di Alessandro Codegoni su qualenergia.it –
14 gennaio 2013
Nella storia energetica italiana, compare ogni tanto una “manina” misteriosa che ritocca le leggi per dare una mano alle varie lobby, contro i loro possibili competitori. Basti ricordare l’aggiunta della parola “assimilabili” alla legge sulCip6 del 1992, che ha portato a sprecare decine di miliardi in aiuti a fonti “finto-rinnovabili” (ma, stranamente, contro quello scandalo non si levarono voci indignate, come accade oggi per gli incentivi alle rinnovabili …), o gli emendamenti conosciuti come “Salva Alcoa” 1 e 2, che hanno favorito un piccolo numero di proprietari di impianti fotovoltaici a danno del resto del settore e dell’interesse comune.
Recentemente si è venuto a sapere di un’altra discutibile iniziativa legislativa del genere che, potenzialmente, ha rischiato di costarci molto, molto salata.
Anche se la cosa non è andata (per ora, almeno) in porto, la storia del “fattore di garanzia” per i rigassificatori è illuminante su come venga fatta la politica energetica in questo Paese. È da una quindicina di anni che in Italia ci si è resi conto di essere troppo dipendenti dal gas naturale (che produce ormai circa il 40% dell’energia italiana, e oltre la metà dell’elettricità), una fonte che, a differenza delle altre, ci lega quasi esclusivamente a determinati fornitori (Olanda, Russia, Libia, Algeria), quelli collegati con gasdotti, rendendo questa fornitura strategica soggetta a improvvise interruzioni per guasti, guerre e contrasti politici.
Come è noto, in attesa che le rinnovabili diminuiscano questa dipendenza, c’è un solo modo per differenziare l’offerta di gas naturale, rendendola un po’ meno a rischio, ed è quello di costruire impianti in grado di ricevere via mare gas naturale liquefatto(GNL), rigassificarlo e immetterlo nella rete. Così i fornitori possono moltiplicarsi (dal Qatar, alla Nigeria e domani, forse, gli Usa del gas da fracking) e si possono comprare partite di metano dal miglior offerente del momento, senza legarsi le mani, come accade con i gasdotti, con contratti di lunga durata a prezzo fisso. Contratti che contengono spesso pure clausole capestro, tipo il take-or-pay, che costringerà l’Eni a pagare (o a farci pagare) 1,5 miliardi di euro per metano prenotato, ma non consumato negli anni scorsi.
Ma di rigassificatori, fino all’apertura nel 2009 di quello galleggiante di fronte al delta del Po, in Italia ne esisteva solo uno, molto piccolo (3,4 milioni di mc/giorno sui quasi 200 milioni consumati in Italia), a Panigaglia, in Liguria. Nonostante l’Italia sia uno dei massimi consumatori di metano al mondo (71,3 miliardi di metri cubi nei 2011, terzi in Europa, di cui solo 7,7 autoprodotti) e nel nostro Paese il gas sia pagato dai clienti finali circa il 20% più della media europea, nessuno sembrava interessato a venire a costruire rigassificatori qui, persino negli anni pre-crisi, quando le previsioni dei consumi futuri di metano erano stratosferiche.
La ragione principale della mancanza di queste infrastrutture in Italia non è tanto, come si pensa, l’opposizione delle popolazioni a questi impianti (quella è relativamente recente, e con trasparenza, garanzie e compensazioni, si può provare a superarla), ma il fatto che la rete di distribuzione del gas è di Snam Rete Gas, cioè dell’Eni, la società che possiede, in quote più o meno ampie, tutti i gasdotti che collegano l’Italia con l’estero, e che quindi ha potenzialmente i mezzi per annullare qualsiasi vantaggio di prezzo del GNL. Non a caso, prima del 2009, l’unico che abbia costruito un rigassificatore in Italia è stata la stessa Snam. Questa commistione fra monopolista della rete e quasi monopolista delle forniture è ormai considerata insostenibile per il peso che fa gravare sui costi dell’energia in Italia, tanto che il governo Monti ha predisposto, attraverso una complessa procedura, il distacco fra i due nei prossimi anni, sperando che ciò favorisca concorrenza e abbassamento dei prezzi.
