Anche Legambiente contro la SEN

“Decidere di presentare una proposta di Strategia Energetica Nazionale in una fase così delicata per la crisi economica, energetica e climatica che stiamo attraversando, ci sembra positiva e apprezzabile, ma in un momento di tale crisi serve un segnale più forte da parte del governo per innovare davvero un settore strategico per lo sviluppo economico e ambientale del Paese”.

Con queste parole Edoardo Zanchini, vicepresidente nazionale di Legambiente, introduce il documento di osservazioni che Legambiente ha elaborato sulla Strategia Energetica Nazionale presentata dal Ministero dello Sviluppo economico (vedi allegato, pdf).

“Il documento – continua Zanchini – è contraddittorio, a parole dichiara di voler promuovere rinnovabili ed efficienza energetica senza però dare strumenti certi e timing adeguati al loro effettivo sviluppo. Nei fatti, e con interventi precisi, però ne ostacola lo sviluppo e dà il via libera alle  per estrarre petrolio e gas. Ora più che mai, invece, servirebbero prospettive coraggiose e innovative per rilanciare l’economia e dare fiducia a cittadini e imprese riducendo le spese in bolletta e fornendo gli strumenti giusti per competere nell’economia del futuro”.

Nello specifico, Legambiente punta il dito sulla transizione per ridurre importazioni e consumi di fonti fossili, per cui il documento invece di puntare decisamente alla riduzione del consumo e delle importazioni di fonti fossili, individua, sia per l’efficienza energetica che per le fonti rinnovabili, strategie generiche e strumenti inadeguati a raggiungere quanto previsto e propone un rilancio della produzione di idrocarburi nazionali che appare incoerente oltre che sbagliata.

Manca una qualsiasi analisi della questione relativa ai sussidi alle fonti fossili, che invece è una precondizione di una politica che voglia sul serio puntare a rendere efficiente e pulito il sistema energetico, e ignora la Carbon Tax, che invece è fondamentale per affrontare sia il tema dell’efficienza energetica nei diversi settori industriali, che quella della fiscalità che incide sul settore e anche degli incentivi alle fonti rinnovabili. Il secondo tema su cui la SEN “sorvola” sono i costi per il sistema legati ai problemi che vivono gli impianti di produzione di energia elettrica da fonti fossili. Nonostante la necessità di realizzare nuove centrali oggi in Italia non esista, abbiamo centrali in fase di realizzazione (6 per 3.543 MW secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico) e altre in corso di autorizzazione (ben 38 tra gas, metano, carbone, per 23.990 MW). Senza considerare quelle più inquinanti e climalteranti, a carbone, discussione tra riconversioni e nuovi progetti per oltre 5mila MW, da Porto Tolle a Saline Ioniche, a Rossano.

Legambiente considera profondamente sbagliata la scelta di puntare ad aumentare la produzione di idrocarburi nazionali. Una prospettiva che appare insensata non solo da un punto di vista ambientale ma anche rispetto agli obiettivi previsti dal documento di riduzione della dipendenza dall’estero e della bolletta energetica. Secondo le stime del ministero dello Sviluppo economico vi sarebbero nei nostri fondali marini 10,3 milioni di tonnellate di petrolio di riserve certe. Stando ai consumi attuali, coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole 7 settimane. Non solo: anche attingendo al petrolio presente nel sottosuolo, concentrato soprattutto in Basilicata, il totale delle riserve certe nel nostro Paese verrebbe consumato in appena 13 mesi. Inoltre, in una economia di mercato e senza un intervento pubblico non vi è alcuna possibilità che a trarre beneficio dalle trivellazioni possano essere i consumatori italiani visto che quel gas e benzina sarebbe venduto allo stesso prezzo di quello proveniente da altre parti del mondo.

Più volte nel documento si torna sul costo degli incentivi per le fonti rinnovabili e l’impatto sulle bollette di cittadini e imprese. Impossibile è invece trovare una valutazione dei vantaggi portati al sistema. È contro la ragione e l’interesse generale raccontare in questo modo la crescita delle rinnovabili avvenuta in questi anni in Italia. Sicuramente qualche errore è stato commesso, ma i risultati in termini di produzione sono stati costanti in tutti questi anni e nel 2012, da gennaio a ottobre, il solo contributo di eolico e solare ha superato l’11% della produzione netta nazionale. Questi risultati hanno permesso tra l’altro di ridurre la produzione da termoelettrico, diminuire le importazioni dall’estero di fonti fossili, in particolare di petrolio e gas, ridurre le emissioni di CO2, con vantaggi per il clima e l’inquinamento, ma anche economici, abbassare il costo dell’energia nel mercato elettrico, senza dimenticare i tanti nuovi occupati creati in questi anni.

