Reattori nucleari offshore: l’ennesimo tentativo di giustificare il rilancio dell’atomo

Milano Finanza del 5 settembre annuncia un accordo tra Saipem e Newcleo: verso soluzioni nucleari sostenibili per il settore offshore. La collaborazione tra le due sigle sarebbe volta a individuare soluzioni innovative per l’applicazione offshore della tecnologia nucleare galleggiante per la produzione di “energia elettrica a zero emissioni”. L’articolo, curato da Francesca Gerosa, usa accuratamente e più volte il termine rassicurante di reattori modulari nucleari di bassa taglia “a zero emissioni”.

I piccoli reattori modulari, ormai sulla bocca quotidianamente del ministro Pichetto Fratin, proprio non esistono in produzione, anche perché la loro eventuale realizzazione comporterebbe due terrificanti conseguenze: distogliere investimenti dalle rinnovabili già efficienti e disponibili alla bisogna e disseminare per il mondo scorie nucleari che, anche in caso di minori incidenti, dovrebbero essere movimentate in ogni angolo del pianeta, con il rischio di venire addirittura disperse anche in mare.

Si spiega che la tecnologia illustrata tra le righe dell’articolo di Milano Finanza trarrebbe vantaggio da una maggiore efficienza nell’utilizzo dell’uranio estratto rispetto ad altri tipi di reattore convenzionali a fissione, grazie al riutilizzo del combustibile esausto utilizzato da altri impianti posti a terra. In definitiva, siamo di fronte ad un incauto tentativo di giustificare un ancor più massiccio rilancio dell’atomo. Infatti, si genererebbero potenza e calore cullati direttamente dalle onde e investiti dalle tempeste, colonizzando non più solo le terre abitate, ma i mari solcati da pescatori, viaggiatori, navi da crociera, enormi navi containers che certo non potrebbero creare facilmente azioni di opposizione o contrasto organizzato lontano dalla terraferma a questo incredibile “ballon d’essai”.

Questa disseminazione di small nuclear reactors, secondo Stefano Buono, ceo di Newcleo, permetterebbe anche di “ridurre l’impatto ambientale delle operazioni offshore del settore oil & gas, migliorando l’efficienza energetica e promuovendo la sostenibilità a lungo termine, ma anche di progettare delle centrali di produzione elettrica offshore, che possano fornire elettricità decarbonizzata a terra”. Quindi Oil & Gas continuerebbero a prosperare: altro che tagliare le emissioni di CO2 al 2050! E, in aggiunta, uranio 235 arricchito oltre il 5% all’interno di noccioli nucleari di ridotta dimensione, ma sparsi in ogni dove e, soprattutto lontano dagli occhi dei cittadini che – come ha appena affermato ancora una volta accortamente papa Francesco – hanno a disposizione fonti inesauribili di energie sostenibili e modalità di cooperazione e riduzione degli impatti ambientali attraverso la costituzione delle comunità energetiche. In fondo non sarebbe male se Saipem si occupasse dell’eolico galleggiante di Civitavecchia, il cui progetto langue nei cassetti romani.

Provo un grande disagio nel veder sottovalutate dalla gran parte dei governi e da buona parte del mondo delle imprese soluzioni che cercano di contrastare – come ad esempio quelle fornite dal green deal Ue, oggi in corso di sconvolgimento – le emergenze che potrebbero por fine alla sopravvivenza umana (il nucleare, l’estensione senza fine delle guerre, l’ingiustizia sociale sempre più acuta, la catastrofe climatica che incrociamo tutti i giorni, la precaria controllabilità dell’IA). Al contrario, si sta rincorrendo, con un’urgenza fuori posto e senza speranza di un condivisibile successo, tecnologie che manifestano fin dal loro concepimento una palese contraddizione rispetto al prosperare della salute e della vita e alla crescita della maturità democratica. Un diritto alla vita e un’occasione di partecipazione che vanno spegnendosi con il progredire di un Antropocene in irreversibile contrasto con la biosfera e la convivenza pacifica.

