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Auto elettrica, si va troppo lenti e in Italia addirittura si sta fermi

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015Negli ultimi mesi la questione del passaggio dai veicoli a propulsione tradizionale a quelli elettrici è venuta fortemente alla ribalta nel mondo. Anzi, ancor più che un tema tecnico, ha assunto la valenza economica e politica di svolta nel settore industriale più diffuso al mondo e nelle decisioni politiche per la lotta alle emissioni climalteranti e inquinanti.

Ma non tutti i Paesi e le loro politiche industriali e economiche vanno di pari passo per conquistare un primato, questa volta desiderabile se accompagnato alla diffusione delle rinnovabili e del risparmio energetico. Anzi! Se la direzione sembra chiara, è evidente che si va troppo lenti e in Italia addirittura si sta fermi.L’Occidente, con l’eccezione di Olanda e Norvegia, rischia di rimanere indietro rispetto alla Cina nel passaggio alla mobilità elettrica. Francia e Regno Unito e negli ultimi mesi l’Italia hanno annunciato di abbandonare i mezzi a benzina e gasolio, motorizzazioni ibride comprese, ma la deadline è veramente poco audace: al 2040.

Il ruolo della Cina

Questo Paese appare preoccupato dei disastrosi livelli di inquinamento delle proprie città, ma ne fa una ragione per conquistare il primato tecnologico in una serie di settori strategici. Così ha imposto per legge una quota crescente di auto elettriche o ibride e la proibizione di vendite di vetture a propulsione tradizionale, tra il 2030 e il 2035. Data la vastità e la popolazione, questo accelera l’introduzione dell’elettrico in tutte le case esportatrici e la filiera di produzione di pile nella stessa Cina (oggi primo produttore mondiale di vetture ecologiche e di batterie per le stesse). Non è un caso che Volvo, che nei giorni scorsi abbia annunciato che dal 2019 ogni modello commercializzato avrà un motore elettrico, sia controllata dal gruppo cinese Geely.

Le stesse norme tecniche tendono a diventare gli standard del settore, posizione che una volta competeva agli Stati Uniti, che, nella miopia di Trump, reagiscono imponendo alti dazi ai prodotti asiatici. Non si può sottovalutare che il paese nel corso del 2016 ha investito nel settore delle energie rinnovabili circa 120 miliardi di dollari, più o meno la metà del totale mondiale per lo stesso anno.

Il ruolo dell’Unione Europea

Apparentemente l’Unione Europea sembra all’avanguardia nella lotta al cambiamento climatico e ambientale e certamente il suo ruolo è stato molto importante nel perfezionare gli accordi di Parigi sul clima. Ma quando veniamo poi agli atti concreti sul piano operativo, nascono i problemi.

L’8 novembre la Commissione ha pubblicato delle proposte legislative per abbassare le emissioni inquinanti delle autovetture, proponendo di ridurre del 30% le emissioni di anidride carbonica nel 2030 in rapporto al livello fissato per il 2021, con un obiettivo intermedio del 15% nel 2025. (Si ricordi che l’obiettivo precedentemente approvato e perseguito era del -20% al 2020 rispetto al 1995) e, peraltro, senza fissare quote obbligatorie di auto a emissioni nulle. Eppure un documento interno a Volkswagen (VW) a cui Le Monde ha avuto accesso dimostra che il produttore tedesco dopo lo scandalo “dieselgate” si è preparato e detto in grado di produrre il 22% di veicoli a emissioni zero dal 2025. La stessa casa automobilistica tedesca è ora sotto accusa insieme a Bmw e Daimler per lo scandalo delle scimmie e delle cavie umane usate nei test per provare gli effetti dei gas di scarico.

Che l’Unione Europea non mostri in generale un grande entusiasmo per i temi ambientali e che essa sia nei fatti divorata dalle lobby lo si è visto in queste settimane anche da un altro episodio. Sei tra le principali utility europee, tra cui addirittura la nostra Enel, hanno chiesto alla Commissione Ue di alzare la quota di quelle verdi con le quali coprire i fabbisogni di energia entro il 2030. La Commissione ha in effetti stabilito l’asticella, per quella data, al 27% del totale, sotto evidentemente la pressione di grandi strutture, mentre le sei aziende citate chiedono almeno il 35% e anche che si cambi il regime degli incentivi.

E l’Italia?

