2-300 GW al 2020. Nel fotovoltaico, comparto che vede il Paese asiatico dominare la produzione internazionale di celle e moduli, il mercato interno è appena decollato, 3,5-4 GW installati nel 2012, ma la potenza potrebbe raggiungere 100 GW prima della fine del decennio. Secondo i programmi governativi, nel 2015 il 30% della potenza elettrica dovrebbe essere costituita da rinnovabili e da nucleare (nel 2011 erano stati prodotti 87 TWh atomici e 67 eolici). Nel grafico l’elettricità generata dal nucleare e dal vento in Cina tra il 2000 e il 2011 (fonte Schneider).

Dunque, il sistema energetico cinese è in fase di rapido cambiamento. L’accordo mondiale sul clima dipenderà molto dalla forza che acquisiranno all’interno della potenza asiatica i settori della green economy (rinnovabili, efficienza, mobilità sostenibile) rispetto a quelli dominanti legati al carbone.

La crisi depenna il clima, ma il clima non si dimentica di noi

Dallo scioglimento dei ghiacci agli eventi metereologici estremi sempre più frequenti, gli effetti del riscaldamento globale si fanno sentire sempre di più. Ma i grandi del mondo pensano solo alla crisi finanziaria, che si sta affrontando immergendosi ancora di più nel gorgo che l’ha creata. Per esempio continuando a puntare sulle fonti fossili.

di Mario Agostinelli – 16 novembre 2012

 

Anche se se ne parla poco sui media, è bene tenere i riflettori accesi sul global warming. Nel mese di settembre 2012 si è registrato un nuovo inquietante record. La superficie dei ghiacci artici si è ridotta a soli 3,5 milioni di chilometri quadrati, la metà rispetto a 40 anni fa. Parallelamente la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera continua a crescere e ha raggiunto i valori più alti degli ultimi 800.000 anni. Nel 2012 si toccheranno i 394 ppm, 44 in più rispetto alla soglia dei 350 da non superare per evitare conseguenze catastrofiche al Pianeta. Analisi della Nasa confermano come le aree definite “extremely hot”, inesistenti nel trentennio precedente, siano progressivamente cresciute raggiungendo nel 2011 il 12% della superficie non oceanica del nostro emisfero. Ma per i grandi del mondo, già riuniti a Rio a Giugno, la crisi finanziaria assorbe qualsiasi prospettiva di cambiamento a medio-lungo termine e, anzi, si affronta immergendosi ancora di più nel gorgo che l’ha creata.

Significativamente, la questione climatica è rimasta al di fuori della campagna per le elezioni presidenziali negli USA, mentre la UE, al contrario, punta a innalzare al 30% l’obiettivo di riduzione delle emissioni climalteranti al 2020 (ma ne avete sentito parlare tra uno spread e l’altro?). Anche la Cina, contando in modo sempre più incisivo sulle clean technologies (per esempio ha appena quadruplicato gli obiettivi sul fotovoltaico) potrebbe nei prossimi 2-3 anni ribaltare gli equilibri diplomatici consentendo di raggiungere un accordo per il post-Kyoto.

Quindi, i perduranti umori anti-Kyoto USA e il ritorno al petrolio e al gas della strategia energetica nazionale (SEN) proposta da Passera-Monti, non sembrerebbero proprio godere del plauso globale. In compenso, sulle sponde dell’Atlantico e su quelle del Mediterraneo le ascoltate lobbies energetiche propugnano un’ostinata e irresponsabile azione di rimozione del tema del climate change. Alla domanda di un giornalista sul perché nei dibattiti con Romney non si fosse parlato di cambiamenti climatici, Obama ha risposto che “il moderatore non aveva sollevato il problema”! Quando poi l’uragano Sandy ha sovvertito l’agenda della campagna elettorale delle presidenziali, l’attenzione degli americani è stata focalizzata assai più sulla capacità di intervenire a riparare i guasti, che sulla lungimiranza politica di mitigarli prevenendoli.

L’attrazione finanziaria per il petrolio offshore e il gas da scisti bituminosi (shale gas) si concretizza in America in enormi nuovi investimenti delle grandi compagnie, mentre da noi i “tecnici” a Montecitorio guardano con favore a un’Italia futura solcata da tubi, perforata da pozzi, costellata di rigassificatori. Eppure, i costi del rilancio del sistema energetico attuale con l’affinamento di possenti e pirotecniche tecnologie – perforazione dell’Artico, frazionamento delle rocce, giganteschi sistemi fissi e mobili di liquefazione e rigassificazione – sono spaventosi e non possono che aggravare la stessa crisi finanziaria in corso.

