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ECOTASSE, CLIMA, PETROLIO E TRASPORTI

Mario Agostinelli – il Fatto Quotidiano

Adesso che alla Cop 24 di Katowice tutto è andato come purtroppo si temeva, gli abitanti del pianeta delusi – a partire dagli europei – devono abbandonare quell’apatia nei confronti del cambiamento climatico che permette ai governanti di essere sconsideratamente negazionisti e di accreditare la frottola che le misure ambientali penalizzerebbero l’economia e le fasce meno abbienti. Il governo italiano non fa che accreditare di fatto un’impostazione tanto spudorata: Matteo Salvini e Luigi Di Maio, all’ombra del loro stravagante “contratto” e di baratti rabberciati all’ultimo minuto, sviano continuamente l’attenzione dai problemi reali e dalla possibilità di far crescere una coscienza matura. È quel che sta avvenendo sul nodo della necessaria decarbonizzazione dell’economia, mentre i vicepremier duellano il mattino per rappacificarsi la sera. Come è successo per la Tap, anche sulle ecotasse sembra proibito poter discutere e confrontarsi e i problemi vengono accantonati in cambio di un disorientamento generale, che consente alla Lega di rinforzare gli steccati di un sovranismo tanto impotente quanto discriminatorio.

Senza tener conto che occorre una programmazione politica dal lungo respiro per affrontare la sfida europea e mondiale della decarbonizzazione dei trasporti, con le schermaglie su improvvisati provvedimenti fiscali per l’auto – chiamati “ecotasse” per scandalizzare Fca e allarmare qualche benpensante – si è cercato di far credere che la difesa dell’ambiente sia un lusso che devono pagare i lavoratori e i meno ricchi. Al contrario, le questioni dell’impatto sulla mobilità, sull’occupazione, sul reddito, sulla salute e sul clima del superamento del motore a scoppio (che è la vera ragione per una politica fiscale sulle motorizzazioni) merita ben altra informazione e ben altro dibattito rispetto a quello che ci viene propinato.

In questa prima nota affronto il problema della rivoluzione nel sistema dei trasporti, già in atto, per poi discutere nel prossimo post la questione della carbon tax entro cui collocare la cosiddetta ecotassa, e prendere in considerazione le ricadute sociali a essa collegate.

Che il motore a scoppio – a benzina o gasolio – non faccia bene lo sa chiunque si sia avvicinato a un tubo di scappamento. La sua massiccia diffusione nell’ambiente in cui viviamo produce sia effetti cancerogeni, dovuti principalmente a polveri sottili, sia un contributo all’aumento di temperatura dovuto alle simultanee emissioni di CO2. Dato che la mobilità, anche se porta inconvenienti alla salute, è un diritto cui difficilmente si rinuncia, programmarne il futuro è questione di natura ancor più sociale che puramente economica. Siamo di fronte a sfide inedite su cui vengono giudicati i governi, come è il caso di tutti i Paesi sviluppati e come testimonia la vicenda dei gilet gialli francesi, che ha messo in luce tutti i rischi di un intervento autoritario in materia di tasse, mobilità e tutela ambientale.

Se partiamo da considerazioni su inquinamento e clima, dobbiamo avere presente che il diesel è più pericoloso per i suoi effetti cancerogeni (anche se i veicoli a benzina sono tutt’altro che esenti da conseguenze nefaste), mentre per il clima la maggior perniciosità dei due carburanti si viene a invertire. Tutto sommato, non dà granché risultati rimpiazzare un motore a combustione con l’altro (benzina al diesel), tranne che nel traffico cittadino dove si concentrano le polveri sottili. Affidare sostanzialmente all’abbandono del diesel il superamento della crisi del binomio (auto individuale + petrolio) è ingannevole. A cominciare dal fatto che un barile di petrolio (159 litri) finito in raffineria produce vari composti fra cui, per più di metà, benzina e gasolio per autotrazione, l’una e l’altro destinati al trasporto delle persone e delle merci, con quest’ultime che viaggiano su ruote con motorizzazioni esclusivamente diesel.

Allora è il motore a combustione in generale che manifesta il suo limite, dato che per ogni litro di carburante consumato vengono emessi circa 2,5 chilogrammi di CO2 (media sommaria fra i vari tipi di carburante, Gpl e metano compresi). Non c’è dubbio che il motore a scoppio (compreso quello alimentato a metano) andrà progressivamente sostituito con altre tipologie di motorizzazioni e combustibili che non producano effetti climalteranti.

