Energia partecipativa: il movimento cooperativo in Germania

Le rinnovabili non fanno bene solo perché riducono le emissioni ma anche perché democraticizzano la produzione di energia. Lo mostra bene quel che sta accadendo in Germania dove, attraverso la partecipazione a cooperative spesso locali, 80mila tedeschi riescono a soddisfare il loro fabbisogno elettrico con energia pulita autoprodotta.

Non fa bene solo perché è pulita ma anche perché è distribuita e democratica. L’energia da fonti rinnovabili non è una rivoluzione solo perché riduce le emissioni di gas serra, ci evita le esternalità negative delle fossili e migliora la sicurezza energetica, ma anche perché permette di passare da un sistema energetico centralizzato, basato su grandi impianti concentrati nelle mani di grossi gruppi industriali come le centrali termoelettriche o nucleari, a uno in cui la produzione di energia è distribuita in impianti più piccoli, è più vicina ai punti di consumo e può essere gestita direttamente dai cittadini, sia in caso realizzino un impianto fotovoltaico sul tetto sia quando si riuniscano in cooperative comunitarie.

Un caso esemplare è quello di Prato allo Stelvio in Val Venosta dove gli abitanti, riuniti in una cooperativa, producono con un mix articolato di fonti rinnovabili più dell’intero fabbisogno energetico sia elettrico che termico e riescono a pagare così il 30-35% in meno sulla bolletta elettrica e il 50% in meno sul riscaldamento. Altra positiva esperienza italiana è Retenergie, cooperativa ad azionariato popolare che ha già realizzato oltre un centinaio di impianti.

Numeri confortanti sul fenomeno delle cooperative energetiche arrivano anche dalla Germania: sono 80mila i tedeschi che partecipano a cooperative per la produzione di energia pulita, dice uno studio redatto da Deutsche Genossenschafts- und Raiffeisenverband e.V. (DGRV), assieme a BSW-Solar, l’associazione tedesca del solare e all’Agenzia per l’energia rinnovabile (Agentur für erneuerbare Energien – AEE). Ottantamila cittadini i cui consumi elettrici domestici sono totalmente coperti dall’energia pulita prodotta dalle cooperative di cui sono soci.

Nel Paese, per molti aspetti un passo avanti a noi nella transizione all’energia pulita e democratica, negli ultimi anni sono state fondate oltre 500 cooperative che installano impianti a fonti rinnovabili con investimenti per circa 800 milioni di euro. Cooperative spesso a livello locale e basate su un azionariato popolare: nei due terzi dei casi la quota minima di partecipazione è sotto ai 500 euro e a volte anche sotto ai 100.

Tra le rinnovabili preferite c’è il fotovoltaico, sul quale investono circa il 90% delle cooperative tedesche, piuttosto attive anche nel campo delle biomassee. Gli impianti non sempre sono di piccole dimensioni: il 16 agosto è stato allacciato alla rete il Bosbüll Solar Project, un parco FV da 9,7 MW realizzato con investimenti di 75 residenti locali a partire dai 1.000 euro di contributo. E assieme alle cooperative nascono nuovi strumenti per il crowdfounding: per esempio il portale berlinese Crowd Energy, che nasce per mettere assieme progettisti, proprietari di tetti e terreni e investitori, fornendo anche assistenza burocratica e legale per realizzare progetti rigorosamente comunitari.

Le cooperative e i progetti comunitari “rappresentano la democratizzazione dell’energia  n Germania”, sottolinea Carsten Körnig, CEO dell’associazione tedesca per il solare. Ma, oltre a rendere possibile la produzione di energia pulita anche per coloro che non hanno un tetto proprio, le cooperative svolgono anche un ruolo di formazione culturale. Come si scopre dallo studio, infatti, a spingere i soci non sono tanto le motivazioni economiche: la ricerca mostra che nella lista delle priorità di questi 80mila tedeschi prima del profitto vengono la difesa dell’ambiente, la diffusione delle rinnovabili e la creazione di valore a livello locale.