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Il contrasto ai fossili è sempre stato blando: ecco uno studio sulle attività di ‘ostruzione climatica’

Sono ormai più di 30 anni, dagli anni ’90 allo scoppio della pandemia e fino ai giorni nostri, che un insistito tentativo di rallentare o bloccare deliberatamente l’azione per il clima porta la vita sul nostro pianeta a virare bruscamente verso limiti invalicabili di conservazione e riproduzione della vita, che si manifestano di anno in anno in modalità imprevedibilmente peggiori. Un coacervo di interessi, una irresponsabilità delle classi dirigenti, un ruolo complice di gran parte dei media e l’invasione dell’economia di guerra accelerano il degrado della biosfera e provano a depotenziare sul nascere la reazione delle nuove generazioni e delle popolazioni maggiormente esposte.

Prendo spunto da una recentissima pubblicazione della Oxford University Press che traccia una documentazione dello sviluppo e della natura delle attività di ostruzione climatica estesa a tutta Europa. In essa – per lo specifico del caso italiano – hanno redatto osservazioni di grande interesse Marco Grasso, Stella Levantesi e Serena Beqja. Qui riprendo alcune loro analisi, integrate da mie brevi considerazioni a supporto delle loro allarmate denunce.

Secondo l’European Severe Weather Database, il Paese ha subito 3.191 eventi meteorologici estremi nel 2022, rispetto ai 2.072 dell’anno precedente e ai 380 del 2010. Intanto, in un crescendo disastroso per il 2023 e il primo semestre del 2024, la già tiepida transizione verso “net zero al 2050” è stata ulteriormente diluita dalla coalizione di destra alla guida del Paese, che, nel Pniec in approvazione, ha ridotto dal 40 al 30% il proprio contributo agli obiettivi di Parigi.

Una ricostruzione delle azioni di blando contrasto alle emissioni viene esaminata dai tre ricercatori in diverse fasi. La sottovalutazione va ricercata fin dalla fine del secolo scorso nel ruolo di Eni, partecipata dal governo e dalla Banca Depositi e Prestiti, che, nella limitata consapevolezza del cambiamento climatico da parte dei cittadini, ha insistentemente negato il contributo umano al riscaldamento terrestre. Il compito di cancellare la questione dal dibattito pubblico è stato affidato ai media mainstream, mentre la narrativa berlusconiana relegava il clima ai margini di qualsiasi necessità di azione.

Dal primo decennio del nuovo millennio fino agli anni che precedettero la pandemia, nonostante il risveglio delle nuove generazioni e la forza e l’insistenza del messaggio di Greta Thunberg e di papa Francesco, anche i governi successivi, come quelli di Renzi e poi di Draghi, liberavano incentivi per la combustione di biomasse e inceneritori, togliendo sostegni alle rinnovabili e favorendo ulteriori attività estrattive di fossili sul territorio e nei mari nazionali.

Tuttavia, verso la fine del primo ventennio, maturava una maggiore consapevolezza popolare a cui veniva contrapposta un’ostruzione climatica che gli autori citati definiscono frutto di convergenza “tra attori politici, istituzionali, mediatici, commerciali e finanziari”. Sono tuttavia gli anni in cui si dà avvio alla contesa per la riconversione a rinnovabili del carbone (a Civitavecchia in particolare) e in cui si organizzano i comitati territoriali e nazionali contro la riconversione a gas delle centrali. Sono gli stessi anni in cui la narrazione della Laudato si’ di Francesco attecchisce a sprazzi, senza l’accompagnamento di una azione sufficientemente diffusa, mentre le lobby di influenza politica che agiscono sul piano nazionale ed europeo a sostegno di attività di espansione di petrolio e gas dispiegano il massimo impegno. La partita si rende più esplicita e conflittuale: numerosissime sono le manifestazioni territoriali pubbliche, tanto che, tra gennaio e giugno 2021, Eni e Snam si sono incontrati più di cento volte con i ministri italiani e i responsabili Ue, presentandosi come facilitatori della transizione energetica a tutto gas.