La SEN dovrebbe poi approfondire sul serio la questione delle bollette. Perché di sicuro negli ultimi dieci anni è avvenuto un aumento notevole del prezzo delle bollette elettriche per le famiglie italiane. Secondo i dati dell’Autority per l’energia, la spesa annua delle famiglie per l’elettricità è passata da una media di 338,43 euro nel 2002 a 515,31 Euro nel 2012. Ossia 176,88 Euro in più a famiglia e un aumento del 52,5%. Ma nelle bollette à la voce legata all’andamento del prezzo del petrolio che è decollata, passando da 106,06 euro a 293,96. Esattamente 187,36 euro in più a famiglia per spese legate al prezzo del petrolio con un aumento del 177,2%. Del resto siamo un Paese che importa il 97% del petrolio, gas e carbone utilizzati e che non dispone di significativi giacimenti. Eppure tutta l’attenzione viene posta nei confronti delle rinnovabili e in particolare sul fotovoltaico il cui peso è in aumento in modo del tutto marginale rispetto all’aumento nella bolletta delle famiglie

Piuttosto la SEN dovrebbe con più’ attenzione guardare alla pulizia necessaria all’interno delle bollette elettriche, eliminando le voci inutili come gli “oneri generali di sistema” per la messa in sicurezza dei siti nucleari, per i regimi tariffari speciali alle Ferrovie, ma anche tutti i sussidi legati alle fonti “assimiliate” e quindi inceneritori e raffinerie. Inoltre occorre affrontare il tema della garanzia di una vera concorrenza nel mercato elettrico, in modo da controllare e evitare cartelli sui prezzi.

Rispetto al nuovo scenario di sviluppo delle rinnovabili, la SEN sbaglia a non rivendicare il cambiamento positivo che le rinnovabili hanno portato nel sistema energetico italiano. I vantaggi in termini di riduzione delle importazioni e del l’inquinamento locale e globale sono evidentissimi. E’ un cambiamento radicale nel sistema di produzione e gestione energetica con una generazione sempre più distribuita, tra oltre 400mila impianti di grande e piccola taglia, distribuiti nel 95% dei Comuni italiani, da Nord a Sud, dalle aree interne ai grandi centri e con una interessante e articolato mix di produzione da fonti differenti. Ed è tale la portata di questi processi e la loro diffusione che è difficile persino monitorarli e in molti faticano a capirne la portata.

Inoltre, si può sostenere, senza possibilità di smentita, che gli obiettivi previsti dalla SEN per le rinnovabili non saranno mai raggiunti senza modifiche dei provvedimenti attualmente previsti, capaci di risolvere sul serio i problemi e dare certezza agli investimenti. Un esempio è il nuovo sistema di incentivo attraverso aste per i grandi impianti, che sta rivelando tutti i problemi di applicazione. O i registri introdotti per gli altri impianti, che tolgono certezze agli investimenti. O l’incertezza nelle autorizzazioni o i tempi spesso non stimabili di chiusura della procedura. Tutti questi fattori rendono di fatto più costoso e incerto rispetto agli altri Paesi un investimento nelle rinnovabili per le spese di gestione dell’iter progettuale, per le convenzioni, per gli oneri e le tasse locali. E’ una questione di cui la SEN si deve occupare.

La SEN ignora poi il fatto che in molte Regioni italiane sono di fatto vietati nuovi progetti da rinnovabili per diverse tecnologie, visto l’incrocio di burocrazia, limiti posti con il recepimento delle linee guida nazionali e veti dalle soprintendenze. Bisogna aprire un confronto sulle regole di approvazione degli impianti da fonti rinnovabili, sfruttando l’opportunità anche giuridica di intervento legata all’entrata in vigore del Burden Sharing, che consente al Ministero dello Sviluppo Economico di andare a vedere nelle Regioni quanto fatto.