In un recente articolo “The social cost of carbon in U.S. regulatory impact analyses: an introduction and critique”, Laurie T. Johnson e Chris Hope, due studiosi americani, affermano che ogni tonnellata di CO2, valutata a 21 dollari dall’agenzia intergovernativa USA, nei fatti pesa sui contribuenti dai 55 fino a 266 dollari, se si tiene conto dei costi sociali, rappresentati non solo dagli effetti del cambiamento climatico su ambiente ed economia, ma anche dai costi delle cure per le malattie polmonari o i giorni di lavoro o di scuola persi per questioni sanitarie dovute all’inquinamento legato ai combustibili fossili.

Il contributo antropico allo scatenarsi dell’uragano che la settimana scorsa ha colpito Haiti, Cuba, la Virginia e New York, viene esorcizzato, tacendo il fatto che in questo autunno Sandy ha incontrato temperature della superficie del mare al largo della costa orientale americana di quasi 3º C più alte del solito. Il che ha comportato un’influenza diretta sull’intensità della tempesta, dato che l’atmosfera sovrastante l’oceano era più carica di energia e conteneva più umidità. Tacere perché? Ma per riprendere i lavori per il gasdotto per portare shale gas dal Canada al Texas. Per approvare che Putin investa con Gazprom 19 miliardi di euro per allacciare la Siberia a Vladivostok e servire i mercati asiatici. E per consentire che il progetto South Stream, sponsorizzato anche dai nostri Governi (da Berlusconi a Monti), eluda gli obblighi in materia di antitrust e ambientale fissati dalla Commissione europea, mantenendo a oggi segreto il percorso di attraversamento del territorio bulgaro dal Mar Nero verso le coste adriatiche.

Ma non si tratta solo delle grandi opere a dimensione geostrategica. Perfino a livello locale sono in corso colpi di mano: le aree dell’hinterland a Est di Milano sono a rischio trivellazioni petrolifere. La Mac Oil spa, una società -con sede legale a Roma- fondata nel 2007 e controllata dall’americana Petrocorp Inc. con esperienze di estrazione di shale gas – sta ricercando idrocarburi in una vasta area, comprendente ben 37 Comuni in 5 diverse province (Bergamo, Cremona, Lodi, Monza Brianza e Milano). La richiesta di prospezione è stata prima accolta, nel febbraio 2009, dalla Commissione per gli idrocarburi e le risorse minerarie (Cirm) del ministero dello Sviluppo economico. Poi un ricorso al Tar del Lazio l’ha bloccata per due anni, fino a che la Regione Lombardia nel marzo del 2012 decide di escludere dalla Valutazione d’impatto ambientale il progetto denominato “Melzo”, firmando nel settembre di quest’anno l’intesa. Nell’area sono compresi il Parco Alto Martesana, il Parco del Rio Vallone, una parte del Parco del Molgora e i Parchi regionali Adda Sud e Nord, aree di importante valenza paesaggistica e naturalistica, con presenza di risorse idriche strategiche, direttamente a contatto con le concessioni di coltivazione. D’altra parte leperforazioni in Lombardia e attorno a Milano non sono una novità. Per il campo di Malossa – il più profondo d’Europa, ubicato tra Cassano d’Adda e Treviglio – spunta addirittura un progetto pilota per lo stoccaggio sotterraneo di CO2, proposto dal gruppo Techint. Eppure, lo scorso 3 Novembre  si è riunito vicino a Cremona il “Coordinamento nazionale no triv” e il “Coordinamento comitati ambientalisti Lombardia” per denunciare nove stoccaggi attivi e in progetto in un convegno dal titolo significativo: “La Pianura Padana sotto la ‘canna del gas’”. Ma di giornali e Tv nemmeno l’ombra.