La guerra in Ucraina intanto muta volto al corso del gas che, anziché viaggiare in condotte, viene trasportato liquido e ad altissimi costi ambientali da navi che approdano dagli oceani alle coste italiane accolte da metaniere in rada.

E’ bene considerare come l’ideologia della destra contribuisca al negazionismo e al ritardo imposto alla conversione energetica, mantenendo i sussidi per i fossili, facilitandone le infrastrutture, consentendo trivellazioni in deroga, attaccando gli attivisti climatici e imponendo loro pene sotto la specie di reati di nuova formulazione. Soprattutto, viene frenata la realizzazione di impianti rinnovabili creando l’illusione di essere prossimi a soluzioni improbabili e ambientalmente nocive, come la prospettiva di un fantomatico ritorno al nucleare da fissione disseminato sui territori in impianti di ridotta dimensione che il ministro Pichetto Fratin ipotizza a regime già nella cornice del nuovo Pniec.

Nel paper citato e riportato per frammenti, si fa ampio riferimento ad accademici e ad istituzioni finanziarie e di ricerca schierate a difesa del comparto fossile. Qui voglio ricordare il ruolo precipuo delle banche come Unicredit e Intesa San Paolo e il ruolo rilevantissimo di Sace, l’agenzia per il credito all’esportazione, nel garantire nel mondo investimenti e attività ad alta intensità di carbonio.

Da ultimo, è interessante notare – come fanno gli autori – che l’impostazione discorsiva negazionista ha continuato a identificare l’Ipcc come l’epicentro della scienza climatica inventata e a rappresentare falsamente i suoi rapporti, in particolare quelli riguardanti gli obiettivi su cui devono convergere i governi.

Per concludere, aggiungo dalla mia esperienza diretta l’insufficiente ascolto ottenuto nell’Occidente cristiano dall’insistente e sofferta comunicazione di papa Francesco, che, non a caso, nell’esortazione recente Laudate Deum allude alla pesantissima responsabilità degli stili di vita e dei consumi di quegli stessi Paesi che, alleati in guerra, sono disposti a elevare in maniera consistente la percentuale della loro spesa militare, mentre ancora non decolla il fondo verso i Paesi poveri per difendere le loro terre dalla minaccia climatica.

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Emissioni di anidride carbonica record nel 2023: il tempo scade, il mondo va in direzione opposta

Dalle elezioni europee, la somma di astensioni e di rigurgiti diffusi di destre anche estreme, segnalerebbe che tra la popolazione l’emergenza climatica sia passata in secondo piano, a fronte del riarmo e del divampare delle guerre tra blocchi in lotta per l’egemonia globale. Al contrario, occorre andare più a fondo per capire che è in corso una frattura profonda tra cittadini – che non si sentono rappresentati – e poteri politici ed economici schiacciati sul presente, ma incapaci di cooperare per un futuro in cui ci sia posto dignitosamente per tutti sul Pianeta.

Riferendomi alla crisi climatica, per cui non abbiamo più tempo a disposizione, provo ad illustrare lo sfasamento tra emergenze vissute dal basso e mancate soluzioni fornite dall’alto, illustrando le conclusioni di due indagini di grandissima affidabilità e a rilevante estensione: il documento dell’Undep sulla sensibilità al cambio climatico fra le popolazioni mondiali e quello di Carbon Brief sulla crescita delle energie rinnovabili nel 2023, purtroppo non ancora dissociata da quella parallela delle fonti fossili.