“Le cooperative energetiche stanno diventando una forza trainante nella transizione energetica. Offrono ai cittadini la possibilità di partecipare alla trasformazione del sistema energetico a livello locale e così aumentano la disponibilità ad accettare progetti energetici in quelle aree”, commenta Eckhard Ott, presidente di DGRV.

“La partecipazione dei cittadini aiuta a creare quelle competenze di cui c’è urgente bisogno per la trasformazione del sistema energetico su larga scala. Perché le persone impegnate nell’espansione delle rinnovabili a livello locale si dimostrano poi disponibili ad assumersi anche altre responsabilità, per esempio riguardo a quanto serve tecnicamente per la trasformazione del sistema energetico su scala più ampia”, aggiunge Philipp Vohrer, direttore esecutivo dell’AEE.

Quale crescita con lo spread energetico al 30%?

di Nicola Cipolla

I provvedimenti che, finalmente, la BCE di Draghi, con il difficile e limitativo consenso della Merkel, ha adottato stanno producendo una riduzione, ancora insufficiente, dello spread tra gli interessi del debito pubblico tedesco e quelli pagati dal nostro paese. La crisi attuale ha avuto inizio in America con lo scandalo dei subprime ed è continuata con il tentativo di riversarne gli effetti sull’euro, il cui successo insidiava il dominio del dollaro stabilito con gli accordi di Bretton Woods. Attacco guidato dalle agenzie di rating americane che hanno volta a volta indirizzato la speculazione contro uno o più paesi, tra cui il nostro, dell’euro gruppo. Man mano che diminuisce però lo spread dei tassi di interesse viene fuori con forza un altro spread quello tra il costo dell’energia rispetto agli altri paesi della UE: il 30% circa. Ma questo spread ha una causa tutta italiana e deriva da modo in cui è stata realizzata la privatizzazione degli enti pubblici, in particolare dell’Enel, dell’Eni e dell’IRI, ad iniziativa dei governi Prodi, Berlusconi e, in ultimo, del governo Monti.
Il caso Alcoa, esaltato in questi giorni da tutti i mass media, ci spinge ad una riflessione. L’industria dell’alluminio è la più energivora: l’elettricità rappresenta il 45% del costo complessivo. Fino a che l’impianto di Portovesme era inserito in un complesso industriale di grandi enti di Stato: IRI, Eni, Enel, il problema del costo dell’energia veniva risolto al loro interno. La privatizzazione di questi enti, trasformati in Spa alla ricerca del massimo profitto, ha creato una situazione nuova e disastrosa. Per un certo numero di anni l’Alcoa, che si è sostituita alla gestione IRI, ha ottenuto contributi pubblici per oltre 3 miliardi. Alessandro Penati su Repubblica ha rilevato che la somma di questi supera l’ammontare dei salari. La UE, però, con un nuovo provvedimento, ha dichiarato illegittimi questi contributi, il che ha portato l’Alcoa ad abbandonare il sito.
Da dove viene questo spread energetico in Italia che ora mette in fuga l’Alcoa ma che costituisce una remora per tutta l’economia italiana e colpisce tutte le imprese, le amministrazioni pubbliche e i singoli cittadini non meno dello spread sugli interessi pagati alle banche?
“Quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito” dice l’antico proverbio orientale.
Il decreto Bersani, del 1999, di privatizzazione “all’italiana”, ad esempio, ha posto fine al monopolio dell’Enel. Ma la produzione dell’energia elettrica, e soprattutto la sua distribuzione, non possono essere soggetti alle leggi del libero mercato. Il consumatore non può avere dieci contatori corrispondenti a dieci reti di dieci produttori perchè la rete deve essere unica per essere economicamente sostenibile ed è stata monopolizzata dall’Enel e da alcune ex municipalizzate anch’esse privatizzate. Si è costituita poi una società diversa, ma intimamente collegata all’Enel attraverso mille fili, Terna, limitatamente però al trasporto dell’energia ad alta tensione. Il capolavoro della privatizzazione “all’italiana” è costituito da due ulteriori passaggi: la determinazione del prezzo al consumo viene demandata al GSE (Gestore Servizi Energetici – ente pubblico non