Nel 2000 però tutto questo era ancora lontano e, nel decreto 164/00, il Governo di allora chiese all’Autorità per Energia e Gas, Aeeg, di predisporre misure, entro il 2001, per agevolare l’installazione di rigassificatori nel nostro Paese, assicurando eque tariffe per trasporto, uso degli stoccaggi strategici e rigassificazione, soprattutto per gli impianti nel Meridione. Sostanzialmente, si chiese all’Aeeg di aprire “a forza” il mercato italiano al GNL e alla libera concorrenza. Risultato? Solo nel 2005, e solo dopo due eventi traumatici, un inverno molto freddo e le dispute Russia-Ucraina, che hanno ridotto per qualche giorno il passaggio del gas verso l’Europa Occidentale, l’Aeeg produce la delibera 178/05, per favorire l’installazione di nuovi rigassificatori.
Ma in questa delibera, l’incentivo consiste essenzialmente in un “fattore di garanzia”, così definito:
13.2 Il fattore correttivo di cui all’articolo 10, comma 10.3, è sostituito da un fattore garanzia, che assicura, anche in caso di mancato utilizzo dell’impianto, la copertura di una quota pari all’80% di ricavi di riferimento. Tale copertura è riconosciuta dal sistema tariffario del trasporto e ha durata per un periodo di 20 anni.
In pratica, invece di garantire tariffe eque, in grado di rendere il gas di tutti competitivo, si promette ai gestori dei rigassificatori il rimborso del valore del gas (che poi i consumatori pagheranno in bolletta) fino all’80% (ridotto poi al 71,5% in una delibera del 2008) della capacità massima dell’impianto, nel caso, magari per un calo del mercato o per le troppo alte tariffe di trasporto, non si riuscisse a venderlo. Un guadagno garantito, scaricato sulle bollette di tutti, che sarebbe andato avanti per la bellezza di 20 anni. Sarebbe come se in una città dove l’acquedotto è pieno di buchi e ostruzioni, il Comune pagasse per 20 anni ai cittadini acqua minerale pari all’80% dei loro consumi potenziali, invece di riparare la rete. O, in altre parole, invece di affrontare il problema delle strozzature del mercato del gas, cosa che sarebbe dispiaciuta a poteri molto forti, ci si preparava a scaricarlo sui consumatori.
Forse anche per queste condizioni straordinariamente favorevoli, da quel momento sono in effetti fioccate in Italia le richieste per aprire rigassificatori, arrivando nel 2011 a un massimo di 15 domande per nuovi impianti sparpagliati per tutta la penisola (su un totale di 21 richieste in tutta Europa) che, se realizzati, avrebbero più che raddoppiato la nostra fornitura potenziale di gas, sommandosi anche, oltre che ai 4 gasdotti esistenti, anche al nuovo gasdotto dall’Algeria, il Galsi, in funzione dal 2014, e (forse) al gasdotto South Stream dai Balcani.
Un’alluvione di gas, insomma, che non si capisce come gli italiani avrebbero mai potuto consumare, tanto più che, fra il 2005 e il 2012, per crisi economica e concorrenza di fotovoltaico ed eolico, i consumi di gas in Italia sono passati da 79 a 71 miliardi di mc/anno. E, anche nell’ottica del famoso “hub del gas” in cui alcuni vorrebbero trasformare l’Italia, probabilmente, avremmo anche avuto enormi problemi a esportare altrove questi miliardi di metri cubi, visto che gli altri Paesi si stanno attrezzando autonomamente per avere il gas che gli serve.
Non ci si può non chiedere, quindi, quanto ci sarebbe costato questo favoloso ‘fattore di garanzia’ (e i contratti take-or-pay dell’Eni con la Russia), se tutti i 15 rigassificatori fossero entrati in funzione, destinati, molto probabilmente, a stare fermi o lavorare al minimo per anni e anni. Ma proprio questo boom “virtuale” di rigassificatori, ha portato qualcuno a scoprire e denunciare l’incredibile regalo che ci si preparava a fare.
“Siamo venuti a conoscenza nel 2010 del fattore di garanzia per i rigassificatori – dice Adriano Varrica, portavoce di Sonia Alfano, deputata al Parlamento Europeo, come indipendente nella lista Italia dei Valori – grazie ai rappresentanti del comitato che si oppone al progetto del rigassificatore Enel di Porto Empedocle in Sicilia, che avevano attentamente studiato la delibera Aeeg. Immediatamente abbiamo realizzato che poteva configurarsi come un aiuto di Stato, e Alfano ha fatto domanda per un parere in merito da parte dell’Autorità di Vigilanza sul Mercato della Commissione Europea“. Questa, per qualche anno ha fatto orecchie da mercante, ma dopo tre successive domande sul punto, da parte del gruppo della Alfano, la UE ha deciso a giugno 2012 di aprire un’ inchiesta per possibili aiuti di Stato. E l’Aeeg, il 31 ottobre successivo, con la delibera 451/12, ha deciso di sospendere il fattore di garanzia, citando anche la decisione della UE fra i motivi del provvedimento.