La riconversione verso l’elettrico dei veicoli su gomma è una soluzione di prospettiva. Considerando l’intero ciclo “dal pozzo alla ruota” (well to wheels), il motore elettrico (alimentato a batteria o rifornito a idrogeno con pile a combustibile) non può che essere il terminale di un sistema diffuso di trasformazione e stoccaggio di vettori (elettricità o idrogeno) prodotti da fonti rinnovabili, per non comportare effetti perniciosi sul clima. Verso la definitiva decarbonizzazione, va incentivato lo sviluppo di tecnologie che migliorino il rendimento dei motori e le loro emissioni, con la combinazione di motore a scoppio e generatore di corrente (veicoli ibridi), riorganizzando le stazioni di servizio con la disposizione di colonnine di ricarica.

Qui un’ultima ma decisiva valutazione: la congestione spaziale, lo spreco e l’accumulo di rifiuti provocata dalle auto a proprietà individuale mette un freno all’entusiasmo per la soluzione enfatizzata dell’auto elettrica a guida automatica: forse l’escamotage più accattivante con cui le case automobilistiche possono rilanciare il mercato sotto la forma di status symbol per benestanti. Il motore elettrico è sì uno sconvolgimento del panorama attuale, ma ci si deve assicurare che eventuali benefici siano condivisi da tutti e che nessuno rimanga indietro. Ma se vogliamo letteralmente sopravvivere avendo cura del pianeta, non possiamo che ridurre il consumo di mobilità su mezzi individuali. Di questo e del regime fiscale con cui accelerare la transizione tratteremo nel prossimo post.

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Contributo sull’avvio del congresso della Cgil

Come iscritti e militanti della Cgil, di diverse categorie* avanziamo le riflessioni che seguono, prendendo spunto dall’avvio del congresso della Cgil, ed in relazione alle attività di associazioni, nelle quali siamo impegnati, che si occupano della transizione/decarbonizzazione del modello energetico e di sviluppo (come l’approfondimento riportato in appendice); temi sui quali già abbiamo avuto e abbiamo occasioni di collaborazione con la Cgil e le sue categorie.

Il congresso dovrebbe essere…

Il metodo nuovo, deciso dalla Cgil per avviare il 18° congresso, con la “Traccia di discussione per Assemblee Generali” sulla quale raccogliere suggerimenti e indicazioni per poi arrivare al documento congressuale vero è proprio, è molto utile.

E’ certamente giusto sottolineare come in questi anni la Cgil, nonostante la situazione e il clima sfavorevole, abbia retto bene. Ma l’affermazione “Non ci siamo limitati al conflitto e alla difesa, abbiamo scelto la strada della creazione di un’altra proposta di sistema come il piano del lavoro, elaborando la nostra proposta di legge di iniziativa popolare: la carta dei diritti universali del lavoro”, è troppo ottimistica. Ci siamo difesi abbastanza bene, ma di qui in avanti questo non basta.

“Un’altra proposta di sistema” è una indicazione strategica assolutamente condivisibile e necessaria, ma non possiamo dire di averla già creata. “Il piano del lavoro” è stata una buona intuizione, anche simbolica, importante, ma non è sufficiente; come non lo è ripetere semplicemente che siamo per “un modello alternativo, sostenibile, di crescita, sviluppo e giustizia sociale”. La stessa confusione tra i termini di crescita e sviluppo, che non sono – a proposito di “sostenibilità ambientale, economica, sociale e territoriale” – la stessa cosa, dimostra che nonostante l’avvio di alcune importanti elaborazioni (come “la piattaforma integrata per lo sviluppo sostenibile”) tutta l’organizzazione non ha ancora assimilato, soprattutto nella sua pratica contrattuale, la consapevolezza delle grandi emergenze globali, ambientali , energetiche, climatiche che abbiamo di fronte e, di conseguenza, le grandi trasformazioni sull’idea di sviluppo, che sarebbero necessarie.