economico controllato al 100% dal Ministero dell’economia) e da questo alla Borsa Elettrica (altra società dipendente dallo stesso Ministero), che remunera i produttori pagando a tutti un prezzo che è pari a quello dell’offerta più costosa tra quelle accettate per soddisfare la domanda. Il meccanismo è più chiaro con un esempio, illustrato da Wikipedia che tutti possono consultare: “Ipotizziamo che la domanda chieda 10 KWh. I produttori sono più di uno, ed il primo offre 5 KWh a 1€, il secondo 4 KWh a 2€ ed il terzo 1 KWh a 3€. Il totale delle unità domandate ed offerte è così pari a 10 Kwh, che verranno pagate tutte e 10 a tutti i produttori al prezzo più alto offerto, ovvero 3€, per un totale di 30€”.
Si costituisce, così, con l’intervento costrittivo dello Stato (altro che liberalizzazione), una rendita a favore degli impianti di produzione a costi più bassi, che sono quelli degli impianti idroelettrici costruiti a partire dagli anni 30, e già ammortizzati, o dei modernissimi impianti di cogenerazione a metano capaci di reggere la concorrenza internazionale e che assieme hanno una potenzialità quasi doppia rispetto al picco dei consumi italiani. I produttori privati e l’Enel si sono però accordati tra di loro per mantenere in piedi alcuni impianti ad alto costo allo scopo di rendere massima una rendita di tipo feudale anche tenendo fermi una parte degli impianti meno costosi. L’oligopolio privato sostenuto dall’intervento dello Stato ha sostituito il monopolio pubblico.
L’irrompere dell’energia fotovoltaica nel 2011 ha messo in crisi questo sistema. L’obbligo di immettere in rete questa energia, previsto dall’adozione del Conto Energia, analogo a quello esistente in Germania, ha estromesso dalla fornitura gli impianti più costosi, quelli, cioè, su cui si determinava il prezzo. Per effetto del fotovoltaico nel 2011 si è realizzata, quindi, (altro che un aumento del costo dell’energia, come dice la stampa foraggiata dagli oligopolisti) una riduzione del costo dell’energia nelle ore diurne per cui si è persino capovolto il rapporto tra il costo dell’energia nelle ore diurne e quello più basso delle ore notturne. Da ciò la levata di scudi che ha indotto il governo Monti a bloccare lo sviluppo del fotovoltaico così come era stato bloccato l’eolico dal governo Berlusconi.
Il secondo passaggio, in seguito della privatizzazione dell’Eni e soprattutto dell’Enel, è costituito dal fatto che la direzione di questo ha utilizzato il ricavato della vendita obbligatoria delle centrali eccedenti il 50% della produzione italiana e soprattutto l’indebitamento per sviluppare un’attività all’estero del tutto estranea agli interessi energetici dell’Italia. L’Enel oggi, ad esempio, malgrado due referendum antinucleari e malgrado Fukushima, investe centinaia e centinaia di milioni per partecipare alla costruzione in Francia del reattore nucleare di terza generazione EPR che ha già superato tutte le previsioni di tempo e di spesa. E soprattutto, dopo l’acquisizione in Slovacchia di alcune vecchie centrali nucleari tipo Chernobyl, ora dovrebbe investire 800 milioni per adeguarle alle esigenze di sicurezza poste dal disastro giapponese. Anche l’acquisto in Spagna dell’Endesa, privata però della parte moderna delle energie rinnovabili e degli impianti idroelettrici, è stata effettuata ricorrendo a forti indebitamenti la cui gestione degli interessi è assicurata “per cassa”, come più volte Monti ha affermato, dal gettito delle super bollette italiane. Analoga azione svolge l’Eni quando, invece di limitarsi a garantire, con gli investimenti esteri, l’approvvigionamento nazionale, si avventura in operazioni anche di distribuzione in paesi corrotti, come quelli ex sovietici dell’Asia, o del Sud America o dell’Africa, attraverso società domiciliate in paradisi fiscali che sfuggono ad ogni controllo degli organismi nazionali come la Corte dei Conti o il TAR, etc..