Il report dell’Undep interroga sul cambiamento climatico un significativo numero di soggetti, in modo tale da far riferimento alla vita quotidiana, includendo persone provenienti da gruppi emarginati nelle parti più povere del mondo. L’indagine è stata svolta dall’Università di Oxford e dallo studio GeoPoll in base alla formulazione di 15 domande a più di 75.000 persone in 77 paesi che parlavano 87 lingue diverse, in rappresentanza del 90% della popolazione mondiale: insomma, il più grande sondaggio di opinione pubblica autonomo mai condotto sul cambiamento climatico. Le domande sono state progettate per aiutare a capire come le persone stiano vivendone gli impatti e come vogliano che i leader mondiali rispondano.

La ricerca rivela che oltre l’80% delle persone registrate vuole che i loro governi intraprendano azioni più decise per affrontare la crisi climatica, mettendo da parte le differenze geopolitiche per lavorare insieme su un’emergenza sempre più incombente.

L’indicazione è chiara perfino in dettaglio: i loro leader dovrebbero trascendere le loro differenze, per conseguire “contributi determinati a livello nazionale nell’ambito dell’Accordo di Parigi”. A livello globale, quindi, il clima è nella mente delle persone e la loro preoccupazione sta crescendo; il 53% ha dichiarato di essere più preoccupato rispetto all’anno scorso e l’allarme è più alto nei Paesi meno sviluppati. Nei nove piccoli Stati insulari in via di sviluppo, ben il 71% ha dichiarato di essere più angosciato rispetto al 2022. Quindi, il tempo in quei luoghi “corre” più veloce.

Il 69% delle persone in tutto il mondo ha affermato che il cambiamento climatico sta avendo un impatto sulle loro decisioni più importanti, come dove vivere o lavorare. Tutti sono a favore dell’eliminazione dei combustibili fossili e per una transizione più rapida. Questo vale anche per i paesi tra i primi 10 maggiori produttori di petrolio, carbone o gas, come Nigeria e Turchia, Cina, Germania Arabia Saudita, tutti al di sopra del 70%; solo gli Stati Uniti si attestano al pur rilevante 54%. Il 93% – Italia compresa – concorda per una transizione verso “l’energia verde”. Emerge, infine, la richiesta di aiuto ai paesi più poveri e di un sostegno all’educazione al cambiamento climatico nelle scuole.

Se è vero che questa è l’opinione pubblica mondiale scientificamente accreditata, i riscontri del documento pubblicato da carbon Brief sembrerebbero, a prima vista incontrare il favore anche del sistema di potere e dell’economia: infatti, per la prima volta nella storia, nel 2023, l’eolico e il solare combinati hanno aggiunto più nuova energia al mix globale di qualsiasi altra fonte. Ma, evidentemente lo sforzo non basta, in quanto il record della domanda globale di energia ha raggiunto un nuovo massimo per l’uso di carbone e petrolio, facendo registrare un record assoluto nel 2023 per le emissioni globali di anidride carbonica (CO2).

In sostanza, la domanda globale di energia ha raggiunto il livello record di sempre e, nonostante l’eolico e il solare insieme abbiano rappresentato il massimo di nuova energia il resto dell’aumento netto è arrivato dal petrolio (+39% di aumento), dal carbone (+20%), dal nucleare (+4%), mentre il gas si è stabilizzato. Se si computa anche l’effetto climalterante del metano e del flaring: il totale ha superato per la prima volta i 40 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente (GtCO2e). Il tempo sta per scadere, ma i nuovi dati per il 2023 mostrano che il mondo sta ancora andando nella direzione sbagliata, con nuovi record per le emissioni di carbone, petrolio e CO2.

Anche se l’eolico e il solare, combinati, hanno aggiunto più nuova energia al mix globale nel 2023 rispetto a qualsiasi altra fonte, il clima continua a mantenersi sotto tiro e fuori misura. Anche se, cioè, per la prima volta nella storia queste nuove forme di energia rinnovabile hanno superato ciascuno dei combustibili fossili, questi rimangono le fonti di energia dominanti del mondo.