A questo proposito, sono molto più precise le affermazioni contenute nel contributo dello Spi “Verso il congresso nazionale Spi 2018”: “Di fronte a questo scenario, obiettivo dello Spi Cgil, in coerenza con le priorità dell’Onu e per l’Italia dell’Asvis, è quello di battersi insieme alla comunità scientifica e ai movimenti ambientalisti affinché si avvii un ambizioso processo di transizione che dall’economia globale conduca verso un’economia ecologica e circolare. È sempre più necessario, infatti, limitare i cambiamenti climatici, liberarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili, affermare nuovi modelli di consumo, raggiungere l’obiettivo dei rifiuti zero, e garantire a tutti, oltre che la sicurezza alimentare, anche l’accesso a uno dei beni più preziosi: l’acqua potabile. Ma la diffusione di una cultura della sostenibilità deve anche partire dall’assunzione di responsabilità dei singoli individui. Basare i nostri comportamenti quotidiani sul consumo consapevole delle risorse naturali, sul risparmio energetico, sul rispetto dell’ambiente rappresenta il primo passo verso un mondo più giusto ed equo”.

Sono affermazioni importanti che non hanno implicazioni solo per le scelte individuali, o per i “consumatori consapevoli”, ma pongono, soprattutto, la necessità della transizione del modello produttivo, e quindi di come conquistare un modello di sviluppo alternativo.

Nel secolo scorso, i movimenti sociali, ed in particolare quello sindacale, potevano svolgere il loro ruolo di mobilitazione e rivendicazione per la tutela dei diritti, delle condizioni di lavoro e di vita, per obiettivi di giustizia sociale e poi trovare una “sponda politica”, tra forze politiche che avevano una “idea complessiva di società”, a cui delegare la necessaria mediazione e realizzazione di questi obiettivi.

Oggi, per il movimento sindacale, ed in particolare per la Cgil, è molto più problematico trovare “una sponda” nell’attuale quadro politico; infatti si sostiene di avere “letto prima…il prepararsi della rottura tra il mondo del lavoro e la rappresentanza politica”. A maggior ragione, questa realtà, dovrebbe implicare la necessità di un cambio nel ruolo e nelle responsabilità del sindacato.

Certamente il sindacato deve fondare in primo luogo la sua rappresentatività partendo dalle condizioni concrete di tutto il mondo del lavoro, anche nei settori più marginali ed esclusi (spesso anche per noi ai margini), ma deve allargare il concetto di coalizione a tutti quei settori sociali che possono oggettivamente convergere su obiettivi coerenti. Per questo il sindacato deve avanzare in proprio una sua idea di società e di modello di sviluppo, cercando di farlo vivere e avanzare, non solo nelle elaborazioni generali, ma anche, e soprattutto, nella propria iniziativa corrente e nella pratica contrattuale a tutti i livelli.

Come si legge nel contributo della Fiom “Il congresso dell’uguaglianza”: “consolidare la strada intrapresa… di autonomia e indipendenza dal sistema dei partiti e dalle logiche che oggi dominano la politica”. E, conclude: “Non si può quindi prescindere dalla necessità di stringere i legami della coalizione delle lavoratrici e dei lavoratori e allargare le alleanze oltre il lavoro dipendente”.

Per il sindacato, porre la necessità di “un nuovo modello di sviluppo” e operare direttamente per essere protagonista di questa progressiva transizione, significa saper intrecciare l’attenzione all’occupazione, alla riduzione degli orari, ai diritti, alle condizioni, alla retribuzione, con una riflessione sulle finalità del lavoro stesso (“cosa, come, per chi produrre”, si sosteneva una volta) e della sua redistribuzione.

La transizione nei settori energetici, dell’economia circolare, della mobilità, dell’organizzazione delle città, dell’edilizia, dei servizi, ecc. – con l’accelerazione indotta dalla digitalizzazione – è già in atto, magari a volte in modo distorto e contradditorio, ma proseguirà. L’unico modo perché “non sia pagata dai lavoratori” è che il sindacato, e i lavoratori, svolgano un ruolo attivo, ponendo le proprie priorità, con una “contrattazione d’anticipo”. Disinteressarsene, pensando solo ad un ruolo sindacale “tradizionale”, o tentare semplicemente di frenare questo processo (come a volte è successo e succede) produrrebbe danni ben peggiori.

Per andare in questa direzione servono strategie e normative precise, politiche industriali e investimenti pubblici e privati adeguati (vale per le grandi scelte nazionali, ma anche per quelle locali e territoriali) che devono essere rivendicati con forza, ma non possiamo semplicemente delegare, o fare lobby, verso i decisori politici.