Questa situazione ha creato un rapporto, tra questi enti privatizzati e i loro dirigenti, rovesciato rispetto a quello esistente in Francia, dove EDF ed Alstom stanno sviluppando enormi impianti eolici, ad esempio, sulla costa tra Le Havre e Saint Nazaire o mentre la Germania, attraverso le società privatizzate, sta realizzando grandi impianti offshore nel Baltico collegati con imprese svedesi e russe. Sia in Francia che in Germania le società ex pubbliche privatizzate operano nel quadro di una politica industriale dettata dai rispettivi governi con le influenze esercitate sia dall’opposizione che dalla maggioranza dai movimenti ambientaliste e dai partiti Verdi. In Italia non è così.
Il cosiddetto Piano Energetico annunciato dal governo Monti riproduce, infatti, le iniziative in corso dell’Eni, alleato con altri monopoli internazionali nelle ricerche petrolifere, e che vuole realizzare infrastrutture a livello internazionale e ancora dell’Enel e dei monopoli elettrici per quanto riguarda il blocco sia dell’eolico che del solare fotovoltaico, mentre gli stessi impianti idroelettrici, costruiti con gli investimenti ampiamente ammortizzati dallo stato a partire dagli anni ’30, diventano oggetto di speculazioni nei numerosi passaggi di pacchetti azionari che la stampa ci fa notare ogni giorno. Sintomatico il caso dell’EDF divenuto unico proprietario dell’Edison che è felice di conferire per le sue centrali poste a poche decine di chilometri dal confine francese alla Borsa Elettrica italiana l’energia prodotta ad un prezzo che è il 30% superiore a quello ricavato nel proprio paese d’origine da centrali a metano dello stesso tipo.
Ridurre lo spread energetico diventa oggi un obiettivo fondamentale per chi vuole in Italia venire incontro alle esigenze delle famiglie, delle imprese, delle amministrazioni pubbliche e sviluppare nel contempo l’occupazione. Il decreto Bersani non è il Talmud bisogna modificarlo eliminando il riferimento agli impianti più costosi ed introducendo ad esempio il riferimento alle statistiche UE del costo dell’energia in Europa. Il che porterebbe, nell’immediato, alla chiusura degli impianti più arretrati e più inquinanti e ad una maggiore utilizzazione degli impianti più moderni a metano che oggi sono sfruttai al 60-70%. Eliminando nello stesso tempo i blocchi posti dai governi Berlusconi-Monti all’ingresso delle energie rinnovabili. Un tale governo dovrebbe subito convocare l’Enel, la Finmeccanica e la Fincantieri, principale beneficiaria della diffusione di impianti eolici offshore per promuovere lungo le coste italiane ed in particolare attorno alla Sicilia e la Sardegna parchi offshore lontani dalla costa creando così anche aree di riserva marina per centinai di Km quadrati. Alla proposta del governo Monti bisognerebbe contrapporre le linee di un Piano Energetico tendente, ai ritmi del 2011 del solare fotovoltaico e delle iniziative europee in corso per l’eolico, entro 10-15 anni, alla sostituzione totale delle energie fossili nella produzione elettrica. Per fare questo occorre un maggiore intervento pubblico valorizzando Terna e affidandole anche la gestione delle centrali idroelettriche che costituiscono un bene comune; affidando le reti urbane di distribuzione ai Comuni, così come per le strade; sviluppando anche il risparmio energetico, il riuso e il riciclo e la diffusione del solare fotovoltaico specialmente sui tetti degli edifici pubblici e delle zone industriali inquinate. E’ in corso una forte iniziativa per i referendum sociali sull’art. 8 e sull’art. 18, conquiste dei lavoratori italiani del secolo scorso e annullate dall’azione dei governi Berlusconi e Monti. Nel corso di queste iniziative occorre promuoverne altre, proprie del XXI secolo, come il referendum per i Beni Comuni o i progetti di iniziativa popolare tendenti a modificare gli orrori legislativi in materia ambientale dei governi Berlusconi e Monti. Occorre realizzare una mobilitazione analoga a quella che ha portato alla vittoria dei referendum dell’acqua e contro il nucleare e per la difesa dei beni comuni del 12 e 13 giugno dello scorso anno, causa principale, è bene ribadirlo ancora una volta, della crisi irreversibile del Berlusconismo e che potrebbe ora rovesciare il falso neoliberismo di Monti e dei suoi sostenitori.

