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Chi non vuole il fotovoltaico e perché

A cura di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

È davvero straordinario quanto successo nel nostro Paese in materia di energia in questi mesi. Nessun altro Paese sarebbe stato in grado di redarre una legge per recepire una Direttiva Europea che ha il solo scopo di favorire lo sviluppo delle energie rinnovabili, bloccandone la crescita. Col Decreto del 3 marzo scorso, il ministro Romani è entrato a gamba tesa sulle società del settore in maniera brutale: su un campo di calcio sarebbe stato espulso, ma tutto è consentito dentro l’agone politico italiano ai rappresentanti delle lobbies per cui presta la sua opera il Cavaliere. Il Decreto era stato preceduto da una campagna stampa che da più di un anno si accanisce sulle energie pulite. Una propaganda che oggi si concretizza nell’allestimento puntiglioso da parte del Governo di un percorso a ostacoli nei confronti dell’espansione delle fonti naturali. A vantaggio di una stabilizzazione dell’impiego delle fonti fossili e del rilancio del nucleare.

Confindustria ha così lanciato un fuoco di sbarramento, accusando le imprese fotovoltaiche di desiderare il metodo tedesco ma con incentivi all’italiana e insinuando che volessero “nascondere l’interesse a garantirsi inaccettabili rendite sulle spalle dei cittadini e dell’industria”. Detto dallo staff della Marcegaglia, che il 21 febbraio 2011 ha inaugurato un impianto di ben 3 MW a Taranto sui suoi stabilimenti – assicurandosi così per vent’anni con il vecchio conto energia quelle che definisce ora “inaccettabili rendite” – fa una certa impressione! Anche Enel ha perorato la causa per la riduzione degli incentivi, scandalizzandosi per gli oneri in bolletta, ma ignorando deliberatamente che gli incentivi per le fonti rinnovabili pesano per meno della metà del totale degli oneri di sistema che compongono la bolletta elettrica: nel 2010 circa 2,7 miliardi alle rinnovabili su un totale di oltre 5,8 miliardi di euro, con il povero fotovoltaico a pesare per 826 milioni. Perché Confindustria ed Enel non puntano invece il dito contro un miliardo di euro di IVA che in maniera del tutto scorretta lo Stato incamera sugli oneri? Nessuno ricorda poi che ogni anno milioni di euro li paghiamo per il vecchio nucleare (285 milioni nel solo 2010: più del costo del fotovoltaico nel 2009) e che si sono versati 1,2 miliardi di euro per il noto CIP6 che, seppur in esaurimento, ancora nel 2010 incentivava gli scarti di raffinerie.

Confartigianato ha spiegato che “gli incentivi alle rinnovabili hanno fatto nascere 85.000 imprese e 150.000 posti di lavoro, a differenza di altre forme di agevolazione ben più costose che di fatto si traducono in meri sussidi senza generare né sviluppo né occupazione”. Prendiamo ad esempio i 3,3 miliardi l’anno di minor gettito nelle casse dello Stato dovute ad agevolazioni tariffarie su energia e carburanti. Di queste, 1.6 miliardi sono per il trasporto aereo, 817 milioni per l’agricoltura, 492 milioni per il trasporto marittimo. Oppure consideriamo le industrie energivore che non pagano accise sull’energia per 241 milioni di euro l’anno (e si tratta delle stesse industrie che accusano il fotovoltaico per i suoi incentivi!).