In conclusione l’anno trascorso registra: il record del consumo energetico, quello del consumo di combustibili fossili, quello delle emissioni di CO2, quello delle energia rinnovabili. Ciò significa che, nonostante tutta questa crescita esponenziale, la rapida crescita del solare ci ha permesso di consumare più energia, piuttosto che sostituire la nostra energia più sporca (combustibili fossili). E se continua così, sembrerà molto più un’aggiunta di energia piuttosto che una transizione energetica. Non a caso l’amministratore delegato dell’Energy Institute, Nick Wayth, ha dichiarato in una conferenza stampa che “i dati potrebbero essere interpretati per suggerire che la transizione energetica globale “non è nemmeno iniziata”.

Che dire allora del rapporto tra cittadini e classi dirigenti così ampiamente messo a confronto? Non siamo ancora sul crinale di inversione: eppure i cittadini lo esigono: consumare di meno, sostituire all’efficienza la sufficienza, lasciare sottoterra petrolio gas e carbone e puntare su una riconversione della politica industriale verso l’espansione dell’eolico e del solare, mentre si diffondono le comunità energetiche. Risulta allora più chiaro come nella sconfitta degli interessi dei combustibili fossili e dell’immaginario del nucleare si muova il primo passo verso la giustizia sociale.

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Le guerre in presenza di impianti nucleari sono un nuovo rischio per la sicurezza

C’è una coincidenza non casuale tra gli Stati che si sono dotati dell’arma atomica e la presenza sul proprio territorio di reattori nucleari civili: il ciclo dell’uranio militare è integrato col funzionamento di centrali in cui la fissione è tenuta sotto controllo con le apparecchiature e i software più sofisticati per ridurre il rischio di incidenti catastrofici. Militare e civile si sono sviluppati di pari passo in tempo di pace, ma in tempi di guerra permanente, il rilancio del nucleare civile deve prendere in considerazione risvolti che già si sono rivelati inquietanti.

Nessuna delle potenze in campo nella “guerra grande” potrebbe impunemente annunciare di voler risolvere lo scontro con il ricorso all’impiego dell’ordigno nucleare. Anche se tra di loro la sola Cina esclude l’uso del “first strike” – un “primo colpo” – con un attacco preventivo e a sorpresa con l’impiego dell’atomica, è pur vero che sia in Ucraina che in Israele e Iran esistono grandi impianti nucleari civili, la cui fusione e dispersione catastrofica potrebbe essere provocata da un loro bombardamento con potenti e mirate armi convenzionali. Un first strike dissimulato, a cui seguirebbe una risposta annientatrice su scala globale: un Armadeggon imprevisto.

Ira Helfand, noto medico antinuclearista dell’Università del Massachusetts, ritiene che più volte il Pentagono abbia simulato l’uso di armi nucleari tattiche per innescare a sorpresa una guerra nucleare, che finirebbe col risultare totale e che un procedimento simile sia stato preso in conto anche dai comandi russi e dal gabinetto di guerra di Netanyahu, oltre che dall’Iran. Mai, come nella fase attuale, siamo stati vicini a questa spaventosa eventualità, ma, per buona sorte, abbiamo solo sfiorato ipotesi tanto esiziali per l’umanità.

Eppure, nella constatazione che le guerre in corso non possano finire con la vittoria assoluta di una parte e l’annientamento dell’altra, sta prendendo piede la tentazione di agitare in modo indiretto la minaccia atomica, attraverso una pressione inusitata sui reattori e gli impianti civili, portandoci, alla fine, dentro vicoli ciechi strategici, che avrebbero egualmente, come conseguenza, l’innesco di uno scambio di testate nucleari in un conflitto globale.

Ho trattato nel post precedente all’attuale la questione degli insensati attacchi – attribuiti ora all’una ora all’altra parte in conflitto – alla centrale ucraina di Zaporizhzhia, la più potente nel nostro continente. Pur non essendo più in funzione i suoi sei reattori, tutta l’enorme carica di materiale radioattivo contenuto nei noccioli e nei depositi potrebbe essere rilasciata e dispersa a seguito del lancio di potenti testate montate su droni o bombardamenti penetranti con esplosivo tradizionale.