In questi giorni Leonardo Boff, filosofo, teologo e scrittore ha inviato una “lettera agli intellettuali del mondo” invitandoli a un sapere “fatto di esperienza, che dia valore a quello che dice il popolo, che non sono parole, ma drammi e gridi. Un sapere costruito in maniera rigorosa e universale, in modo che tutti possano capire”. E non possiamo che ascoltarlo quando aggiunge che “Ci sono due gruppi di minacce. Una viene dalla macchina di morte che la cultura militarista ha creato disponendo di armi nucleari, e ricorrendo a una tecnologia, che come visto a Chernobyl e Fukushima, non è mai in sicurezza. Il secondo gruppo di minacce deriva da quello che il nostro sviluppo industriale ha fatto negli ultimi 300-400 anni, con la sistematica aggressione alla  Terra, ai suoi beni, le sue risorse. Siamo arrivati al punto di avere destabilizzato totalmente il sistema Terra, e l’evidenza di questo è il riscaldamento globale. Queste due minacce incomberanno sull’umanità nei prossimi decenni, e nessuno lo vuol credere, perché va contro il sistema di accumulazione, contro il capitalismo, contro le grandi aziende. Ma gli intellettuali che hanno un senso etico devono parlare di questo”.

Una strategia energetica più rivolta al passato che al futuro

Roberto Meregalli

Beati i costruttori di pace www.martinbuer.eu

C’è un punto di partenza su cui tutti i commenti alla Strategia Energetica Nazionale (Sen) concordano: finalmente si torna a ragionare di strategia energetica! Peccato, come molti hanno già rilevato, che si parli di un orizzonte molto breve da punto di vista delle infrastrutture energetiche, neppure dieci anni. Troppo poco anche se nel testo stesso della strategia si giustifica il breve orizzonte temporale sottolineando quanto sia difficile prevedere il futuro, sottolineando che le tecnologie attuali (cicli combinati a gas e nuove rinnovabili) “solo 25 anni fa erano ancora in fase iniziale di sviluppo”. In verità chi 25 anni fa entrava nell’allora monopolista azienda elettrica italiana non sentiva parlare d’altro che di cicli combinati a gas e come ricordava Zorzoli in un suo recente intervento1, l’ultimo piano energetico del 1988 era incentrato proprio sull’apporto dei CCGT e prevedeva lo sviluppo delle rinnovabili (le leggi 9 e 10 del 1991 su efficienza energetica e rinnovabili facevano riferimento al piano 1988). Quindi la giustificazione è debole.

Ultima premessa importante è che la Sen non avrà alcun valore normativo perché mentre i vecchi Pen erano approvati dal Cipe (Comitato composto dai ministri economici) e tradotti in delibere, la Sen no.

Ma concentriamoci sul contenuto, partendo dall’aspirazione a far divenire il nostro Paese un hub del gas: idea a dir poco velleitaria in un momento in cui non si trovano imprese intenzionate a metter quattrini per costruire rigassificatori o tubi, visto il calo della domanda e le difficoltà finanziarie in cui si stanno muovendo. Partiamo infatti da una situazione in cui i gasdotti sono in lento e inesorabile calo di utilizzazione: 78,3 i miliardi di metri cubi trasportati nel 2011 rispetto agli 83,3 del 2010 (a fronte di una capacità di ben 120 miliardi di mc).

I consumi del mese di ottobre 2012 (dati appena pubblicati da Snam rete Gas) sono di gran lunga i più bassi dell’ultimo decennio, rispetto a ottobre 2007 le centrali hanno consumato il 38,7% di gas in meno! Perché le imprese dovrebbero costruire nuovi tubi e rigassificatori? Lo ha fatto capire lo stesso a.d. di Enel in Commissione Parlamentare (il 3 ottobre 2012), sottolineando il surplus di infrastrutture e difendendo i contratti “take or pay” in essere (quelli che ci danno sicurezza sulle forniture). L’Enel è impegnata con un progetto di rigassificatore in Sicilia e un gasdotto (il Tap) ma Fulvio Conti ha fatto capire che se non si sa come smaltire l’abbondanza di gas di investimenti non se ne faranno. Oltretutto il vero problema è politico, ovvero il nostro governo è in grado di convincere il resto d’Europa a prendersi gas dalle nostre reti? Perché se l’Europa non ci riconosce questo ruolo è perfettamente inutile investire ed è pure un’illusione pensare che un rigassificatore possa essere costruito avendo in mente solo il mercato spot senza avere alle spalle, almeno per una consistente parte di disponibilità di rigassificazione, uno o più contratti di fornitura a lungo termine. Tant’è che nel mondo nel 2011 su una capacità di liquefazione pari a circa 270 milioni di t. ne sono state contrattate 240 milioni e di queste solo 26,6 sul mercato spot.