Siamo in una fase nuova per quanto riguarda le fonti rinnovabili, per cui occorrono nuove politiche di sviluppo. La SEN sembra spaventata da questo scenario, per cui fissa obiettivi che vanno anche leggermente oltre quelli previsti dall’UE al 2020 ma poi si limita a raccontare gli incentivi in vigore e a denunciare i costi per il passato. Non è sufficiente a dare certezze per gli investimenti nelle fonti rinnovabili. La crisi che sta attraversando il settore in Italia è proprio dovuta alla mancanza di prospettiva. Al contrario di quanto avviene in Germania non è affatto detto da noi che si continuerà nella spinta alle tecnologie, né si sa qualcosa degli strumenti o della discussione.

E’ l’efficienza energetica il primo indispensabile pilastro del nuovo scenario energetico. Il Parlamento europeo ha appena approvato, in Commissione Industria, la proposta di Direttiva sull’efficienza energetica che prevede target vincolanti di riduzione del 20% dei consumi di energia entro il 2020. Ogni Paese dovrà definire una “roadmap”, con target intermedi, e sono previste sanzioni per i Governi inadempienti. Il nostro paese non ha ancora alcuna politica che spinga chiaramente in questa direzione: il Piano di azione per l’efficienza energetica, approvato lo scorso anno, è infatti inadeguato come obiettivi e manca degli strumenti attuativi.

Occorre quindi spingere l’efficienza attraverso standard e incentivi, fissando miglioramenti progressivi nelle prestazioni di elettrodomestici, tecnologie e sistemi energetici industriali con incentivi e scadenze per gli standard meno efficienti (da togliere dal  commercio), e che introduca obblighi per le tecnologie già competitive; dare certezza agli strumenti in vigore; rendere strutturali le detrazioni fiscali per gli interventi di efficienza energetica (il cosiddetto 55%);  aumentare gli obiettivi fissati per i certificati bianchi, fissare dei criteri minimi di efficienza energetica e di emissioni di CO2, a partire dall’obbligo di cogenerazione per i progetti di nuovi impianti energetici.

Rispetto all’efficienza energetica in edilizia, quanto previsto dalla SEN appare del tutto insufficiente, perché non fornisce indicazioni chiare per il recepimento nelle normative, controlli e sanzioni, criteri per mettere assieme il più efficace mix di soluzioni progettuali tecnologiche e impiantistiche sostenibili. Il tema della certificazione energetica deve diventare centrale, per dare una direzione chiara a tutto il settore delle costruzioni.

La SEN si limita poi a trattare il tema dei trasporti all’interno delle fonti rinnovabili, attraverso obiettivi piuttosto generici che riguardano i biocombustibili, il biometano, la raffinazione, i veicoli elettrici. Il peso dei consumi energetici e delle emissioni di CO2 legati al settore è in tale e costante crescita che risulta fondamentale invertire la situazione attraverso precise politiche. Occorre fissare obiettivi di miglioramento progressivo dell’efficienza (con target vincolanti) per veicoli e carburanti, in modo da ridurre consumi e emissioni; spostare la priorità delle risorse per le politiche infrastrutturali nelle città e nel trasporto ferroviario considerando che è nelle aree urbane  che si trova l’80% della domanda di mobilità delle persone (14milioni di pendolari ogni giorno) ed è qui che si deve prevedere la priorità degli interventi infrastrutturali, con precise politiche per la mobilita sostenibile, i pendolari, le auto elettriche e rilanciando il trasporto pubblico in ambito urbano e di tutte le politiche che ne favoriscono il rafforzamento. Bisogna poi puntare sulla logistica e il trasporto intermodale per ridurre i consumi energetici nel trasporto merci: il dominio del trasporto su gomma è sempre più forte nel nostro Paese (è al 90% per quello su terra) e senza una seria politica per questo settore sarà impossibile invertire la situazione Ooccorre spostare gli investimenti infrastrutturali, migliorare la logistica e l’offerta di trasporto intermodale cabotaggio-ferrovia-gomma, cancellando i miliardari sussidi all’autotrasporto. Tutti provvedimenti che in questi anni sono mancati e che la SEN non considera.

Investire nelle reti energetiche è poi oggi una condizione indispensabile per dare un futuro al modello della generazione distribuita. La rete elettrica è infatti la spina dorsale e la condizione per il funzionamento di un sistema che deve essere capace di gestire crescenti flussi di energia discontinui e bidirezionali nel nuovo scenario sempre più rinnovabile e distribuito.