E’ la prima volta nella storia che una guerra con armi avanzatissime si sta svolgendo in presenza di impianti e infrastrutture nucleari, ponendoci di fronte ad un nuovo tipo di rischio per la sicurezza. Nelle ultime settimane le strutture ausiliarie della centrale sono state colpite e, se anche a partire dal 13 aprile, tutti e sei i reattori erano in arresto a freddo, c’è ancora la possibilità di un grave incidente dovuto ad un sabotaggio intenzionale volto a causare un rilascio radioattivo. Questo è il grido d’allarme lanciato all’Onu dal segretario dell’Aiea Daniel Grossi.

L’analogia con Chernobyl è tutt’altro che campata in aria: anzi, date le condizioni feroci di combattimento, l’inadeguatezza dei soccorsi farebbe paradossalmente parte – da qualunque dei due confliggenti fosse innescata – di un’azione della più atroce guerra nucleare, e costituirebbe la premessa per un “first strike” dissimulato. Non accadrà, ma non viviamo in un’epoca usuale.

Anche nell’altra “guerra grande” in corso in Medio Oriente, l’attacco israeliano a Isfahan – sede di impianti nucleari iraniani – per quanto a livello dimostrativo, ma assai allusivo nel suo significato, segnala una strategia bellica che non avevamo mai messo in conto come aspetto ordinario: minacciare un incidente ad un sito nucleare, con tutto il corollario di accessori attinenti al ciclo di arricchimento del materiale fissile.

Ciò comporterebbe effetti terribili, in quanto aumenterebbe considerevolmente la probabilità di una risposta di ritorsione da parte di Teheran, che colpirebbe luoghi sensibili nel territorio israeliano, possibilmente estendendosi agli interessi americani e giordani nella regione, oltre a fornire agli ayatollah la motivazione per progredire verso lo sviluppo di bombe atomiche.

Non possiamo dimenticare che la densità energetica di cui sono dotati i reattori civili, sebbene adeguatamente moderati durante il loro funzionamento e controllati lungo il loro ciclo di vita, è di un ordine di grandezza non molto inferiore da quello delle testate nucleari e che, se venisse sprigionata simultaneamente in un’azione di guerra, innescherebbe un effetto catastrofico.

A maggior ragione, quindi, e a partire da queste realtà sotto i nostri occhi, evapora definitivamente il concetto di “guerra giusta”, dato che il suo esito concreto risulterebbe nell’annientamento non tanto del nemico, ma, anche a seguito di inevitabili ritorsioni, dell’esistenza su larga scala dell’intero vivente. Nessuno può plausibilmente trarre utilità o ottenere alcun vantaggio militare o politico da attacchi contro gli impianti nucleari: solo una de-escalation di fatto e per via diplomatica può tener testa al pericolo che incombe.

Come si giustifica allora l’invio di armi sempre più potenti e precise ai contendenti “amici” da parte di un Occidente che mantiene pressoché secretate centinaia di testate perfino a Ghedi e Aviano? E come potrebbe la Russia pretendere di riavviare per sé la centrale nucleare ucraina di Zaporizhzhia, resa insicura dalle azioni di guerra e di conquista, senza un piano di manutenzione per il 2024 e, per di più, minata dalla mancanza di acqua di raffreddamento del bacino idrico ormai esaurito posto dietro la diga di Kakhovka sfondata a colpi di mortaio?

Ali Alkis sul Bulletin of the Atomic Scientists (newsletter@thebulletin.org del 17 aprile) lamenta che l’Aiea terrà la sua Conferenza internazionale sulla sicurezza nucleare a maggio per rilanciare il “nuovo nucleare civile”, ma non dedicherà nemmeno una sessione alla protezione degli impianti nucleari nelle zone di conflitto! Non una dimenticanza, ma, temo, un’azione altamente imprevidente.