Solo lo 0,1% delle auto immatricolate in Italia nel 2016 sono elettriche. Parliamo di 1.403 veicoli venduti in un anno, da confrontare con il milione abbondante di mezzi diesel messi sulle strade e con i circa 600mila nuovi veicoli a benzina.

Pietro Menga, presidente di Cives (Commissione Italiana Veicoli Elettrici e Stradali a Batteria, Ibridi e a Celle Combustibili) osserva che nella SEN “si parla della mobilità elettrica, ma anche lì manca qualunque riferimento a obiettivi quantitativi o temporali” e ci sono fondi allocati che non vengono spesi”. R’ risaputo che a inizio 2017 la Corte dei Conti aveva bacchettato il Governo: a fine 2016 infatti erano stati spesi solo 6mila euro su 50 milioni disponibili.

Ma mentre tutti i principali produttori di auto del mondo stanno cercando di investire massicciamente nel settore dell’auto elettrica e in quello dell’auto a guida autonoma, la FCA appare di gran lunga quella che ha fatto meno sforzi in direzione delle novità e quindi essa si troverà in un futuro prossimo, inevitabilmente, senza grandi prospettive strategiche. Forse in seguito alla malaugurata decisione – della proprietà e dei suoi supermanager tanto osannati – di liquidare la sua partecipazione nell’auto, oltre che anche nelle attività di tipo più industriale concentrate nella CNH Industrial. E qui torniamo ancora una volta alla Cina. A quanto afferma Comito “un’ipotesi plausibile in gioco vede la Jeep ceduta agli statunitensi e la vecchia Fiat proprio ai cinesi, mentre una serie di attività al contorno, dalla Magneti Marelli alla Comau, due società in cui si concentrano competenze tecnologiche molto importanti nel nostro paese, appaiono in bilico e dal destino incerto”. Mala tempora currunt, almeno sull’auto italiana!

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Auto elettriche e energie rinnovabili, quanto inquinamento ci evitano davvero

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015In media in Italia dai veicoli privati vengono emessi 110 grammi per chilometro per un totale di 55 milioni di tonnellate di CO2 nel 2016. Le emissioni (in questo caso calcolate a valle degli scappamenti, escludendo cioè il ciclo che porta fino alla pompa del carburante) variano da regione a regione, con punte massime in Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta e minime in Sicilia e Campania. Siamo la terza nazione europea in ordine di inquinamento dell’atmosfera (fonte: Eurostat). Un bel problema, naturalmente trascurato alle fatidiche scadenze elettorali, proprio perché la mobilità è tra i problemi meno facilmente risolvibili sotto il profilo ambientale e ormai i costi di riparazione in salute e natura superano l’effetto della crescita economica dovuta alla produzione delle quattro ruote.

Sei almeno sono i complessi fattori da affrontare con estrema decisione: la distribuzione del combustibile, l’entità e la tipologia delle sue emissioni, l’accumulo mobile di energia la resa dei motori, l’efficienza complessiva dell’apparecchiatura mobile e il suo peso per persona trasportata: attorno a questi nodi e all’infrastruttura spaziale e digitale dedicata alla mobilità, evolve e muta in rapidità e su molteplici linee il più grande sistema industriale creato nella storia umana. Molti sono i segnali di trasformazione: in questo post ci soffermiamo sui primi tre aspetti.

1. Le compagnie petrolifere stanno abbandonando la rete

E lanciano piani per strutture di ricarica elettrica e, in prospettiva ancora incerta, rifornimento di idrogeno. In Italia negli ultimi 30 anni ha chiuso il 40% degli impianti e l’erogato medio di carburanti è calato del 20% nella rete stradale ed è letteralmente crollato del 58% lungo le autostrade. Minori consumi al chilometro, ma anche crescente diffusione di componenti elettriche di trazione.

L’offerta nelle stazioni di servizio si differenzia sempre di più in previsione delle nuove tecnologie per l’auto: oltre all’obbligo già in corso di un erogatore di gas in ogni stazione, si stanno creando sinergie fra erogatori di carburanti e infrastrutture di ricarica elettrica. Le colonnine si moltiplicano presso i grandi brand, mentre il processo di evoluzione della vecchia rete viene accelerato anche per per le nuove norme che prevedono la chiusura degli impianti meno sicuri.