La SEN intende risolvere “le problematiche legate all’eccesso di produzione” da fonti rinnovabili, con una strategia che punta in maniera preventiva a limitare la potenza incentivabile nelle aree critiche e a distacchi di produzione, nel medio periodo a rafforzare le linee di trasporto e distribuzione tra le diverse aree, e addirittura nel lungo periodo, a rinforzare lo sviluppo di sistemi di controllo tramite smart grid e a potenziare la capacità di accumulo, sia tramite un maggior ricorso al pompaggio che tramite l’adozione di sistemi a batterie.

Legambiente valuta inadeguato e datato questo approccio in primo luogo perché ci aspetteremmo una strategia chiara per risolvere i problemi nelle aree critiche, che coinvolga Terna e i responsabili delle reti di distribuzione, le aziende che vogliono investire con impianti da rinnovabili per trovare soluzioni che non facciano semplicemente rinviare i problemi, bloccare i nuovi impianti, staccare quelli esistenti.

Positivo invece il giudizio di Legambiente sull’introduzione del dibattito pubblicoinformativo per quanto riguarda le infrastrutture, con una normativa ispirata a quella francese. A nostro avviso la procedura dovrà garantire, prima della decisione finale di approvazione dell’opera, la corretta informazione di tutti i soggetti interessati. Al Garante spetterà il compito di predisporre il documento finale del Dibattito pubblico da sottoporre alle autorità competenti e da rendere pubblico come tutti gli atti della procedura. Potranno essere nominanti garanti membri della Magistratura o docenti universitari in servizio o in pensione.

“Queste proposte vanno nella direzione di rendere più moderno e sostenibile il sistema energetico italiano, e sono nell’interesse di cittadini e imprese – ha continuato Zanchini  -. Ci aspettiamo per questo che siano ascoltate per avviare un cambiamento vero. Del resto nessuna impresa italiana può sperare con qualche ragionevolezza di vedere ridurre le proprie bollette grazie al petrolio estratto alle Isole Tremiti o al gas nell’alto Adriatico. Occorrono strumenti nuovi per muovere sul serio interventi di efficienza e per premiare l’autoproduzione da rinnovabili e da cogenerazione ad alto rendimento, come fanno gli altri Paesi europei. E si deve avere il coraggio di smontare le rendite sulla rete, aprendo le porte alla vendita diretta dell’energia prodotta da rinnovabili e consentendo la costruzione e gestione di reti private. Perché la prospettiva più lungimirante per un Paese come l’Italia sta in un modello distribuito di centrali pulite e efficienti, gestite da piccole imprese e cooperative, altro che grandi centrali”.

Le primarie di Greenpeace sul clima

Greenpeace rende noti oggi i dati delle “sue primarie”. Ieri l’associazione ambientalista, in 24 città italiane, ha raccolto il parere degli elettori del centrosinistra sul futuro energetico del Paese. Oltre il 97% si dichiara indisponibile a votare chi continuerà a permettere la costruzione di nuove centrali a carbone o non si impegnerà a ridurre l’utilizzo della fonte più sporca e dannosa per il clima. Una percentuale identica vincola il proprio sostegno all’impegno, da parte dei candidati premier, a proteggere il Mediterraneo dalle perforazioni petrolifere; oltre il 99%, infine, dichiara che non darà il suo voto a chi non promuoverà concretamente la crescita delle fonti rinnovabili, che proteggono clima, aria e generano occupazione.

“Gli elettori del centrosinistra – afferma Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia – ci hanno detto la loro in maniera molto chiara.Renzi e Bersani, in oltre due settimane, non hanno trovato tempo per rispondere a un semplice questionario, per mettere 9 crocette e dirci sì o no agli impegni che sollecitiamo loro. Non solo: stanno mancando di rispondere a 25mila cittadini che in una sola settimana gli hanno scritto firmando la nostra petizione. Non sono in grado di prendere posizioni chiare neppure quando chiedono il consenso dei cittadini?”