Ma c’è un ulteriore motivo per cui il fotovoltaico vede una dura opposizione, in particolare da parte del mondo dei produttori di energia elettrica (Assoelettrica): il suo effetto sul mercato elettrico, perché si comincia ad intuire che questa fonte riduce il prezzo dell’energia elettrica. Pochi italiani sanno che con la fine del monopolio statale e la trasformazione di Enel in una società per azioni, i produttori di energia si sono moltiplicati e per definire il prezzo all’ingrosso dell’energia elettrica è stata creata una Borsa elettrica, dove vengono scambiate quantità stabilite di energia e vengono definiti i programmi di immissione e di prelievo di elettricità della Rete di Trasmissione Nazionale, gestita da Terna. Il Gestore del Mercato Elettrico (GME) riceve le offerte, ora per ora, fino alla saturazione del fabbisogno previsto per il giorno seguente. Per ogni ora del giorno però, l’energia elettrica viene acquistata in blocco al prezzo più alto offerto in quell’ora. Ciò significa che chi ha “piazzato” 100 MWh prodotti col carbone (la fonte fossile meno costosa) riceve lo stesso prezzo (al MWh) di chi ha visto accogliere la propria offerta per una quantità pari a 10 MWh prodotta con un turbogas a costi molto superiori. Nelle ore di punta sono gli impianti più flessibili e più costosi (come i turbogas) a dover essere attivati e ad alzare i prezzi. A meno che ci sia disponibile una fonte calmierante. Ora, siccome il fotovoltaico funziona negli orari di punta ed ha un costo di produzione “marginale” (di esercizio) molto basso, entra in concorrenza con queste fonti fossili più costose, abbassando il prezzo orario e modificando così la formazione dei prezzi. Così, volumi crescenti di energia a costo marginale trascurabile (eolica e solare) spostano la curva di offerta e provocano una riduzione del prezzo di equilibrio. Francesco Meneguzzo di ASPO Italia stima che 1.000 MW di solare fotovoltaico sono in grado di far risparmiare 500 milioni di euro in bolletta, ovvero di pareggiare il relativo costo attuale di incentivazione (pari a circa 450 milioni), così demonizzato da Romani, Confindustria, Enel e compagnia. Il che significherebbe che il fotovoltaico, anche con il vecchio conto energia, si ripaga da sé e in più produce lavoro e fatturato (valutato dal Politecnico di Milano in 7,6 miliardi di euro nel 2010).

Un governo che pensa ai propri cittadini saprebbe da che parte stare. Ma è lo stesso governo che si è prefisso di far saltare il referendum contro il nucleare e di ammazzare le rinnovabili.

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Referendum del 12 e 13 giugno

Intervista a Mario Agostinelli apparsa su Zero Emission

Domenica 12 e lunedì 13 giugno sono date fondamentali per il futuro del nostro paese, da annotare bene in agenda. Perciò, si spera che all’invito di andare al mare gli italiani rispondano esercitando il proprio diritto ad esprimersi su questioni cruciali come la gestione dell’acqua e l’energia nucleare

Sì all’acqua pubblica, no al nucleare e al legittimo impedimento. Ecco, in sintesi, le questioni sulle quali sono chiamati ad esprimersi i cittadini italiani ai referendum di domenica 12 e lunedì 13 giugno. Tematiche che per quanto possano apparire eterogenee, hanno invece in comune la necessità di riportare al centro del dibattito politico il “bene comune” e gli interessi dei cittadini italiani al posto di quelli di pochi, o peggio, di uno solo. I referendum sull’acqua e sul nucleare forniscono inoltre a noi tutti l’occasione di “ridare supremazia alla vita sull’economia” e “consentono alla società di ristabilire l’obiettivo primario della sopravvivenza della specie umana attraverso la conservazione di un rapporto con la natura”. Lo spiega a zeroEmission Mario Agostinelli, ex consigliere regionale lombardo, un passato da ricercatore chimico-fisico presso l’Enea e l’Ispra prima di ricoprire la carica di segretario generale della Cgil Lombardia, oggi portavoce del Comitato Vota Sì per fermare il nucleare in Lombardia e membro della presidenza del Comitato nazionale, impegnato come al referendum del 1987 per far passare il ‘no al nucleare’, ma questa volta con la ferma intenzione di ricacciare indietro definitivamente le tentazioni nucleariste di questo e dei futuri Governi.

Agostinelli, perché è importante andare a votare ai referendum del 12 e del 13 giugno?

Perché si tratta di un’occasione straordinaria per ridare supremazia alla vita sull’economia e permettere alla società, dopo la sbornia liberista che dura ormai da tanto, troppo tempo, di ritrovare finalmente un rapporto con la natura ristabilendo come obiettivo primario il recupero di uno stile di vita in armonia con i tempi biologici.

Come possono favorire i referendum il raggiungimento di questi obiettivi?

Ferma restando anche l’importanza della consultazione sul legittimo impedimento, in questo senso assumono particolare rilievo i due referendum per l’acqua pubblica e contro il nucleare. Il primo riaffida infatti alle istituzioni, che fanno capo ai cittadini, il governo di un bene comune che non può dipendere dal mercato. Con i due quesiti si punta a definire in maniera inequivocabile e irreversibile il carattere non commerciale, non economico, e quindi l’aspetto di proprietà comune dell’acqua, anche come bene da tramandare alle generazioni future. Il referendum contro l’energia nucleare, invece, abroga tutte le disposizioni, approvate tra l’altro senza nemmeno un dibattito pubblico e imposte al Parlamento attraverso il voto di fiducia, che permettono la produzione di energia da processi nucleari nonché lo stoccaggio delle scorie radioattive.