Una transizione “giusta” non si può realizzare senza un coinvolgimento attivo dei soggetti sociali interessati a questi cambiamenti (i lavoratori, i consumatori, i cittadini, ecc.) o addirittura contro di loro. Per questo, superando tendenze alla frammentazione e al settorialismo, è necessario aggregare un “fronte sociale più ampio” (che coinvolga oltre al sindacato, associazioni sociali, ambientali, dei consumatori, comitati dei cittadini, competenze scientifiche e tecniche) per intervenire e contrattare questi cambiamenti, a partire dalle aziende più innovative, dagli amministratori locali più sensibili, ecc., per investire poi il sistema delle imprese di tutti i settori.

Si parla tanto di Industria 4.0, ma in genere si affrontano solo aspetti tecnologici, digitalizzazione (internet delle cose, additive manufacturing…). “Affermiamo di voler contrattare la digitalizzazione”, che è un ottimo proponimento, ma “l’algoritmo” non controlla solo le condizioni di lavoro, ma l’intero ciclo della produzione, dei servizi, dei consumi. L’innovazione che dovremmo contrattare non interessa solo le tecnologie, ma anche gli aspetti organizzativi, ambientali, sociali e le stesse finalità del lavoro e delle produzioni. Per svolgere questo ruolo, il sindacato, ha la necessità di costruire un punto di vista autonomo, proprio e dei lavoratori che rappresenta, anche in relazione a soggetti esterni, oltre il lavoro dipendente.

Le trasformazioni in atto necessitano di più sapere e di più intelligenza nell’uso di tutte le risorse, servirebbe uno straordinario sforzo di educazione e di formazione a tutti i livelli, non solo nei luoghi tradizionali della ricerca e della formazione, ma anche nei luoghi di lavoro e nella società.

In queste trasformazioni vi saranno settori che andranno a ridursi e altri invece che dovrebbero crescere, e il sindacato ne dovrebbe essere protagonista attivo, facciamo sommariamente solo alcuni esempi:

– Per i settori dell’automotive e della mobilità, pensiamo all’enorme impatto che avrà la progressiva sostituzione di mezzi a combustione interna con quella elettrica o ad altre propulsioni; o la progressiva riduzione dell’uso dei combustibili fossili, con la fine dell’uso del carbone, il restringimento dei settori delle estrazioni e della raffinazione e quindi le ricadute in quelli dell’oil & gas.

– Viceversa, pensiamo al possibile grande sviluppo di tutte le fonti rinnovabili, la stessa Strategia Energetica Nazionale (che può essere criticabile per taluni aspetti) ne prevede un aumento tale che non sarebbe raggiungibile con i trend attuali, a partire dal solare e dall’eolico (per il quale sarebbe necessario puntare su quello offshore); oppure le grandi opportunità per l’autoproduzione, e soprattutto per l’efficienza energetica in tutti i settori, a partire da Interventi radicali di efficientamento energetico per la riqualificazione spinta di interi edifici e quartieri (deep renovation).

Ma in modo più trasversale, anche solamente partire da iniziative diffuse per generalizzare le diagnosi energetiche e poi l’efficientamento dei cicli produttivi (es. l’Avviso comune Cgil Cisl Uil Confindustria del 2011, sull’efficienza energetica) oltre a dare vantaggi immediati, può fornire indicazioni per intervenire, non solo sui cicli attuali, ma anche sulle materie prime, sulla logistica, sugli scarti, sui rifiuti, ecc., ripensando cicli di vita e tipologia dei prodotti e dei servizi. Tematiche queste, applicabili non solo ai settori produttivi e industriali, ma in modo trasversale in ogni comparto. Incluso anche il ruolo che può svolgere una categoria come lo SPI, nella contrattazione sociale e nel promuovere comportamenti e stili di vita e di consumo più sostenibili.

A proposito di un ruolo più determinato del sindacato nella realizzazione di queste trasformazioni, pur non essendo citato nei documenti preparatori, si torna a parlare di “codeterminazione”. Certo, l’esperienza tedesca, fatte le dovute differenze, può avere un qualche interesse anche in Italia, che non ha mai avuto procedure di questo tipo, se si esclude Il caso del “protocollo IRI” (che risale agli anni ’80) o, da ultimo, il “timido” capitolo sulla “Partecipazione” del recente accordo con Confindustria sulle “relazioni industriali e la contrattazione“, ma essenziale in tutto questo è appunto avere punto di vista autonomo del sindacato.