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Zaporizhzhia come obiettivo militare: qual è la situazione e cosa si rischia coi continui blackout

Viviamo nell’Antropocene: un’era recente, non ancora abbastanza assimilata nella consapevolezza comune, in cui la società umana è scossa da eventi dei quali è protagonista attiva, nonostante mettano in discussione la sua integrità, la continuità, della sua storia, se non, addirittura, la sua sopravvivenza.
L’incontrollabilità di tecnologie che, quando si scatenano, sfuggono al controllo democratico e sociale, è diventato un problema tragico della nostra era. In queste ore rimaniamo scossi dalla tragedia di Suviana, ma ad ogni imprevisto stentiamo a cercare risposta. Sembra che l’artificiale sfugga di mano all’umano.

Qui provo ad esaminare un caso particolare – utilizzando molte fonti di informazione – da Euronews ad Indipendent, ad Al Jazeera, al Guardian – in cui la follia della guerra, assieme all’insistenza a protrarla con l’invio di armi sempre più sofisticate e sempre più deflagranti, trova un punto di svolta drammatico nel bombardamento della centrale di Zaporizhzhia. Le versioni propagandistiche delle due parti in conflitto, che si accusano a vicenda del lancio di ordigni, non limitano certo il pericolo imminente di un disastro incalcolabile, tutt’altro che irripetibile.

Zaporizhzhia non è solo la centrale più potente di Europa, ma può diventare l’Hiroshima del nuovo millennio, confermando la tragica continuità tra il nucleare civile e quello militare. Il pericolo di una catastrofe si era già avvicinato un anno fa, quando il bacino della centrale idroelettrica di Kakhovka, con l’abbattimento della diga di contenimento, era sceso al livello più basso degli ultimi tre decenni, mettendo a rischio le risorse di irrigazione e acqua potabile, nonché i sistemi di raffreddamento della vicina centrale nucleare di Zaporizhzhia.

Già quell’episodio, che ancora non riguardava l’atomo, rappresentava il più grande ecocidio in Ucraina, con migliaia di specie travolte dalla breccia nella diga che, oltre a contaminare le riserve idriche, ha distrutto centinaia di specie animali e vegetali rare, oltre che ad aver costretto migliaia di persone a evacuare l’area che si trova sul suo corso a valle. La regione allagata ospitava una quantità significativa di foreste e riserve, come la Riserva della Biosfera del Mar Nero, che nutre migliaia di specie, e il deserto di Oleshky Sands, colpiti dalle inondazioni, con il rischio di estinzione globale di specie animali, fungine e vegetali, oltre che di distruzione delle residenze di uccelli migratori.

L’Ucraina ha 15 centrali nucleari e nella sua storia c’è il dramma di Chernobyl del 1986, tuttora vivido e irrisolto, ma è Zaporizhzhia ad essere focalizzata, attirando oggi l’attenzione più inquietante. Nonostante gli appelli dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, giungono quotidianamente notizie di attacchi nella regione. Intervistato da Euronews, un ex capo dell’AIEA ritiene che oggi siamo più esposti al pericolo che nel 1986. Una situazione per certi versi peggiore, perché si tratterebbe di un attacco intenzionale, provocato e calcolato dall’uomo: è infatti molto difficile proteggere una centrale nucleare se munizioni o missili colpiscono il posto sbagliato.

Già all’inizio dell’invasione le truppe russe presero il controllo della struttura di Zaporizhzhia. Tuttavia, l’impianto ha continuato ad essere gestito da lavoratori ucraini, mentre veniva ripetutamente messa fuori uso la rete elettrica nazionale, provocando blackout nella stessa centrale nucleare dove è necessaria una fornitura di energia costante per evitare il surriscaldamento dei reattori.