La catastrofe nucleare di Fukushima sta avendo un grande impatto sull’opinione pubblica mondiale. Ha fatto rinascere tutti i dubbi sulla sicurezza di questa tecnologia. Tanto da indurre molti governi, a partire dalla Germania, a un ripensamento sullo spazio da destinare all’atomo nei programmi energetici. Persino il Governo italiano ha detto che è necessaria una ‘pausa di riflessione’ sul piano nucleare ed ha approvato una moratoria di un anno. Come interpreta questa mossa?

E’ un passo puramente tattico. Il suo obiettivo è, per così dire, far passare la nottata. Il Governo non ha nessuna intenzione di fare dietrofront sull’atomo. Sono in gioco importanti interessi economici. Il messaggio che si vuole far passare è che non valgono le decisioni prese sull’onda dell’emotività. Non c’è dubbio che il Governo tornerà al nucleare quando sarà passata l’emergenza nucleare di Fukushima. Ma intanto la cosa più importante è svuotare di significato il referendum. In questo senso, la moratoria è una mossa insidiosa che serve a togliere peso alla decisione dei cittadini che, si dirà, è stata presa sotto l’influenza della tragedia giapponese.

Anche questa volta, per una triste coincidenza, il referendum avrà luogo in seguito a una catastrofe nucleare di dimensioni planetarie. Nel 1987 a poco più di un anno dal disastro di Chernobyl, questa volta a tre mesi dal dramma di Fukushima. Già nel primo caso i cittadini italiani hanno già fatto sapere cosa pensano dell’atomo, cosa significherebbe ora una sua nuova bocciatura?

Il messaggio sarebbe chiarissimo: nessuna possibilità di ritorno del nucleare nel nostro paese, tranne al massimo nei settori della ricerca. Ed è questo quello che più teme il Governo, che invece ha puntato molto sull’atomo e sul quale ha incentrato gran parte dei suoi interessi economici, non certo del paese.

Rispetto a Chernobyl, qual è la lezione che dobbiamo imparare da Fukushima?

L’elemento nuovo è un ribaltamento completo di posizione: lo dimostra la linea che stanno adottando tutti i Governi che hanno a che fare con il nucleare, in questo senso più sfortunati di noi che al momento non abbiamo questo problema: cioè riuscire a spiegare il problema posto dall’incidente di Fukushima, che non lo dimentichiamo è avvenuto nel paese più avanzato tecnologicamente al mondo. Il che impone di considerare il nucleare sotto il suo aspetto più caratteristico: cioè che esiste qualcosa di intrinseco, che fa sì che l’incidente sia un elemento fisiologico, non patologico, a questa tecnologica.

Vuol dire che l’incidente fa parte della natura del nucleare?

In realtà il reattore nucleare è lui stesso un incidente latente, o meglio, un incidente in corso che viene governato, moderato con mille accorgimenti, tenuto sotto controllo dai dispositivi di sicurezza, che normalmente si estrinseca lentamente nella durata di vita di una centrale, ma che in caso di errore umano o di un cataclisma come lo tsunami giapponese può sprigionare in pochi, brevissimi istanti tutto il suo potenziale distruttivo, danno luogo a una catastrofe il cui impatto non è assolutamente paragonabile a nessun altra forma di inquinamento poiché le sostanze sprigionate hanno un carattere assolutamente estrinseco e incompatibile alla vita sulla terra, che la natura stessa non riesce assolutamente a disperdere e i cui effetti risultano persistenti nell’arco di migliaia di anni.

Ma perché allora si continua a correre questo rischio?

In realtà il nucleare favorisce una sorta di continuità con il modello energetico oggi predominante in quanto risponde alle stesse dinamiche geopolitiche (presidiare con gli eserciti le miniere di uranio non è poi molto diverso da farlo per i giacimenti di petrolio) ma consente anche l’utilizzo delle stesse tecnologie. Che si utilizzi petrolio, gas, carbone o uranio l’obiettivo è lo stesso: produrre calore per fare bollire l’acqua in un pentolone, il cui vapore sarà poi utilizzato per fare girare una turbina elettrica. Questa continuità conviene dunque ai grandi gruppi energetici. Peccato che non si possa dire la stessa cosa per i cittadini. Basti pensare che oggi per realizzare 1,6 GW ci vorrebbero 8 miliardi, è una stima di Moody’s. Ma i costi sono in costante crescita. In Italia c’è poi l’aggravante dell’incapacità da parte del Governo di una visione di lungo termine. Il passaggio alle energie rinnovabili comporterebbe invece l’abbandono di un sistema centralizzato a favore di uno decentrato: una vera e propria rivoluzione in cui la generazione di energia distribuita oltre a togliere il controllo della produzione di energia dalle mani di pochi, presenterebbe anche anche un altro inconveniente per i fautori dello status quo: richiederebbe un sistema di distribuzione dell’energia fatto di reti completamente nuove sul territorio. Un modello assolutamente incompatibile con quello attuale.