*Mario Agostinelli
Vittorio Bardi
Paolo Bartolomei
Oscar Mancini
Gianni Naggi
Ettore Torregiani

APPROFONDIMENTO DI SCALIA E MATTIOLI (PDF 984 Kb) >>>

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Cop23, articoli da A SUD

1

Cop23: non c’è un piano finanziario per le vittime del climate change

17 novembre, 2017 | Redazione A Sud
[di Abu Siddique e Megan Darby su climatechangenews. Traduzione di Cecilia Erba] I Paesi più vulnerabili hanno chiesto supporto ai Paesi sviluppati per affrontare i costi crescenti derivanti dagli uragani, … Leggi tutto

REDAZIONE A SUD (5)

I due volti degli USA alla Cop23

17 novembre, 2017 | Redazione A Sud
[di Cecilia Erba per A Sud] È quantomeno particolare la posizione degli Stati Uniti alla Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP23) di Bonn. La delegazione ufficiale, molto ridotta rispetto … Leggi tutto

REDAZIONE A SUD (4)

COP 23: Le donne come agenti di cambiamento

17 novembre, 2017 | Redazione A Sud
[di Natascia Scaramuzza per A Sud] Negli ultimi decenni le organizzazioni per i diritti delle donne si sono battute per integrare le questioni di genere nella lotta al cambiamento climatico … Leggi tutto

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La nuova SEN vista con gli occhi di Parigi e di Bonn

a cura di Giuseppe Farinella (Energia Felice – Il Sole di Parigi) e Alfonso Navarra (Disarmisti esigenti – AK) – 14 novembre 2017

Il governo Gentiloni ha presentato il suo deludente piano energetico “a tutto gas”

Ma l’eliminazione dell’energia fossile è una “conversione logica” più che “ecologica” (anche verso una società pacifica)!

Meglio tardi che mai: finalmente abbiamo la nuova Strategia energetica nazionale – SEN presentata, a COP 23 di Bonn in corso, dal governo Gentiloni, con un piglio retorico (“uno dei due grandissimi assi della politica industriale dei prossimi anni”) cui non corrisponde la realtà deludente del testo.

La tempistica – la coincidenza con la manifestazione ONU che prosegue il percorso della COP 21 di Parigi – induce a pensare – non considerateci troppo maliziosi! – ad esigenze di immagine “verde” che prevalgono sulla sostanza “grigia”. Si parla di “addio al carbone” nel 2025 – e questo è indubbiamente positivo (l’Italia sarebbe la quarta nel G7 a programmarlo) – ma il ruolo sostitutivo e dominante, nella cosiddetta “transizione energetica”, è di fatto assegnato non alle rinnovabili ma al gas, per il quale si propongono massicci investimenti infrastrutturali. (Il primo pensiero corre alla Puglia e alla vicenda TAP contrastata dalla popolazione ma anche dalle Amministrazioni locali).

A garantirne l’attuazione si prevede una “cabina di regia”, in cui saranno coinvolti vari ministeri (in primo luogo Ambiente e Sviluppo economico, ma anche Economia, Trasporti, Beni culturali…).
Per la mobilità sostenibile, si prospetta l’obiettivo di 5 milioni di vetture elettriche al 2030, con incentivi da studiare per svecchiare il parco circolante: da finanziare sempre con bollette più care?
Perché, noi che , da ecopacifisti, abbiamo preparato la “missione collettiva a Bonn, per sensibilizzare sul “nesso su minaccia nucleare e mianaccia climatica” (è il titolo dei side event ufficiali che abbiamo incardinato come “Disarmisti esigenti” e WILPF Italia), ci dichiariamo insoddisfatti e lo abbiamo ribadito senza peli sulla lingua nel nostro intervento alla Conferenza ONU?

La concezione di questa SEN, secondo noi, in fondo, resta quella del governo Monti, incentrata sull’Italia come “hub del gas naturale”, con concessioni a nostro giudizio, ma non solo nostro, alquanto secondarie al settore delle rinnovabili. Non si vede come, con l’idea neanche tanto nascosta che la quota di mercato del gas vada comunque tutelata, se non aumentata, possa essere raggiunta la “decarbonizzazione”, nel senso tecnico di zero emissioni di gas serra.
Se guardiamo il problema con gli occhi di Parigi e di Bonn, cioè ponendo mente alla gravità del problema climatico, il giudizio su questa SEN dovrebbe essere logico: stiamo ancora perdendo tempo (e non ce n’è molto, secondo gli ultimi allarmi scientifici) sulla rivoluzione da compiere senza tentennamenti né contraddizioni verso le energie veramente pulite. Bisognerebbe invece puntare ad un “sistema rinnovabile” al 100% subito e proporre questo obiettivo come “imperativo”, secondo l’indicazione data da Hermann Sheer, l’autore della “Bibbia” per la completa riconversione del nostro sistema energetico (Edizioni Ambiente, 2012).