Secondo Greenpeace i dati che emergono da questo sondaggio (il campione è costituito da 2.139 votanti alle primarie) indicano una netta divaricazione tra la base elettorale e l’atteggiamento dei leader. E questo non solo perché Bersani e Renzi non rispondono all’associazione e ai cittadini che ne hanno sottoscritto la petizione online dal sito www.IoNonViVoto.org: il PD in questi anni ha mancato di opporsi a progetti di nuove centrali a carbone e si è fatto addirittura promotore di progetti di espansione di centrali già esistenti, anche contro il parere dei suoi amministratori locali.

Ugualmente, il partito di Bersani rappresenta uno dei pilastri del Governo dei “tecnici”, promotore di una svendita del Mediterraneo alle compagnie petrolifere, sui cui ricavi vi sarà un prelievo fiscale bassissimo.

Sosteniamo la campagna di GreenPeace per un futuro energetico pulito!

La politica tace su questioni che riguardano la nostra salute, il lavoro, i cambiamenti climatici, lo sviluppo del Paese. È il momento di pretendere risposte serie e immediate.

Centrali a carbone. La produzione di elettricità con il carbone causa circa 570 morti premature l’anno e oltre 2,6 miliardi di danni. Leggi tutto 
Trivelle in mare. Stiamo svendendo i nostri mari alle compagnie petrolifere e un disastro come quello del Golfo del Messico potrebbe avvenire presto nel Mediterraneo.Leggi tutto 
Chi affossa l’energia pulita. La politica, per assecondare gli interessi dei grandi gruppi energetici, tenta continuamente di affossare il settore delle energie rinnovabili, l’unico che aveva resistito alla crisi creando occupazione per più di 100.000 persone. Leggi tutto 

Abbiamo delle soluzioni. Leggi le nostre richieste “Energie pulite per l’Italia”.

IoNonViVoto.org non è una campagna astensionista. Al contrario: chiediamo a tutti i leader politici e a chi si candida a governare il Paese impegni precisi per salvaguardare ambiente, salute, economia e occupazione.
Chi ci sta a fermare l’avanzata di petrolio e carbone e a sostenere l’energia pulita? Leggi cosa risponde la politica…

 

Creare lavoro e guarire il territorio: la proposta di Gallino

Intervista a cura di Luca Aterini – www.greenreport.it

Gli ultimi dati Istat rivelano per l’Italia un tasso di disoccupazione record, registrato al 10,8% (35% negli under25): ufficialmente, sono 2,8 milioni gli italiani senza un lavoro. Un incremento del 25% in 12 mesi, e il peggior dato da 20 anni. E le previsioni per il 2013 sono ancora più nere. Nel frattempo, ampie parti del Paese crollano sotto il peso crescente del dissesto idrogeologico e della mancanza di cure per il fragile territorio dello Stivale. Molto fragile: nella Toscana Felix la percentuale di comuni a rischio idrogeologico raggiunge addirittura il 98%, e le ultime alluvioni hanno dato ampia e triste prova di cosa questo significhi. Il territorio devastato appare uno specchio del tessuto sociale italiano che si disfa, sotto i colpi pesanti di una crisi economica che continua da troppo tempo. Né la cronica disoccupazione né la mancanza di prevenzione e tutela del territorio (davanti al mutevole scenario dettato dal cambiamento climatico) sono fatalità ineluttabili. È nostro dovere prendere coscienza di questa realtà, e agire di conseguenza per porvi rimedio. Come? Il sociologo Luciano Gallino ha qualcosa da dire, in merito.

 

Ritiene lecito affermare che le conseguenze delle bombe d’acqua che hanno colpito l’Italia e l’aumento del termometro della disoccupazione siano legati da uno stesso filo rosso? Quello dell’inazione, della mancanza di pianificazione.

 

«Le alluvioni che hanno recentemente colpito il nostro Paese sono in parte un risvolto del cambiamento climatico, che ne aumenta frequenza e intensità. Non dobbiamo dimenticare che questo fenomeno dipende anche dalla nostra attività economica, con l’immissione in atmosfera di gas climalteranti. A loro volta, le conseguenze delle alluvioni sono amplificate dalle mancate contromisure: non abbiamo agito per tutelare il nostro territorio dal dissesto idrogeologico, spingendoci spesso in tutt’altra direzione. E anche per quanto riguarda la disoccupazione, non abbiamo messo in campo politiche efficaci per contrastarla».