2 Per le emissioni dell’apparato motore

Il Joint Research Centre dell’UE assieme ad EUCAR (The European Council for Automotive R&D) e CONCAWE, a conclusione di una complessa elaborazione che prende in considerazione tutto il ciclo di emissioni dal pozzo alle ruote (from wells to wheels), ha approntato la seguente tabella:

Auto Elettriche

I dati riportati confrontano tra loro il numero di auto a combustione sostituibili da altrettanti veicoli elettrici in modo da ottenere lo stesso risultato si riduzione di CO2 che si avrebbe modificando 1 milione di auto a metano con altrettanti motori a gas alimentati con una miscela al 10% di biometano (si tratta di un suggerimento fornito dall’Ue già per il 2020, che darebbe luogo ad un abbattimento di 11 tonnellate di CO2 per ogni km compiuto dall’intera flotta di 1 milione di auto a gas).

Come si vede, per ottenere lo stesso obbiettivo di riduzione (11 tonnellate), basterebbe far circolare auto elettriche sostitutive, con vantaggi più netti nel caso dell’alimentazione a benzina e, a seguire, rimarchevoli nel caso di quella a metano e un po’ meno, ma sempre consistenti, su quella a gasolio. In conclusione, dai calcoli eseguiti per limitare le emissioni di CO2, risulta chiaro come siano vantaggiosi gli impieghi della miscela gas-biometano sul metano, ma, soprattutto, sia benefico il ricorso al propulsore elettrico rispetto al funzionamento di motori a combustione interna alimentati da fossili.

Parrebbe insomma razionale da subito sfruttare contestualmente tutte le opzioni disponibili: dai miglioramenti già in uso per le tecnologie convenzionali (biometano e ibrido), fino all’introduzione immediata di quelle innovative (plug-in, totalmente elettrico, fuel cell a idrogeno) adottando politiche più decise a favore di queste ultime, che maggiormente necessitano di stimoli e sostegno.

3. Favorire la produzione energetica da fonti rinnovabili

Per completezza, occorre rimarcare che solo favorendo la crescita accelerata della produzione energetica con fonti rinnovabili è possibile trarre un bilancio ottimale del ricorso all’elettrico nella mobilità. In una ricerca pubblicata dall’Economist si chiarisce come le auto elettriche siano più pulite di quelle che si basano su motori a combustione interna quando anche la potenza utilizzata per caricarle è pulita. Nel dicembre scorso, con il Clean Energy Package, l’Ue finalmente ha cominciato a favorire con la generazione distribuita l’autoproduzione e le comunità energetiche, in concomitanza con la fase di decollo della mobilità elettrica. I veicoli elettrici funzioneranno così anche da scambiatori bilaterali dell’energia con la rete, e sarà realmente praticabile l’eliminazione per il 2040 di tutti i veicoli alimentati da combustibili fossili.

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1° Forum REGREENERATION – Roma, 17 gennaio 2018

Rigenerare come valore sostenibile crea valore immobiliare

Roma 17 gennaio 2018 ore 9,00 – 16,30
Hotel Nazionale – Sala Capranichetta

Organizza Tabula Rasa, agenzia green marketing e comunicazione ambientale in Collaborazione con Energia Felice, associazione di promozione sociale
Partner tecnico-scientifico NOMISMA

L’iniziativa segna l’apertura di “Homo Condòmini Tour 2018” il Roadshow 2018 per l’efficienza  energetica degli edifici e collegato ad Habitami, campagna pubblica riqualificazione energetica edifici.

Mettere attorno a un tavolo Istituzioni, Stakeholder, Uffici Studi,  Associazioni immobiliari e Associazioni  dei consumatori per individuare insieme le forme e gli strumenti più efficaci per far comprendere ai cittadini  come la riqualificazione energetica faccia bene all’ambiente, migliori il conto di gestione energetica e accresca  sia il valore degli edifici che degli immobili oltre a generare comfort abitativo.

Rigenerare come valore sostenibile è rigenerare come valore immobiliare  perché l’efficienza energetica non è un concetto astratto.