Qui a Bonn è ormai diventata quasi un luogo comune la frase: “Non dobbiamo più parlare di <conversione ecologica> ma semplicemente di <conversione logica>, di fronte ai moniti allarmati della comunità scientifica, sempre più compattamente preoccupata; ma anche alle tendenze evidenti del mercato: dopo l’accordo di Parigi si è manifestamente invertito il trend di investimenti di grandi banche e fondi privati dalle fossili alle rinnovabili! Ci torneremo su con i prossimi interventi.

Va anche considerato che l’Italia dovrà seguire l’Europa nel rivedere al rialzo gli obiettivi al 2030, se si vuole appunto dare seguito all’accordo di Parigi. Bisognerà che il nostro Paese affianchi in questo caso la Germania – e non la Polonia e le altre Nazioni diciamo “paratrumpiane” dell’ex Patto di Varsavia. E’ notevole che in questo senso, in sinergia con i nuovi orientamenti dei grandi investitori privati, si stia muovendo parte dell’industria elettrica europea, inclusa l’ENEL, mentre un’altra parte, in Italia l’ENI, vuole continuare a basarsi essenzialmente su gas e prodotti petroliferi.
Dopo anni di aggressione masochistica, con il taglio agli incentivi, al nostro settore delle rinnovabili – ci si è messi d’impegno nel tentare di ammazzare un business che prometteva benissimo! – si fa ora una parziale marcia indietro, ma non è l’inversione ad U richiesta dall’Accordo di Parigi, come già l’industria più intelligente comincia a chiedere.

Sarebbe opportuno, a nostro avviso, fare il contrario: tagliare i 16 miliardi circa di sussidi alle fonti fossili dirottandoli alle rinnovabili. Insomma, niente più sostegno pubblico (a spese dei consumatori) all’incenerimento dei rifiuti con il CIP6, alla costruzione dei rigassificatori, alle facili trivellazioni su mare e su terra!
Con l’orizzonte degli obiettivi climatici sarebbe importantissimo adottare una carbon tax non più rinviabile, che potrebbe essere applicata innanzitutto nei settori riscaldamento e trasporti (oggi beneficiati con varie esenzioni fiscali per chi consuma carburante), con collegata riduzione della pressione fiscale sul lavoro.
(Questo spostamento del carico fiscale dal reddito e dal lavoro alle attività dannose per l’ambiente viene indicato come “riforma fiscale ecologica”).

Va modificato il modello che definisce il mercato elettrico come un sistema basato su un numero ridotto d’impianti di generazione centralizzata e sulla distribuzione capillare attraverso le reti elettriche di alta, media e bassa tensione verso piccoli e grandi consumatori, sempre in modo unidirezionale. Per far fronte alla necessità di ricorrere a metodi di produzione d’energia elettrica sostenibili e in grado di fronteggiare la crescente domanda energetica a livello mondiale, le tecnologie della generazione distribuita, in particolare quella fotovoltaica ed eolica, permettono oggi di rendere disponibile energia pulita in prossimità dei punti di consumo, a prezzi sempre più competitivi.

Si tratta di appoggiare una nuova proposta di Direttiva UE che prevede espressamente che gli Stati membri debbano assicurare che le comunità locali abbiano diritto a generare, consumare, immagazzinare e vendere l’energia rinnovabile, anche attraverso accordi di acquisto di energia, senza essere soggette a procedure burocratiche esagerate e ad oneri sproporzionati. L’orizzonte sembra quindi definito, quantomeno a livello europeo, nonostante il percorso normativo-regolatorio non sia omogeneo e lineare neppure all’interno del nostro continente.

Altro punto da non dimenticare: la conferma del “no al nucleare”, che il popolo sovrano ha affermato con ben due referendum. dovrebbe comportare una gestione seria e non affaristica (o affaristico-clientelare) del triste lascito delle scorie radioattive, cosa di cui l’attuale struttura SOGIN non ci garantisce affatto.  Nel corso degli anni la SOGIN ha accumulato ritardi nei lavori che sono arrivati fino al 170%, i costi preventivati sono più che raddoppiati e l’incremento di attività degli ultimi anni è un dato “drogato” perché è dovuto all’impegno sullo smantellamento delle strutture civili, mentre la parte nucleare è ancora al palo.