 

Un grosso aiuto, per tentare di dare una riposta ad entrambi i problemi, potrebbe essere comune. Mi riferisco alla sua proposta di un’Agenzia per l’occupazione, lanciata ormai mesi fa. Potrebbe riassumerne le fondamenta, e i costi?

«Quella di un’agenzia per l’occupazione è una proposta che fa riferimento ad una vasta letteratura e a precedenti concretamente realizzati, come negli Stati Uniti durante il New Deal, quando tre agenzie statali – la Federal emergency relief administration, la Civil works administration e la Works progress administration – riuscirono a creare molti milioni di posti di lavoro. Nel contesto in cui ci troviamo, raggiungere numeri enormi sarebbe impossibile, ma creare 1 milione di nuovi posti di lavoro sarebbe l’obiettivo minimo a cui tendere.

Tramite un’agenzia per l’occupazione, declinata in vari centri a livello degli enti locali, lo Stato dovrebbe assumere direttamente disoccupati e precari, impiegandoli nei molti lavori ad alta intensità di lavoro – anche qualificato – di cui il nostro Paese ha bisogno. Tra questi sarebbero sicuramente da annoverare interventi per il riassetto idrogeologico del territorio, ma anche quelli inerenti la ristrutturazione dell’edilizia scolastica, o della tutela dei beni culturali, spesso abbandonati in modo delittuoso, e altri ancora.

A proposito dei costi, l’agenzia dovrebbe offrire un salario medio, e comprendere il costo dei contributi sociali. Ipotizzando una cifra pari a 25mila euro a occupato, per un milione di disoccupati avremmo un totale di 25 miliardi. Questa cifra non sarebbe però un costo, ma creerebbe anzi ricchezza: andrebbe nelle tasche di cittadini altrimenti disoccupati, intervenendo a favore della loro capacità di spesa e dunque alleviando quel deficit di domanda che è il grande freno a fermare la ripresa dalla crisi economica. Inoltre, molte aziende private sarebbero felici di partecipare dei costi, assumendo una parte dei disoccupati a fronte del pagamento di una parte dello stipendio da parte dello Stato. Un ulteriore risparmio verrebbe poi, ad esempio, dalla cessazione dei sussidi di disoccupazione per i neoassunti».

I detrattori sarebbero pronti a ribattere: non ci sono i soldi per realizzarla; non possiamo, abbiamo firmato il fiscal compact richiesto dai nostri partner europei; lo Stato non può assumersi un tale ruolo ed è già un datore di lavoro, spesso cattivo. Cosa risponderebbe loro?

«Innanzitutto, che la firma del fiscal compact è stata una forma di suicidio economico, e si rivelerà inattuabile. Per rispettarne i dettami, dovremmo portare avanti tagli alla spesa pubblica enormemente maggiori rispetto agli attuali (per i quali comunque già si parla di lacrime e sangue), nell’ordine dei 50 miliardi di euro l’anno. Soltanto prospettando per l’Italia un futuro di miseria nei prossimi 20 o 30 anni saremmo forse in grado di farvi fronte.

Riguardo il resto delle obiezioni, rispondo che l’ostacolo più serio all’implementazione di un’agenzia per l’occupazione non sono i fondi, ma le idee attualmente dominanti degli economisti e assimilate da nove politici su dieci. La visione neoliberista dell’economia e delle risposte alla crisi è un’ideologia – quella dell’affamare la bestia, lo Stato, per allargare i margini dell’interesse privato – è una visione del mondo che non ammette risposte alternative. Le risorse economiche, al contrario, volendo si potrebbero trovare. Con più di 7 milioni di persone che non hanno uno stipendio o lo hanno troppo basso e precario, in Italia, crede che sia opportuno acquistare 90 cacciabombardieri F35, per una spesa di circa 15 miliardi di euro? Oppure investire una cifra che oscilla attorno ai 20 miliardi di euro per ridurre di mezz’ora il tempo di percorrenza Torino-Lione, realizzando la Tav? Non sono questi gli interventi di cui ha bisogno il Paese».