SCARICA IL PROGRAMMA IN PDF (178 Kb) >>>

 

PARTECIPANO

Sessione Ambiente e Clima
Stefano CASERINI – Mitigazione dei cambiamenti climatici Politecnico di Milano

Sessione Politica e Ambiente
On Ermete REALACCI – Presidente VIII Commissione Camera dei Deputati
On Serena Pellegrino – VicePresidente VIII Commissione Camera dei Deputati
Sen Gianni GIROTTO – X Commissione Senato
Ivan STOMEO – delegato ANCI Politica in materia di Energia

Sessione Efficienza Energetica
Federico TESTA – Presidente ENEA
Davide CHIARONI – ViceDirettore Energy & Strategy Group Politecnico Milano
Alessandro NOTARGIOVANNI – Economista dell’Energia
Giuliano DALL’Ò – Presidente Green Building Council Italia
Alessandro BALDUCCI – Presidente Urbanit

Sessione Real Estate
Paolo CRISAFI – Dir. gen. Assoimmobiliare
Maurizio PEZZETTA – VicePresidente Vicario FIMAA
Fabrizio SEGALERBA – Seg. Nazionale FIAIP
Paolo BELLINI – Presidente ANAMA
Rossana ZACCARIA – Presidente Legacoop Abitanti
Francesco BURRELLI – Presidente ANACI
Vittorio FUSCO – Presidente ANAPI

Sessione Cittadini Consumatori
Luisa CRISIGIOVANNI – Seg. gen Altroconsumo
Emilio VIAFORA – Presidente Federconsumatori
Francesco LUONGO – Presidente Movimento Difesa del Cittadino
Carlo DE MASI – Presidente Adiconsum

MODERANO
Marco MARCATILI – Economista e Responsabile Sviluppo di Nomisma
Giovanni PIVETTA – Responsabile Habitami e Homo Condòmini Tour 2018

SALUTI
Mario AGOSTINELLI – Presidente Energia Felice
Cristiana CERUTI – Ceo Tabula Rasa

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Gas fossile: il nemico armato del clima

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015In una conversazione privata a conclusione della Cop 21, un dirigente Eni ha previsto in mia presenza che il vero vincitore della conferenza di Parigi sarebbe stato il gas: completamente compatibile con il sistema delle grandi infrastrutture, disponibile in grandi quantità con sempre nuove tecnologie, soggetto alle convenienze geopolitiche delle grandi potenze e alle attenzioni politiche dei produttori di armi, meno osteggiato del petrolio e del carbone per i suoi effetti sulle emissioni climalteranti. Insomma, un utile compromesso per gli enormi interessi minacciati dalle rinnovabili e per mascherare l’urgenza di un cambio radicale di paradigma energetico: la decarbonizzazione innanzitutto.

A distanza di un anno e mezzo, quella previsione è più che confermata e il ritardo nel contenere gli aumenti di temperatura è reso più drammatico, pressoché inarrivabile, ma non esecrato quanto occorrerebbe per l’indifferenza dell’opinione pubblica. Il gas irragionevolmente si impone come la soluzione competitiva che l’economia mondiale (con l’eccezione parziale di Cina, India e Francia) e le multinazionali industriali e dei servizi stanno scegliendo per esternalizzare i costi della catastrofe della biosfera e abbindolare le popolazioni con il mito del ritorno alla crescita, accompagnata dalla riduzione delle tariffe e delle tasse sulle persone fisiche (il prezzo del gas viene tenuto basso, la sua diffusione non è accompagnata da misure di prevenzione private e pubbliche degli effetti nocivi e i danni climatici si abbattono non in generale, ma, per ora, prevalentemente sugli sfortunati più direttamente colpiti).

Dopo gli accordi per non andare oltre l’aumento di 1,5° C, solo il gas – naturale, liquefatto, da scisto, da sabbie bituminose – avanza, in un’autentica guerra commerciale e militare, per prendere tempo fino al 2023, quando i firmatari di Parigi dovranno sottostare a vincoli e verifiche più stringenti. E intanto, a tutto gas!

Se disegnassimo sulle carte geografiche i progetti di gasdotti e le rotte delle navi metaniere avremmo lo stesso effetto delle avanzate delle divisioni in tempo di guerra. I progetti mastodontici fioccano e l’Italia è tra i protagonisti sul fronte della messa in opera e della fornitura di sbocchi. Qualsiasi mare si debba valicare, eccoci pronti: Adriatico (Tap), Mar Nero (Blue Stream), Mar Caspio (Trans Caspian) per contendere alla Polonia, alla Germania e al centro del continente l’occasione dell’ “hub” del gas fossile europeo.