In Italia 9 miliardi di finanziamenti pubblici al petrolio

di Veronica Caciagli – da qualenergia.it

Secondo Fatih Birol, chief economist dell’International Energy Agency, “a causa dei sussidi alle fonti fossili, l’energia è venduta sottocosto in molte parti del mondo, portando a sprechi nei consumi e volatilità dei prezzi. Mette a rischio anche la competitività delle rinnovabili.” Le stime IEA affermano che nel 2011 i sussidi a carbone, petrolio e gas sono stati pari a523 miliardi di dollari, in crescita rispetto ai 409 miliardi del 2010. Eppure già nel 2009 gli Stati del G20 si erano impegnati, a Pittsburgh, di ridurre e gradualmente eliminare i sussidi alle fonti fossili.

Cifre enormi, soprattutto se paragonate agli 88 miliardi spesi, sempre a livello mondiale, per le rinnovabili nel 2011, o ai 100 miliardi richiesti dal Green Climate Fund, il fondo mondiale per il clima in discussione in questi giorni a Doha nella COP 18, il summit mondiale sui cambiamenti climatici. Proprio su questo tema 350.org sta creando una mobilitazione su scala globale per esercitare attività di pressioni sui Governi. Secondo Bill McKibben, attivista ambientale del movimento globale per il clima 350.org, questa situazione “è solo il riflesso dell’enorme potere politico dell’industria delle fonti fossili. Ancora continuiamo a mandare il denaro delle nostre tasse all’industria più ricca del mondo, in modo che possa continuare a distruggere il Pianeta. Questo non ha alcun senso.”

in Italia, quanti sono i sussidi alle fonti fossili? 9,11 miliardi di euro di finanziamenti pubblici all’anno: questa la stima di Legambiente dei sussidi alle fonti fossili che il Governo italiano elargisce annualmente alle industrie del carbone, petrolio e gas. Di questi, 4,5 miliardi di euro rientrano nella categoria di sussidi diretti, ovvero distribuiti come aiuto economico ad alcune categorie. Tra questi la parte del leone vaalle centrali da fonti fossili, a cui sono andati 2,34 miliardi nel 2011 tramite il meccanismo del CIP6 della componente A3 delle bollette di energia elettrica: il CIP6 era nato nel 1992 proprio per finanziare le fonti rinnovabili, ma poi era stato esteso alle fonti “assimilate”. Uno scandalo costato 38 miliardi se consideriamo solo il periodo che va dal 2001 al 2011.

Al secondo posto i sussidi all’autotrasporto, per 500 milioni di euro all’anno: l’inevitabile conseguenza è il netto predominio del trasporto merci su strada rispetto al trasporto tramite ferrovia o navale. Seguono i sussidi alle centrali da fonte fossile per lepiccole isole, che ammontano a “soli” 62 milioni di euro, ma che hanno un impatto locale pesante, in quanto alimentano una forma di monopolio di fatto, impedendo lo sviluppo di impianti di energia rinnovabile proprio dove sarebbe più economico realizzarle. Non solo: dal 2013 il Governo ha introdotto, tramite il decreto Sviluppo un sussidio aggiuntivo per le centrali a olio combustibile che potrebbe pesare per ulteriori 250 milioni all’anno (anche nel 2013); l’ipotesi sarebbe di estendere questo nuovo sussidio anche alle centrali a gas, con un peso ancora non stimato ma sicuramente molto superiore.