La morale di questo intervento è che dobbiamo prendere sul serio il “bando dei combustibili fossili” decretato a Parigi il 12 dicembre del 2015. Questo grande cambiamento richiede una “transizione” con aspetti di gradualità ma l’indirizzo del percorso deve essere chiaro: il passaggio al 100% rinnovabili deve avvenire quanto prima possibile, escludendo la “centralità del gas” o “l’imbroglio nucleare”. Tanto più se si considera che il modello energetico rinnovabile è intrinsecamente collegabile ad una società più pacifica, non fosse altro perché ciascun Paese può controllare risorse diffuse di cui dispone “a casa sua”, senza dipendere da situazioni esterne, magari da “stabilizzare” con pressioni o addirittura interventi militari.
O seguiamo una strategia coerente o proseguiamo per inerzia facendoci annebbiare da una cappa fumosa di parole: ma ci permettiamo ancora una volta, scusandoci della ripetitività, di mettere in guardia da questa seconda opzione, comoda ma catastrofica. Il risultato più probabile di essa sarà di ottenere che il Pianeta, rotto l’equilibrio, faccia fuori la nostra arrogante ma stupida specie.

Dovremmo parafrasare la formula di Albert Einstein sulle armi nucleari, e qui a Bonn stiamo provando a condividerla con molte orecchie consenzienti: “O l’Umanità farà a meno dei combustibili fossili, o la Terra farà a meno dell’Umanità!”.

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2 agosto: Overshoot Day 2017

Nel 2017, il “Giorno del Sovrasfruttamento della Terra” cade il 2 agosto, mai così in anticipo da quando nei primi anni del 1970 abbiamo cominciato a sovrasfruttare le risorse.
Per innescare il cambiamento, il Global Footprint Network propone soluzioni per riportare la data verso la fine dell’anno (#movethedate) fornendo metodi di misura, impegni concreti e un nuovo calcolatore dell’Impronta Ecologica

Secondo il Global Footprint Network, l’organizzazione di ricerca internazionale che ha dato avvio al metodo di misura dell’Impronta Ecologica (in inglese Ecological Foorprint) per il calcolo del consumo di risorse, il 2 agosto di quest’anno è il giorno in cui l’umanità avrà usato l’intero budget annuale di risorse naturali. Il 60% di questo budget è rappresentato dalla richiesta di natura per l’assorbimento delle emissioni di anidride carbonica.

Il Giorno del Sovrasfruttamento delle risorse della Terra (in inglese Earth Overshoot Day) rappresenta la data in cui la richiesta di risorse naturali dell’umanità supera la quantità di risorse che la Terra è in grado di generare nello stesso anno. La data dell’Earth Overshoot Day è caduta sempre prima nel calendario: dalla fine di settembre del 1997 al 2 agosto di quest’anno, mai così presto da quando il mondo è andato per la prima volta in sovrasfruttamento nei primi anni ’70. In altre parole, l’umanità sta usando la natura ad un ritmo 1,7 volte superiore rispetto alla capacità di rigenerazione degli ecosistemi. È come se ci servissero 1,7 pianeti Terra per soddisfare il nostro fabbisogno attuale di risorse naturali.
I costi di questo crescente sbilanciamento ecologico stanno diventando sempre più evidenti nel mondo e li vediamo sotto forma di deforestazione, siccità, scarsità di acqua dolce, erosione del suolo, perdita di biodiversità e accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera.

#movethedate: sposta la data verso la sostenibilità
Possiamo però invertire questa tendenza. Se posticipassimo l’Overshoot Day di 4,5 giorni ogni anno, potremmo ritornare ad utilizzare le risorse di un solo pianeta entro il 2050.
“Il nostro pianeta è finito, ma le possibilità umane non lo sono. Vivere all’interno delle capacità di un solo pianeta è tecnologicamente possibile, finanziariamente vantaggioso ed è la nostra unica possibilità per un futuro prospero”, ha dichiarato Mathis Wackernagel, CEO del Global Footprint Network e co-creatore dell’Impronta Ecologica. “In definitiva, posticipare nel calendario la data del Giorno del Sovrasfruttamento della Terra è quello che davvero conta”.