Ma c’è un altro fronte della guerra in corso che complica le strategie. Il gas liquefatto in partenza e poi rigassificato in arrivo, può viaggiare via mare, essere immesso in cisterne a bassa temperatura dai giacimenti naturali del Qatar, come dai giacimenti di sisto e dalle sabbie bituminose, dopo essere stato trasportato sulle coste americane dai gasdotti cui Trump oggi dà il via libera.

“È l’inizio della guerra dei prezzi tra il gasolio americano e il gas di condotta che viene da oriente”, ha dichiarato Thierry Bros, analista di Société générale, citato dal Wsj. Gli analisti dicono che la Russia potrebbe tagliare i prezzi che addebita ai propri clienti europei per cercare di scacciare i nuovi concorrenti statunitensi. Anche se più caro, molti in Europa vedono l’ingresso del gas liquido degli Stati Uniti sul mercato come parte di un più ampio sforzo geopolitico per sfidare il dominio russo delle forniture e mettere in crisi il rapporto Putin-Merkel per la costruzione della condotta North Stream 2 nel Baltico.

E infatti lo scatto americano non si è fatto attendere. A marzo, erano già stati consegnati i primi carichi di shale gas al Brasile, con successive spedizioni verso l’Asia. Il 21 aprile il Wall Street Journal aveva informato che una nave metaniera portava per la prima volta gas liquido americano in Europa. Poi le notizie si sono intensificate: il Guardian informa che 27.500 metri cubi di shale gas sono arrivati in Norvegia.

Trump, nel suo discorso a Varsavia ha voluto mandare un chiaro messaggio alla Russia. “Siamo seduti su una grande quantità di energia fossile ed ora siamo esportatori di energia, quindi, se qualcuno di voi ha bisogno di energia, basta che ci dia una telefonata”, così, secondo la trascrizione del suo discorso diffuso dalla Casa Bianca.

Il terminal nel Mar Baltico di Swnoujscie, dove la Polonia già accoglie Gnl dal Qatar, sarà ampliato e l’allestimento di terminali per il gas americano nei Paesi Baltici sono la risposta al sollecito, mentre si affaccia in concorrenza anche l’Egitto dopo la scoperta da parte dell’Eni di notevoli giacimenti nel Mediterraneo. Così, tutti corrono – un giorno sì e un giorno no – ai terminali del Golfo del Messico, alla corte del Qatar, alle stanze sontuose degli sceicchi arabi o di Al Sisi, dimenticandosi ogni volta di Regeni.

C’è infine la schizofrenia statunitense verso i produttori di gas del Golfo. Dopo l’anatema di Trump e dell’Arabia Saudita verso il Qatar, tre giganti energetici (Exxon, Bp e Total) dichiarano il loro sostegno al piano di Doha di aumentare del 30% la produzione entro il 2024. E Washington diventa mediatrice di una lotta di puri interessi, tutti con la puzza del gas, altro che inebriati da essenze religiose.

D’altra parte, come ha detto alla Reuters il funzionario di una delle compagnie coinvolte: “C’è solo una politica qui: si devono fare scelte puramente economiche. Essere qatariota in Qatar e emiratino negli Emirati”. Non c’è solo Trump a sparare sul clima.

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Tutti zitti sul nucleare: perché?

dal blog di Mario Agostinelli

logo-il fatto quotidiano 2015I loquacissimi e filonucleari Chicco Testa, Franco Battaglia e via discorrendo si sono presi le vacanze con molto anticipo. Nemmeno più un cenno ai mirabolanti benefici futuri dell’atomo, dopo i disastri economici che colpiscono Toshiba e Westinghouse; nemmeno una nota sulle decisioni di Areva e Edf di chiusura precauzionale di reattori; nulla sulla California che ferma la sua ultima centrale. E che silenzio tombale sul deposito nazionale delle scorie, che adesso non balla più solo tra Saluggia, Sardegna e Scanzano, ma fa capolino addirittura a Ispra (Varese) in un capannone per ora inaugurato solo per artisti temerari.

Mentre si avvia il dibattito sulla Nuova strategia nazionale (Sen) confezionata dal ministro Calenda, capace di entusiasmare tutti i fan delle fonti fossili e di rimandare ad altri tempi l’introduzione di un paradigma energetico finalmente innovativo, tutto si concentra sulle virtù del gas e dei gasdotti che sbarcherebbero sulle nostre coste. Direi che – freudianamente – le virtù taumaturgiche dell’atomo, troppo azzardate e impopolari da riproporre per il futuro dell’elettricità, vengono trasferite al gas, combustibile meno gravido di Co2, ma pur sempre evocativo – con le sue grandi centrali e migliaia di km di tubi – di una crescita illusoria, di una esuberanza e di uno spreco di energia.