Tra i sussidi indiretti, ci sono le facilitazioni alle trivellazioni: le prime 20mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente da ciascun impianto sono completamenteesenti da aliquote (anche se gli impianti appartengono a una stessa azienda: per cui per esempio se un’azienda ha 5 impianti le prime 100.000 tonnellate saranno esenti); questo limite è aumentato alle prime 50.000 tonnellate estratte in impianti offshore. Per il gas i limiti sono di 25 milioni di metri cubi estratti in terra e 80 milioni di metri cubi estratti in mare (come descritto chiaramente nel libro “Trivelle d’Italia”, di Pietro Dommarco). Inoltre le royalty sono decisamente vantaggiose: solo il 10%, contro le royalty internazionali che vanno dal 20$ all’80%. L’aumentata redditività, peraltro già elevata per questo tipo di industria, fa sì che molte aziende internazionali siano interessate a cavalcare la piccola onda del poco greggio italiano. Il conto per imancati introiti ammonta a 1,6 miliardi all’anno.

Infine, tra i sussidi indiretti, Legambiente (vedi il documento in allegato) considera anche i sussidi a imprese energivore (1,6 miliardi) e costi per opere stradali (3 miliardi). In realtà la stima non è ancora quella definitiva: mancano i finanziamenti dichiarati dall’Italia nel rapporto OCSE relativi ai sussidi sui trasporti marittimi (quasi 500 milioni), quelli in sgravi sui consumi energetici all’agricoltura (oltre 800 milioni). Inoltre, andrebbe aggiunta una verifica sui sussidi indiretti previsti alle aziende parastatali dell’industria delle energie fossili.

Insomma, un panorama inquietante in cui la mancanza di trasparenza nella distribuzione dei finanziamenti pubblici fa vincere le lobby più potenti, alzando il costo economico dell’inevitabile trasformazione energetica, per non parlare dei danni sanitari associati all’uso delle fossili.

Il dossier di Legambiente sull’argomento (pdf)

Un piano nazionale contro la povertà energetica

di Giovanni Carrosio

Con l’aggravarsi della crisi economica, il tema della fuel poverty (povertà energetica) – molto studiato e dibattuto soprattutto nei paesi anglosassoni – sta assumendo una sua rilevanza anche in Italia. Cresce il numero di famiglie che si trovano nella difficoltà o nell’impossibilità di assicurare un riscaldamento adeguato nelle proprie abitazioni e di dotarsi di sistemi elettrodomestici e di illuminazione sufficienti a causa del costo dell’energia elettrica. Secondo una ricerca europea, nel 2010 in Italia l’11% delle famiglie non aveva la disponibilità economica per riscaldare in modo adeguato la propria abitazione e il 9% delle famiglie aveva una cronicità nel ritardo dei pagamenti delle bollette (Eurostat, 2010). Il dato è destinato a crescere in modo incrementale con la crisi economica, a meno che non intervengano ambiziose politiche capaci di invertire la rotta. Ad essere colpite non sono soltanto le classiche situazioni di povertà, che trovano sostegno ad esempio nel social housing, ma un serie di figure nuove che vanno sotto il concetto di working poors: persone che, pur avendo un reddito da lavoro, non hanno sufficienti disponibilità economiche per vivere in modo dignitoso. Il fenomeno dei working poors è dilagante e coinvolge circa il 10% dei lavoratori italiani nel complesso e il 18% dei lavoratori con contratti temporanei.