Per dare rilevanza al Giorno di Sovrasfruttamento di quest’anno, il Global Footprint Network mette in evidenza alcune possibili azioni da mettere in pratica sin da oggi e stima il loro impatto sulla data del Giorno del Sovrasfruttamento della Terra nei prossimi anni. Ad esempio, la riduzione degli sprechi alimentari del 50% in tutto il mondo potrebbe posticipare tale data di 11 giorni; invece, ridurre del 50% la componente dell’Impronta Ecologica globale dovuta all’assorbimento di anidride carbonica, sposterebbe la data dell’Overshoot Day verso la fine dell’anno di 89 giorni.

Azioni individuali
Per supportare questa trasformazione, il Global Footprint Network, insieme a quasi 30 partner in tutto il mondo, sta incoraggiando le singole persone a contribuire al progetto #movethedate proponendo semplici azioni concrete. Questo processo prevede una maggiore conoscenza dei fattori chiave in grado di influire sulla sostenibilità e la sperimentazione di nuovi stili di vita per abbassare la propria Impronta Ecologica. Il Global Footprint Network propone queste sfide sia su un piano educativo che giocoso, in modo che i partecipanti possano imparare divertendosi, partecipando ad esempio ad un concorso fotografico.

Quest’anno, all’avvicinarsi del Giorno del Sovrasfruttamento della Terra, il Global Footprint Network lancerà anche un nuovo strumento di calcolo dell’Impronta Ecologica, l’Ecological Footprint calculator, per permettere ad ogni singolo utente di calcolare il proprio Giorno del Sovrasfruttamento personale. Ad oggi, l’attuale calcolatore (www.footprintcalculator.org) viene utilizzato da più di 2 milioni di persone all’anno.

Una trasformazione sistemica
Un cambiamento sistemico è fondamentale per posticipare la data del Giorno del Sovrasfruttamento. Per questo il Global Footprint Network, che all’inizio di quest’anno ha lanciato la sua piattaforma dati aperta a tutti, contribuisce a diffondere nel mondo le soluzioni identificate da due organizzazioni: Project Drawdown e McKinsey & Company. Sulla base del lavoro di queste due organizzazioni, il team di ricerca del Global Footprint Network ha calcolato di quanti giorni verrebbe posticipato il Giorno del Sovrasfruttamento della Terra se tali soluzioni venissero implementate.

“La sola componente di anidride carbonica dell’impronta è più che raddoppiata dagli inizi degli anni ’70 e rimane la componente che cresce più rapidamente, contribuendo così al divario tra l’Impronta Ecologica e la biocapacità del pianeta”, ha dichiarato Wackernagel. “Per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima, l’umanità dovrebbe uscire dall’economia dei combustibili fossili prima del 2050, contribuendo già di gran lunga a risolvere il problema dell’umanità relativo al sovrasfruttamento delle risorse”.

Segnali incoraggianti
Gli ultimi dati del Global Footprint Network offrono segnali incoraggianti: stiamo iniziando a muoverci nella giusta direzione. Ad esempio, tra il 2005 e il 2013 (l’ultimo anno per cui esistono dati affidabili) l’Impronta Ecologica pro capite negli USA è scesa quasi del 20% rispetto al suo picco. Questo significativo cambiamento, che include il risollevamento post-recessione, è associato principalmente alla diminuzione delle emissioni di anidride carbonica. Nello stesso periodo, il PIL pro capite USA è cresciuto del 20%. Questi risultati fanno quindi degli Stati Uniti un significativo caso di disaccoppiamento tra la crescita economica e il consumo di risorse naturali, che seguono infatti andamenti opposti.

Nonostante l’inversione di rotta del governo nazionale degli Stati Uniti sulla protezione del clima, molte città, singoli Stati e grandi imprese americane stanno raddoppiando i loro impegni. Inoltre, la Cina, il paese con la più grande Impronta Ecologica totale, nel suo ultimo piano quinquennale si è fortemente impegnata a costruire una Cultura Ecologica, con molte iniziative per superare al più presto il suo picco di emissioni di anidride carbonica. Scozia, Costa Rica e Nicaragua sono altri esempi di paesi che stanno rapidamente decarbonizzando il loro sistema energetico.

Risorse aggiuntive
Maggiori informazioni sul Giorno del Sovrasfruttamento della Terra: www.overshootday.org
Segui i social media con: #movethedate

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