All’Aeeg spiegano quanto accaduto in modo un po’ diverso. “Innanzi tutto – spiega il Direttore Infrastrutture Andrea Oglietti – il fattore di garanzia è stato introdotto nel 2005,in un momento molto critico per la sicurezza del sistema, con ben due emergenze gas in meno di 12 mesi. Erano comunque previste fin dall’origine limitazioni: l’incentivo non era previsto per infrastrutture non aperte a terzi e, in ogni caso, non oltre il raggiungimento di una capacità di rigassificazione di 95 milioni di mc/giorno a livello nazionale (che non sono pochi: la metà dei consumi giornalieri di gas in Italia, ndr). Da allora, lo scenario gas è profondamente cambiato: in vista della definizione del nuovo periodo di regolazione, che inizierà l’1 gennaio 2014, l’Autorità ha pertanto valutato opportuno sospendere quel meccanismo, per ridisegnarlo in coerenza con la Strategia Energetica Nazionale e tener conto dei nuovi scenari in cui si muove oggi il mercato del gas, non solo a livello italiano, ma comunitario e mondiale”.
Quindi l’apertura di un’inchiesta UE sul fattore di garanzia, non c’entra nulla con il ripensamento dell’Autorità e, forse, anche con l’annullamento di gran parte dei progetti di rigassificatori, proposti quando il fattore esisteva? “No, l’Autorità ha deciso la sospensione per i motivi spiegati prima. Le difficoltà di alcuni progetti di rigassificatori mi pare siano da imputare alle mutate condizioni del mercato, inclusa la difficoltà a reperire gas liquefatto a prezzi competitivi, oltre che, in alcuni casi, a difficoltà autorizzative a livello locale”.
Ma non sarebbe stato meglio liberalizzare il mercato del gas per rendere l’Italia appetibile a chi vende gas naturale liquefatto, piuttosto che prevedere di far pagare i difetti del nostro mercato ai consumatori? “Salvo l’ottenimento delle necessarie autorizzazioni, non ci sono impedimenti regolatori alla realizzazione di nuovi rigassificatori che, certamente, possono favorire lo sviluppo della concorrenza nel mercato liberalizzato. Il fattore di garanzia era stato pensato per favorire la realizzazione di impianti anche ad accesso libero, propria di una prospettiva pro-competitiva. Peraltro, mi pare giusto ricordare che, a oggi, il fattore di garanzia non ha comportato alcun costo aggiuntivo per i consumatori italiani”.
Quindi il fattore di garanzia sarà cancellato? “Come detto, l’Autorità sta ripensando i meccanismi di regolazione e incentivazione per i rigassificatori anche nella prospettiva di renderli coerenti con le scelte di strategia energetica nazionale che saranno definite dal Governo. E sia il rigassificatore di Rovigo che quello di Livorno, che dovrebbe entrare in esercizio entro il prossimo autunno, non essendo aperti a terzi, non accedono al fattore di garanzia”.
Resta un’ultima considerazione da fare: spesso i tecnocrati guardano con compatimento e un bel po’ di arroganza ai “Comitati del NO!” che sorgono quando si propongono grandi progetti infrastrutturali. Sicuramente a volte queste proteste sono esagerate e irrazionali, ma bisogna riconoscere che spesso “ci azzeccano”, individuando “istintivamente” problemi che ai supertecnici, dall’alto della loro competenza specialistica, sfuggono. Se in questo caso, come in quello del nucleare o anche del primo progetto TAV, le cose fossero andate in porto come volevano “gli esperti”, ci saremmo trovati con infrastrutture ipertrofiche e talvolta devastanti per l’ambiente, con ricadute di costi spaventosi, a carico non di chi aveva preso le decisioni sbagliate, ma di tutti.
Magari discutere più apertamente dei progetti comuni da portare avanti con i “cittadini incompetenti”, invece di decidere fra tecnici e far poi ingoiare a forza le decisioni al territorio (e scaricare sulla comunità i costi dei progetti), porterebbe non solo a sveltire i tempi di realizzazione, ma anche a migliorare i progetti stessi.