Fino ad oggi, le istituzioni hanno elaborato risposte alla fuel poverty parziali e insoddisfacenti, basate soprattutto su due indirizzi: la creazione di mercati energetici concorrenziali, che permettano un abbassamento dei costi medi dell’energia, e l’attivazione di politiche per la salvaguardia dell’accesso ai servizi energetici delle fasce più deboli della popolazione. Sul primo fronte, si assiste oggi in Italia allo sviluppo di forme di concorrenza nel mercato elettrico e, in misura assai più limitata, in quello del gas. Sul versante delle politiche specifiche di salvaguardia delle fasce deboli della popolazione, è oggi avviata una tariffa sociale per l’energia elettrica, finalizzata a ridurre la spesa energetica dei consumatori in condizioni di disagio economico o in gravi condizioni di salute. Inoltre, l’Autorità per l’energia è da tempo intervenuta con specifici provvedimenti (rateizzazione dei pagamenti, tassi massimi di interesse, divieti di sospensione del servizio in casi di particolare disagio) nell’ottica di tutelare i consumatori più vulnerabili.

Esiste un terzo versante, tuttavia, sul quale non si è ancora intervenuto in modo strutturato e mirato, quello degli interventi di miglioramento dell’efficienza negli usi finali dell’energia. Anziché intervenire in modo assistenziale sul sostegno alla spesa delle famiglie in difficoltà, è possibile intervenire sul miglioramento della qualità degli alloggi, con vere e proprie ristrutturazioni energetiche. In questo modo si abbatte strutturalmente il fabbisogno energetico delle famiglie, innalzandone contestualmente il comfort. Perché ciò sia possibile, sono necessarie però politiche integrate, comprensive di diverse questioni: sociali (la lotta alla povertà energetica), ambientali (la riduzione delle emissioni climalteranti), energetiche (incremento dell’efficienza negli usi dell’energia), economiche (l’impulso al settore delle ristrutturazioni edilizie e la creazione di nuovi green jobs).

Intervenire sull’efficienza energetica degli edifici, infatti, consente non solo di alleviare il carico delle bollette sul bilancio famigliare, ma anche di diminuire il peso del settore edile sulle emissioni e di creare nuova occupazione legata ai lavori verdi.

Seguendo questa logica le politiche devono intervenire incrementando le capabilities delle famiglie con bassi redditi, invertendo la logica assistenzialistica. Fino ad oggi, però, tutte le incentivazioni nazionali sul risparmio energetico negli edifici sono state concesse senza distinzione di reddito (i meccanismi del 55% e del 36%) ed è facile ipotizzare che siano state utilizzate esclusivamente da redditi medio-alti. Per come gli incentivi sono impostati, le famiglie più giovani senza risparmi e senza continuità di reddito e le fasce di reddito medio-basse difficilmente trovano attraente l’incentivazione (impossibile fare gli interventi per mancanza di risorse e ridurli fiscalmente per insufficiente imponibile).

È arrivato il momento di iniziare a pensare alle politiche di incentivazione in modo differenziato per le fasce di reddito. Sia per l’installazione di dispositivi di produzione di energia da fonti rinnovabili, che per gli interventi di risparmio energetico degli edifici. Bisogna anche mettere a punto un piano di interventi diretti, sulla scorta di quello immaginato da Gallino per la messa in sicurezza del territorio. Abbandoniamo le grandi opere e investiamo in autonomia energetica a partire dalle singole abitazioni. Le future generazioni ci ringrazieranno.

Conferenza di Doha, politica e governi a mani vuote

di Mario Agostinelli – Il Fatto Quotidiano 28 novembre 2012

Nientemeno che la Banca Mondiale ha allertato sulle conseguenze di una mancata drastica riduzione di emissioni di anidride carbonica ed ha perciò esortato i governi di 119 Paesi riuniti in questi giorni a Doha – la capitale del Qatar che ha l’impronta di CO2 pro capite più alta al mondo, soprattutto a causa del suo petrolio – ad accettare tagli più profondi del previsto per i cosiddetti gas ad effetto serra. Tuttavia, secondo il capodelegazione USA, “gli Stati Uniti non intendono andare oltre il 3% rispetto ai loro obiettivi di emissione”. Al contrario, lo studio britannico del Tyndall Centre suggerisce che il Nord industrializzato dovrebbe fare tagli del 70 per cento entro il 2020, mentre la maggior parte degli altri Paesi dovrebbe fare tagli analoghi, un decennio più tardi.