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Nucleare e vita, due entità incompatibili

Da Il Manifesto, 20 marzo 2011

I “ripensamenti” del Governo in materia nucleare vanno valutati sulla base della confidenza carpita alla Prestigiacomo a Montecitorio: un escamotage per prendere tempo e svuotare i referendum che, al punto in cui siamo, potrebbero essere fatali per una coalizione sempre più distante dagli elettori. Bisogna essere molto lucidi e non cedere ad una tattica che potrebbe rimuovere la questione di fondo dell’insostenibilità ambientale, sociale ed economica dell’energia atomica in sè, per ripiegare sulle soluzioni tecniche che esorcizzerebbero scenari catastrofici. La linea su cui si attesterà il fronte della difesa ad oltranza del nucleare è quella già esposta dai “pentiti”: ammettere l’inaffidabilità dei “vecchi” impianti tutt’ora in funzione per rimarcare di converso l’assoluta attendibilità di “nuovi” reattori, che differiscono dai primi per una illusoria ridondanza di dispositivi di sicurezza. L’incidente verrebbe così in pratica esorcizzato, “seppellito” sotto una coltre di costosissimi marchingegni precauzionali. Il problema in discussione non sarebbe quindi più quello dell’intrinseca impossibilità di eliminare effetti incommensurabili – come è purtroppo di nuovo sotto gli occhi di tutti in Giappone -, ma quello dell’approntamento di apparati tecnologici sempre più imponenti e sofisticati, in un inseguimento del “rischio zero” così illusorio da non avere mai fine. Una chimera così oggettivamente irraggiungibile da diventare obiettivo più della sfera della comunicazione persuasiva che di quella scientifica. Quindi, roba da ingegneri e da supertecnici schierati, sostenuti da fini comunicatori, che, con un aggiornato “latinorum”, si affannano a illustrare schemi complessi e ostici per il grande pubblico e a denunciare la mancanza del quarto o quinto circuito di raffreddamento, che avrebbe sicuramente salvato Fukushima e che sarà ovviamente presente negli impianti da costruire in futuro. Quindi, se prima la colpa era degli screditati reattori sovietici a grafite, adesso sotto accusa sono i BWR giapponesi ad acqua bollente, dimenticando che una centrale di quel tipo a Caorso è stata chiusa solo grazie ai cittadini che hanno votato al referendum dell’87 “sull’onda dell’emozione”. A parte il bizzarro e incredibile Veronesi che si dà una pausa di riflessione, il Romani che ha sostituito da par suo l’astro rinascente Scajola, i Vespa e i Testa in tempi più tranquilli accamperanno la “sicurezza totale”, rappresentata dagli EPR ormai invendibili di Areva, arricchiti di qualche orpello in più.

Stante così le cose, meglio andare al cuore del problema: un reattore a fissione funzionante è comunque in termini energetici un incidente latente “moderato e controllato”. Contenuto e tenuto a bada da barre, circuiti di raffreddamento, contenitori a tenuta stagna, complessi sistemi software, fintantoché non se ne scopre l’insostenibile contenuto termico e radiante, a seguito di qualche malfunzionamento dovuto all’ambiente reale di cui l’impianto è entrato a far parte. Un contesto vero e non sulla carta, fatto di eventi e catastrofi naturali, di errori umani, di inaffidabilità gestionale e tecnica connaturati alla vita quotidiana. In realtà, la terrificante densità energetica delle trasformazioni atomiche controllate (la fissione di un grammo di uranio corrisponde alla combustione di 2 tonnellate di carbone), è incompatibile con la capacità e la velocità di smaltimento della biosfera che ci circonda e alimenta: al punto che quando la “macchina” si rompe, gli effetti si propagano nello spazio e nel tempo ben oltre i limiti della nostra esperienza. La scelta di abbandono del nucleare non è quindi roba da ingegneri, ma riflessione alla portata di qualsiasi persona responsabile ed è per questo che il referendum, – non qualche emendamento dell’ultima ora! – diventa anche questa volta decisivo.