Giova ricordare che nel 2011 il prezzo spot del gas GNL (liquefatto) è stato conveniente perché il Qatar ha esportato in Europa per mantenere un prezzo elevato in Asia dove stava facendo affari vendendolo all’affamato Giappone, orfano dei suoi reattori nucleari. Ma il mercato è instabile e in questi mesi del 2012 sono intervenuti mutamenti che rischiano di bruciare le nostre ambizioni. Nessuno dei grandi produttori di GNL pensa all’Italia come hub del gas, perché comanda il prezzo e il prezzo dice Asia, non Europa. Occorrerebbe che esportassero GNL Australia e USA, dove il gas costa sempre meno, ma per ora questi Paesi non esportano.

Secondo punto contestato è quello relativo al rilancio della produzione nazionale di idrocarburi, tramite cui, così recita il documento: “è possibile raddoppiare l’attuale produzione, con importanti implicazioni in termini di investimenti, occupazione, riduzione della bolletta energetica ed incremento delle entrate fiscali”.

Che dire? Già altri hanno sottolineato i problemi ambientali, lasciamo perciò parlare i numeri: nel 2011 in Italia sono stati estratti circa 5,3 milioni di tonnellate di greggio (per la precisione 5.286.041 t2). Il consumo di petrolio è stato invece di 71,2 milioni di tonnellate. Secondo il bollettino redatto dal Ministero per lo sviluppo economico, le riserve certe ammontano a 76 milioni di t, quindi poco più del nostro consumo in un anno. Certo, sono considerati probabili 110 milioni di t. e possibili 95 milioni ma rispetto ai consumi sono comunque valori che non indicano alcuna rivoluzione per il nostro sistema energetico. Per il gas il discorso è analogo: le estrazioni nazionali nel 2011 sono state pari a 8,4 miliardi di metri cubi mentre i consumi hanno sfiorato la quota dei 78 miliardi di metri cubi3. Le riserve certe (62,3 miliardi di mc) sono inferiori alle nostre importazioni di un singolo anno.

Molto spazio nella Sen è dedicato all‘efficienza energetica ma la sensazione è di un bel discorsetto senza sostanza,della serie: tanto ci sta pensando l’Ue ad obbligarci a costruire case energeticamente migliori. Le detrazioni fiscali indicate fra gli strumenti sono quelli già in essere ma di cui negli anni è mancata una stabilità strutturale, indebolendone così l’efficacia; per usare le parole di A PER: “c’è una notevole dissonanza fra le buone intenzioni e la possibile realizzazione”. Eppure abbiamo un settore edilizio in crisi (In cinque anni, dal 2008 al 2012, il settore ha perso circa un quarto degli investimenti), abbiamo imprese manifatturiere ben preparate nel settore del risparmio e dell’efficienza, abbiamo una fame di lavoro enorme: pianificare una grande ristrutturazione del patrimonio edilizio potrebbe permetterci di vivere in edifici molto più confortevoli, riducendo l’import di fossili e migliorando così la bilancia dei pagamenti, generando lavoro ed esportazione.

Si stima che nel nostro paese vi siano 23 milioni di metri quadrati di finestre e 300 milioni di mc di coperture e altrettanti di pareti a cui metter mano con un indotto straordinario generando un risparmio annuo in termini di bolletta energetica pari a 3,4 miliardi (stime Fondazione ClimAbita, Sole24Ore 14 ottobre 2012). E siccome per costruire edifici a consumo energetico quasi zero è indispensabile che siano capaci di generare in loco sia energia termica che elettrica, questo implicherebbe un investimento per imparare a gestire un sistema di generazione distribuita, diventando leader in quelle smart grid che saranno il futuro e che secondo l’WEC (World Energy Council) costituiranno un mercato di centinaia di miliardi. Il nostro Paese è all’avanguardia ma, lo sottolinea bene l’WEC, per non sprecare il denaro investito nei progetti dimostrativi, decisori politici ed imprese devono lavorare fianco a fianco rendendo evidente all’opinione pubblica le ricadute positive delle smart grid. Nella Sen non ci sono indicazioni su come procedere, né target di sviluppo.