I negoziati di Doha sono più complessi che mai perché si pongono tre obiettivi che nessuno dei protagonisti politici interpreta come irrinunciabili e da conquistare dando battaglia agli irresponsabili negazionisti. Il primo è di concordare obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2020, come cornice avanzata per un rinnovo certo del Protocollo di Kyoto. Il secondo obiettivo è di preparare il terreno per un nuovo trattato globale sul clima post-2020. Il terzo è di garantire l’assistenza tecnica e finanziaria per aiutare i Paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni di carbonio e adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici, come la siccità, le inondazioni e la perdita di produttività agricola.

Sennonché, mentre per salvare le banche, il mondo finanziario e le ricchezze frutto di speculazione, sono stati immessi soldi pubblici dell’ordine del PIL di intere nazioni, per il 2013 i governi hanno già preannunciato che non ci sono soldi per l’ambiente e il clima. È un segno di miopia gravissima, poiché l’obiettivo climatico di limitare l’aumento della temperatura globale entro i 2°C sta diventando sempre più difficile e più costoso. E col crescere della temperatura del pianeta, l’acqua stessa, soggetta a sempre più elevate evaporazioni, sta diventando un parametro decisivo per valutare la fattibilità dei progetti energetici. Questo perché la crescita economica e demografica sta intensificando la concorrenza per accaparrarsi le risorse idriche ormai scarse e destinate conflittualmente all’agricoltura, all’alimentazione diretta e/o alla produzione elettrica.

Perfino l’Unione Europea non si impegna a rinnovare il finanziamento del Fondo per il Clima che si esaurisce a fine anno. “Ovviamente, quando l’intera popolazione UE è in fase di proteste contro l’austerità, non è esattamente il momento di parlare di finanziamento verde”, ha detto improvvidamente il commissario per l’ambiente Connie Hedegaard. In compenso, il Regno Unito e alcuni altri Stati membri puntano a iniziative in cui le fonti di finanziamento pubblico e privato si fondono. Clima come affare, quindi, non come priorità politica e responsabilità verso le future generazioni.

Non è nemmeno in prospettiva una proroga di Kyoto, data la contrarietà di Stati Uniti, Canada, Russia e Giappone. È la mancanza di fiducia e di coesione uno dei principali nodi del momento. Eppure le recenti relazioni scientifiche sul cambiamento climatico mostrano in modo drammatico che il mondo sta rapidamente tornando indietro sui suoi obiettivi di taglio alle emissione di CO2 e, se questo trend non si inverte bruscamente, il mondo dovrà affrontare le conseguenze devastanti di un mondo più caldo di 4° C.

In assenza di un reale protagonismo della politica, troppo legata agli interessi delle grandi lobby fossili, è la società civile che sta facendo la differenza. Dalle comunità che sostengono l’agricoltura locale e sostenibile in tutto il mondo, per arrivare alle transition town tanto diffuse in Europa, fino alle proposte alternative di fornitura energetica, come ha dimostrato l’esperienza di Co-energia, associazione legata alle reti dell’economia solidale italiana, che permette di poter abbandonare un colosso energetico come Enel per alternative più sostenibili e low-carbon. Cambiamento dello stile di vita assieme alla mobilitazione sociale: solo così, sembra possibile dare una spinta decisiva ad una transizione ecologica sempre più ineludibile e sempre più lontana dalla visione della politica. Ma lo sanno i nostrani e ruspanti contendenti delle primarie che proprio in questi giorni sull’altra sponda del Mediterraneo si gioca una partita drammatica sul futuro del pianeta?