La sua proposta per sanare almeno in parte la ferita economica e sociale della disoccupazione sembra molto distante da un’altra ipotesi molto in voga di questi tempi, la flexicurity rilanciata da Pietro Ichino e Matteo Renzi…

«Direi che si tratta di cose completamente diverse tra loro. È necessario concentrasi sulla difesa del lavoro, non del singolo posto di lavoro. Ma le politiche attive per l’occupazione proposte sono paragonabili ad una corsa di una folla di persone alla caccia di un posto a sedere su di un aeroplano che ha una capienza di cento posti. Se ad attendere al gate ci sono cinquecento persone, si promette un posto di lavoro solo ai primi cento. Gli altri rimangono a terra, non si crea nuovo lavoro».

Secondo l’Ilo, il passaggio verso una economia più verde potrebbe generare tra i 15 e i 60 milioni di nuovi posti di lavoro nel mondo nei prossimi vent’anni. Lasciarci la crisi alle spalle riconvertendo in chiave ecologica l’economia: condivide questa prospettiva?

«Dipende a quale economia verde si fa riferimento. Fare riferimento a pannelli fotovoltaici e pale eoliche, piuttosto che ad altro, non è un grande passo avanti se le dimensioni energivore della nostra economia rimangono immutate. Lo stesso vale per le risorse materiali, oltre che energetiche. Oltre al nostro, non abbiamo un altro pianeta dal quale attingerne. Non auspico certo una vita ascetica o di rinunce, ma credo che la riconversione ecologica dell’economia debba mettere al centro la riduzione dei consumi per spostare l’attenzione sulla qualità della vita. È impensabile sperare di tornare a produrre e consumare come in passato. Abbiamo davvero bisogno della moltitudine di beni non durevoli – come un telefonino da cambiare dopo pochi mesi dall’acquisto – o di suppellettili dai quali siamo circondati?

Un’inversione di rotta in questo campo presuppone una chiara scelta politica, ma non vedo in giro politici che abbiano il coraggio di farsene carico. Anche i cittadini hanno le loro responsabilità in merito, certo, ma occorre osservare come vengano spesi 600 miliardi di dollari l’anno in pubblicità, per indurre bisogni che probabilmente altrimenti non sarebbero percepiti come tali».

Per perseguire questo obiettivo sono necessarie chiare scelte politiche. Nel frattempo, qualcos’altro cresce senza controllo: nonostante la crisi, il Financial stability board riferisce che – dati 2011 – il sistema bancario ombra vale ormai 67mila miliardi di dollari, con un +6mila miliardi l’anno. È ancora possibile controllare la finanza?

«È un obiettivo fondamentale da perseguire. Non è il primo rapporto che il Financial stability board pubblica su questi toni, ma arriva comunque molto in ritardo. Dall’inizio della crisi, ancora non è stata portata avanti alcuna vera riforma del sistema finanziario. Sono statti compiuti dei tentativi, come nel 2010 negli Usa, col Dodd-Frank Act. Un progetto che si è rivelato eccessivamente farraginoso, e si è arenato. Per non lasciarci andare completamente ad un nero pessimismo, possiamo dire anche in Europa qualche passo avanti è stato compiuto, ma è ancora troppo poco. Alla progressiva liberalizzazione del sistema finanziario ha contribuito la politica stessa a partire dagli ’80, e adesso una forte attività di lobbying neoliberale – dalla produzione di think tank fino a pressioni vere e proprie – combatte strenuamente qualsiasi riforma».

Dal Manifesto per un soggetto politico nuovo a Cambiare si può – che si riunirà il 1° dicembre – passando per A.l.b.a.: c’è la volontà di costruire una proposta politica che si cristallizzi attorno a questi temi?

«Nell’appello Cambiare si può! Noi ci siamo si ritrovano molti elementi fatti propri da A.l.b.a. Dopotutto, molte le firme che hanno aderito all’uno si ritrovano anche nell’altra. A.l.b.a. si configura però come una proposta politica per il futuro, con un orizzonte a lungo termine. “Cambiare si può” guarda ad una lista civica per le prossime elezioni politiche, che si terranno tra pochi mesi. È una prospettiva difficile, ma penso che entrambe queste realtà portino avanti una proposta – confrontata col documento programmatico del Pd, ma anche con quegli elementi fatti propri dal Movimento 5 Stelle – più attenta ai problemi reali del Paese e, se posso dirlo, anche più di sinistra. L’appello ha già registrato migliaia di firme: il 1° dicembre si terrà la prima Assemblea nazionale, al teatro Vittoria di Roma. Vedremo come andrà, ma sono convinto che ci sarà un’adesione importante, soprattutto da parte dei giovani».