In effetti leggendo la Sen la sensazione che si ha è che non ci sia nulla di veramente innovativo, quello che manca è il futuro, si guarda all’indietro sognando un hub del gas quando dovremmo guardare in avanti e pensare al vettoriamento dell’energia elettrica prodotta in nord Africa per i mercati europei; si guarda alle trivelle dimenticando la possibile rivoluzione elettrica nei trasporti (solo 700 veicoli immatricolati in Italia nel 2011 ma già 2.500 nel 2012), che potrebbe essere sbocco naturale dell’attuale eccesso di centrali senza mortificare la generazione da rinnovabili (Enel stima 5,7 TWh di consumi in più). Rinnovabili che hanno enormi potenzialità ancora, sia nel solare, sia nell’eolico off-shore ancora al palo in Italia, sia nella geotermia, dimenticata nella strategia ed invece con enormi potenzialità nel sud del Paese. Tenendo ben presente che le rinnovabili si caratterizzano per il maggior impiego di lavoratori per unità di energia prodotta rispetto alle fonti fossili. Il lavoro dovrebbe essere un altro degli obiettivi primari di questa strategia vista la crisi occupazionale che stiamo vivendo, invece a quel 35% di giovani disoccupati la Sen non dice nulla.

Il Manifesto di Firenze contro il nucleare

Noi, partecipanti a Firenze 10-10, riuniti nell’incontro per promuovere la costruzione del network antinucleare europeo

Esprimiamo la nostra convinzione che l’Europa dei cittadini necessita della “battaglia” antinucleare, per un modello energetico “giusto”, cioè gestito come un bene comune e pubblico nelle sue infrastrutture fondamentali, decentrato e rinnovabile, decarbonizzato, efficiente e dedito al risparmio e quindi fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico, non predatorio rispetto alle risorse del Sud del mondo e quindi efficace nel combattere la povertà e nel prevenire i conflitti, rispettoso, alla fin fine, della salute dei cittadini e del territorio.

Nel nostro incontro, nello spirito di Firenze 10+10, abbiamo ricercato le convergenze di proposte e di azione tra la lotta per l’ecologia e l’energia bene comune con i movimenti che si battono per il disarmo e la pace (la denuclearizzazione euro-mediterranea e del Medio Oriente), con quelli che rivendicano il diritto all’acqua e al cibo, con chi cerca una via di uscita dalla crisi dal punto di vista del 99% (l’energia “giusta” è una base ineludibile per una economia reale che soddisfi bisogni e diritti delle persone e delle comunità), con la società civile consapevole che la democrazia effettiva necessita di condizioni che suscitino partecipazione locale e recidano gli apparati centralizzati della potenza e del profitto monopolistico.

Mai più Fukushima, preveniamo una catastrofe europea e mediterranea!

Il Coordinamento che abbiamo deciso di costituire, quale primo nucleo promotore, ha l’obiettivo di estendere ed approfondire, a livello europeo e mediterraneo, la “vittoria” fondata sulla mobilitazione e la consapevolezza popolare, che abbiamo conseguito in Italia con il referendum antinucleare del 2011; e di fare sì, che le decisioni dei Paesi che hanno stabilito la fuoriuscita dal nucleare (14 Paesi UE su 27 dovranno, seguendo il recente esempio di Germania e Belgio, abbandonare questa tecnologia per la produzione elettrica) conducano ad un’Europa e ad un’area mediterranea effettivamente denuclearizzati.

Si tratta, in pratica, di supportare, coordinare, unificare le seguenti attività:

1- campagne di informazione e sensibilizzazione di dimensione europea che sanciscano a livello UE, con misure precise, la fuoriuscita dal nucleare e dalla energia padrona.

Un primo impegno che ci assumiamo in tal senso è di sostenere l’ECI (Iniziativa dei Cittadini Europei) proposta da Global 2000, di recente ammessa dalla Commissione.

Valutiamo la possibilità di proporre ed attuare un referendum consultivo europeo in materia di nucleare;

2- azioni di base di contrasto contro il nucleare ad ogni livello, locale, nazionale ed internazionale, anche con azioni dirette: in particolare, un nuke-watching europeo contro il trasporto delle scorie radioattive;

3- il collegamento civile-militare nelle lotte antinucleari: denuclearizzazione significa chiudere le centrali ma anche le basi con le armi nucleari. Denuclearizzare è anche disarmare e ridurre, per di più prevenendola, le spese funzionali alla guerra, più che mai odiose in periodo di crisi economica.