Dopo mesi di insicurezza, nel settembre 2022, l’ultimo reattore è stato spento. L’impianto è entrato quindi in un’altra fase operativa, meno delicata, ma non per questo meno pericolosa. “In realtà la situazione sta peggiorando – scrive il rapporto di Grossi, direttore dell’IAEA – a Zaporizhzhia è presente solo circa un quarto del personale addetto alla manutenzione, del tutto insufficiente perché le centrali nucleari hanno un sistema di conservazione regolare, ispezioni regolari e controlli di sicurezza delle autorità: il che significa che l’impianto si sta deteriorando con il passare del tempo”. Mancano i pezzi di ricambio e questo può avere conseguenze che sono imprevedibili e possono portare al rilascio di radioattività anche a reattori spenti.

Entrambi i nemici affermano di gestire l’impianto, quindi non ci si aspetterebbe che lo considerino un obiettivo militare, ma il sito in sé nell’ultimo mese sembra essere stato deliberatamente preso di mira dai bombardamenti. Per ora si tratta di bombardamenti che hanno luogo intorno all’impianto e ci sono stati uno o due casi in cui un proiettile ha colpito alcune parti del sito. I reattori hanno muri di cemento spessi un metro e rivestimento in acciaio. Quindi sono edifici molto robusti, con una protezione che dovrebbe essere sufficiente per un tipo di impatti accidentali che non sono diretti deliberatamente. Ma se lo fossero? Se, cioè fossero obbiettivi di guerra?

Il 9 marzo, l’impianto è andato in blackout per la sesta volta dall’occupazione, costringendo gli ingegneri nucleari a passare ai generatori diesel di emergenza per alimentare le apparecchiature di raffreddamento essenziali. “Ogni volta lanciamo un dado – avverte Rafael Mariano Grossi – e se permettiamo che ciò continui di volta in volta, allora un giorno, la nostra fortuna finirà”. Per questo è indispensabile una zona di sicurezza intorno alla centrale nucleare.

A fine febbraio, è stato chiuso anche il collegamento all’ultima linea elettrica di riserva, che rende ancora più fragile la situazione della sicurezza nel sito.
Rosatom, l’impresa russa che ha preso l’impianto sotto la sua giurisdizione, dichiara che la causa della disconnessione non è stata immediatamente nota, aggiungendo di essere stata informata dall’operatore di rete ucraino che i lavori sulla linea erano in corso. Una imprevidenza o una azione militare inconsulta? Qualsiasi interruzione di corrente o danni alle linee elettriche può minacciare i reattori altamente reattivi e le loro altre funzioni essenziali, che hanno bisogno di elettricità per raffreddarsi, anche quando risultano spenti.

In origine l’impianto aveva a disposizione quattro linee da 750 kV e sei linee da 330 kV per mantenere in funzione l’erogazione di energia da nucleare. Quindi non ci sono più opzioni di backup per l’alimentazione off-site e ciò significa che i sei reattori VVER-1000 V-320 raffreddati ad acqua e moderati ad acqua contenenti uranio-235, oltre al combustibile nucleare esaurito, potrebbero essere un bersaglio spaventosamente vulnerabile. Rosatom accusa Kyev per un lancio di un drone sulla cupola di un reattore e il ferimento di tre operai nella mensa dell’impianto, mentre Zelensky ha sottolineato che gli attacchi russi continuano incessanti su Zaporizhia.

Non siamo più solo all’atrocità della guerra e allo scambio di accuse tra contendenti: siamo di fronte ad una delle molte questioni esemplari ed esiziali del tempo in cui viviamo. Occorre porre fine a questo terrore e allontanare dal nostro mondo l’illusione che la parola “vittoria” abbia ancora senso quando si tratta delle emergenze dell’Antropocene. Che andrebbero affrontate con la visione che solo un sofferente papa Francesco ha saputo anticipare, in solitudine tra i leader mondiali distanti dai loro popoli.

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