Tutto, purché si stia lontano dalle fonti naturali, dall’efficienza, dalle reti digitali e dagli impianti di immagazzinamento di energia elettrica. E’ il modello dei grandi impianti che continua ad entusiasmare ministri ed esperti oggi più timidi e silenti. Anche questa è la ragione per cui la crisi del nucleare francese non trova spazio sulla stampa, né commenti all’altezza della gravità dei fatti.

Proprio in questo inizio di estate il Coordinamento antinucleare “Sud-Est France” ha ripubblicato il processo del 30 agosto 2016 a Parigi in cui aveva difeso il sito del blogger Mediapart che attaccava Luc Oursel (ora morto di cancro, era un ingegnere e caposquadra nelle miniere di uranio di Areva in Gabon), presentando una denuncia contro l’attività estrattiva di uranio in condizioni di rischio altissimo.

Nel testo ripubblicato, Areva viene accusata di aver firmato un accordo di “sponsorizzazione con la morte nucleare”; di svolgere attività culturali locali per i bambini in modo da far loro sottovalutare i pericoli di radiazione; di aver sovvenzionato la grande mostra sull’Egitto ad Avignone con i ricavi della vendita di combustibile Mox alla centrale di Fukushima. Queste accuse si aggiungono a difficoltà attuali di bilancio per Areva, a spese pazzesche per il progetto di fusione Iter, ai difetti del contenitore degli Epr in costruzione. Il nucleare zoppica davvero. E non solo in Francia.

In questi giorni, dopo la decisione Svizzera di non costruire nuove centrali nucleari, dall’altra parte dell’emisfero, in California, si sta prendendo una decisione determinante con conseguenze di vasta portata: Pacific Gas e Electric co hanno annunciato di non rinnovare la licenza per i due reattori presso la centrale nucleare di Diablo Canyon che chiuderà nel 2025, terminando un tumultuoso rapporto durato 31 anni con la popolazione e il governo locale e con una perdita economica annuale di circa un miliardo di dollari.

La chiusura fa parte di un accordo con le organizzazioni del lavoro e dell’ambiente in cui la multiutility accetta di aumentare gli investimenti in efficienza energetica, energia rinnovabile e immagazzinamento elettrico per compensare la potenza che non sarà più prodotta dalla centrale nucleare. Canyon Diablo è l’ultima centrale nucleare operante nello Stato, dopo l’arresto nel 2012 della stazione di generazione nucleare di San Onofre, a sud di San Clemente.

Il presidente di Pg&E Tony Earley ha dichiarato: “Il paesaggio energetico della California sta cambiando profondamente con l’efficienza energetica, la rinnovabilità e l’immagazzinamento che sono essenziali per la politica energetica dello Stato. Mentre compiamo questa transizione, la produzione completa di Diablo Canyon non sarà più richiesta fino a esaurirsi”. Diablo Canyon impiega quasi 1.500 lavoratori e contribuisce con più di un miliardo di dollari all’economia locale. È il più grande datore di lavoro privato della contea di San Luis Obispo, ed elargisce un salario medio annuo di 157mila dollari.

Si tratta di un accordo storico che definisce una data certa per la fine dell’energia nucleare in California e assicura il rimpiazzo con il risparmio, la sicurezza, il costo competitivo dell’energia rinnovabile, l’efficienza energetica e l’immagazzinamento di energia.

L’accordo è anche condizionato dall’approvazione da parte della multiutility pubblica statale dei programmi di Pg&E per la sostituzione della potenza di Diablo Canyon e delle altre grandi centrali con risorse senza gas a effetto serra. In definitiva, l’efficienza energetica e l’energia rinnovabile dal vento e dal sole possono sostituire gli impianti nucleari e a combustibile fossile.

Inoltre, la riconversione di tutti gli occupati sulle nuove tecnologie – ha detto un sindacalista locale – assicura “che i posti di lavoro della classe media siano una parte centrale dell’economia emergente pulita e rinnovabile“. Piacerebbe sentire anche in riva ai nostri mari discorsi di questo tono nell’estate assolata in cui il clima fa sentire i suoi morsi.

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