In particolare riteniamo utile far leva anche con iniziative dal basso sul “processo di Barcellona” quando, con consenso unanime (non scontato) dei governi, stabilisce dal 1995 un orizzonte mediterraneo privo di armi di sterminio di massa;

4- diffondere studi, progetti, buone pratiche e realizzazioni con le energie pulite, rinnovabili, ecocompatibili: l’alternativa al nucleare non è il gas, tanto meno il petrolio e peggio che mai il carbone, con annessi grandi impianti e tecnologie invasive e devastanti.

5- Affermare un sistema pubblico a livello europeo che arresti la mercificazione dei beni essenziali e insostituibili per la vita e il vivere insieme. Si tratta di togliere alle logiche del mercato e della finanza privata il governo continentale dei beni comuni. Proponiamo che tutti i movimenti si diano come obiettivo comune una campagna per la promozione di una Comunità europea dei beni comuni. Si tratterebbe di una Comunità dotata di poteri sovranazionali per quanto riguarda la terra, l’energia, l’acqua, l’aria, l’ambiente, la conoscenza, la sicurezza (nelle sue declinazioni essenziali: militare, energetica, alimentare, idrica, geologica, finanziaria) e finalmente dotata di una rivalutata carta dei diritti del lavoro, che deve tornare ad essere obiettivo del movimento delle lavoratrici e dei lavoratori.

A livello italiano denunciamo e combattiamo la Strategia Energetica Nazionale di Monti-Passera che, in spregio ai risultati referendari, nel prospettare un ruolo italiano da “hub del gas”, conferma una infrastruttura energetica che può prestarsi al ritorno del nucleare.

Inviamo un messaggio di solidarietà alla manifestazione che il movimento antinucleare giapponese terrà a Tokio l’11 novembre 2012: : l’uscita dall’energia atomica del Giappone può rappresentare una svolta per la sconfitta della lobby nucleare a livello mondiale.

I presenti qui a Firenze 10+10 si costituiscono come Nucleo Promotore del Comitato per attuare la volontà del referendum antinucleare in Italia.

Ci diamo appuntamento e diamo appuntamento per il 9 marzo 2013 a Parigi (secondo anniversario di Fukushima) nella convinzione che, nell’impeto crescente delle campagne, delle azioni, delle iniziative, degli scambi comuni, avremo, entro quella scadenza, significativamente esteso la quantità e la rappresentatività di adesioni e collaborazioni del nostro costituendo Network antinucleare.

La componente italiana del Network valuterà la fattibilità di una Carovana antinucleare che attraversi l’Europa nucleare e si concluda a Bruxelles.

Abbiamo obiettivi semplici, diretti e chiari che, ne siamo sicuri, già registrano il consenso della maggioranza dei popoli europei e mediterranei:

spegniamo subito tutti i reattori atomici, liberiamoci dalle armi di sterminio di massa, orientiamoci verso il 100% di energie rinnovabili!

(Primo elenco provvisorio di adesioni)

Sortir du Nucléaire – Francia – Martin Delavarde

Stop Bugey – Francia – Emmanuel Coux

War Resisters’s International – Coordinamento internazionale (sede centrale Londra) – Luciano Zambelli

Mondo senza guerre – Coordinamento internazionale

Roberto Musacchio – Altramente

ARCI – Associazione Energia Felice- Mario Agostinelli

Associazione Italiana Decrescita – Gianni Tamino

Associazione Si alle rinnovabili No al Nucleare – Massimo Bardi

Accademia Kronos – Ennio La Malfa

Campagna di obiezione di coscienza alle spese militari per la difesa popolare nonviolenta – Alfonso Navarra

Comitato Salute Ambiente Energia- Angelo baracca e Giorgio Ferrari

Commisione Giustizia Pace Solidarietà Misionari Comboniani – Alex Zanotelli

Confederazione Cobas – Vincenzo Miliucci

Fermiamo chi scherza col Fuoco Atomico – Tiziano Cardosi

Fiom- Alessandra Mecozzi

IALANA Italia – Joachim Lau

Semi sotto la neve – Yakuri Saito

Amigos Sem Terra – Antonio Lupo