L’ecosostenibilità: dal legno alla casa

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano

In queste note propongo e rielaboro le interessanti riflessioni di Samuele Giacometti, inviatemi in relazione ad un mio post di due settimane fa. Allora venivano discussi i costi sociali delle emissioni di CO2, non limitandosi al caso più eclatante delle combustioni di petrolio, gas e carbone, ma spingendosi a considerare anche il contributo delle biomasse al cambiamento climatico. La domanda posta dal signor Giacometti è la seguente: “È possibile quantificare il costo a carico della società per ogni tonnellata di CO2 comunque prodotta?”.

Il cosiddetto “Social cost of carbon” (SCC), il cui studio è stato addirittura richiesto dall’Amministrazione americana Bush prima e Obama poi, è considerata una misura di strategica importanza, perché quantifica il vantaggio economico qualora si riducessero le emissioni di CO2. Per calcolarla sono stati considerati gli effetti sulla salute, le ripercussioni economiche e altri effetti che i cambiamenti climatici possono causare all’umanità. Nel 2009, l’agenzia intergovernativa Usa aveva fissato il valore di riferimento a 21$ per tonnellata di CO2 mentre il Regno Unito a 83$. Due studiosi americani da me citati nel post precedente fanno oscillare il valore SCC da 55 a 266$. Come si vede, le differenze sono enormi e dipendono dagli effetti presi in considerazione.

Il signor Giacometti è un ingegnere meccanico che nel 2005, per motivi di lavoro, si è trasferito da Bologna a Prato Carnico (Ud) sulle Dolomiti Pesarine e ha progettato una casa interamente di legno. La casa è costruita con un metodo certificato, illustrato durante i lavori di Rio+20,come esempio di reale sostenibilità ambientale, sociale ed economica. L’esperienza ha tratto origine dall’impiego meticolosamente documentato da 43legno-pianta dei boschi gestiti dall’Amministrazione Frazionale di Pesariis.

Il fatturato generato fra le imprese e gli artigiani protagonisti dell’intera filiera di trasformazione del legno da pianta a casa è stato pari a 90.000 euro, arredamento compreso. Tutti questi operatori vivono e operano fra la Val Pesarina e il Comune di Sauris (UD) in un anello di soli 12 km. La buona riuscita dell’impresa, valutata nell’ambito dell’intero Ciclo di Vita (Life Cycle Assessment), è stata certificata e premiata come caso esemplare sulla base di dati quantitativi, confrontati con quelli di altre abitazioni similari secondo un approccio rigorosamente scientifico certificato dall’Enea. Un successo, quello della casa di Sauris, riconducibile all’origine locale del legname utilizzato per la costruzione e all’assenza di trattamenti chimici applicati su di esso.

Dallo studio è emerso che la trasformazione delle 43 legno-pianta in legno-casa, ha generato un effetto di cambiamento climatico pari solo a 52 tonnellate di CO2eq. Il costo sociale della costruzione ammonterebbe a 14.000$ considerando l’ipotesi peggiore (52t x 266$, con il valore di SCC massimo). Attraverso vari scenari di confronto è stato dimostrato che lo stesso legname, trasportato su strada per 1000 km (come accade per gran parte del legname di origine industriale), avrebbe incrementato del 23% gli effetti sui cambiamenti climatici e di circa 3.000$ i costi sociali.

Le conclusioni di questo esame sono interessanti: un oggetto non si può definire “ecosostenibile” solo perché fatto di legno. Occorre sapere da dove viene, in che periodo della sua vita è avvenuto l’abbattimento della pianta di origine e che tipo di trattamenti chimici sono stati adottati.

In definitiva, anche nel caso delle biomasse e delle loro applicazioni residenziali, l’analisi dell’intero ciclo premia le soluzioni a chilometro zero, il mantenimento dell’habitat forestale, il rifiuto di impiegare sostanze derivate dal petrolio. Interessante davvero questo spunto, che si rifà a un’esperienza locale e personale, che fa riflettere come ciascuno possa contribuire a ridurre i 2.300 milioni di tonnellate di CO2 all’anno immesse nell’atmosfera in Italia, pari a un costo sociale minimo di 48,3 miliardi di dollari (SCCUSA=21$) o, più realisticamente, di 610 miliardi (SCCMAX=266).