Se già per petrolio gas e carbone la combustione – fenomeno estraneo ai processi vitali – sprigiona un contenuto energetico che attraverso le modifiche climatiche minaccia alla lunga la nostra sopravvivenza, figuratevi quali ferite possa subire l’ambiente naturale dai processi radioattivi, che sono di molti ordini di grandezza superiori. Non a caso le emissioni intorno ai reattori e le scorie atomiche intaccano nel profondo i tessuti cellulari e decadono con tempi di migliaia di anni. Quando poi si perde il controllo e si verifica un incendio o una parziale fusione del nocciolo – come è probabilmente in corso a Fukushima e come è avvenuto a Chernobyl – si ha una catastrofe perchè viene riversato al presente e nello spazio limitrofo (quindi dentro la nostra esperienza) un carico distruttivo che verrebbe comunque trasmesso alle future generazioni, attraverso scorie letali che viaggeranno per il mondo e che nessuno sa ancora come neutralizzare.

C’è in sostanza un contrasto insanabile nel tempo tra nucleare e vita. Credo che dopo Chernobyl, dopo l’esplosione della piattaforma nel Golfo del Messico e dopo Fukushima la svolta nella coscienza delle persone sia già in corso: basta tradurla anche politicamente e fare della consultazione popolare su acqua e nucleare una scadenza su cui convergano tutti gli sforzi. Al contrario dell’87, quando l’alternativa prospettata all’uranio era il gas, una fonte che implicava ancora il mantenimento di un modello energetico centralizzato, oggi l’alternativa delle rinnovabili apre lo spazio ad un sistema energetico diffuso, integrato nei cicli della vita, governabile democraticamente sul territorio. Si tratta di una alternativa radicale, che propone un cambio nella scala dei tempi, una riconquista di una dimensione non distruttiva del nostro rapporto con la natura e che favorisce la ricerca di produzioni socialmente desiderabili, la creazione di occupazione e lavoro stabili, in riequilibrio finalmente con l’eccesso di schiavi meccanici forniti dai fossili e dal nucleare ad un carissimo prezzo.

Mario Agostinelli

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Manifesto degli imprenditori

Tratto da La Repubblica — 05 dicembre 2010

ROMA – Un salasso di risorse che drenerebbe gli investimenti fuori dall’Italia bloccando la ripresa di uno dei pochi settori in crescita: la green economy. E’ questa la motivazione del manifesto «Invece del nucleare» con il quale imprenditori e manager chiedono al governo di cambiare rotta rinunciando all’atomo francese per lanciare un modello di crescita verde che in Germania ha già dato 350 mila posti di lavoro diretti e oltre 1 milione nell’indotto. «Lo scenario prospettato dal governo, 25 per cento di elettricità atomica e 25 per cento di rinnovabili al 2030 – si legge nell’appello – comporterebbe una enorme distrazione di risorse a discapito delle nuove energie (efficienza e rinnovabili). Nella migliore delle ipotesi, quando tra 10-12 anni si iniziasse a generare elettricità nucleare sarebbe lo Stato, attraverso la fiscalità generale, o gli utenti, attraverso le bollette, a cofinanziare il nucleare. Questo perché il costo è estremamente oneroso: oltre 5 miliardi di euro per una centrale, più di 40 miliardi per l’intero programma. Stime che raddoppiano, e anche più, se si considerano i costi del futuro decommissioning.

Un rapporto del 2009 del Mit, Massachusetts Institute of Technology, ha valutato il costo dell’elettricità da nucleare in 8,4 centesimi di dollaro per chilowattora, più del gas e del carbone». L’elenco dei primi cento firmatari del manifesto curato dal Kyoto Club, il cartello delle industrie impegnate in campo ambientale, è aperto da tre nomi di rilievo: Pasquale Pistorio, il manager che ha fatto la fortuna di STMicroelectronics, Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont, Gianluigi Angelantoni, amministratore delegato dell’omonimo gruppo che, assieme a Siemens, lavora sulle nuove frontiere del solare termodinamico. «Un proverbio cinese che amo molto dice: “Se vuoi una quercia tra 50 anni devi piantarla oggi”: quella è saggezza», commenta Angelantoni. «Ma non accorgersi nemmeno di quello che già esiste è follia: per una piena competitività delle rinnovabili non ci sarà da aspettare 50 anni, è un obiettivo ormai a portata di mano. Non si capisce dunque secondo quale logica sarebbe conveniente impegnarsi oggi, a prescindere dai rischi legati all’inquinamento e al terrorismo, nella costruzione di centrali nucleari che quando entreranno in esercizio dovranno misurarsi con fonti rinnovabili che nel frattempo avranno fatto passi avanti da gigante». Per misurare la convenienza delle rinnovabili del resto non c’è da spostare gli occhi troppo in là. Basta prendere i dati di consuntivo del 2009: il 61 per cento della nuova potenza elettrica installata in Europa viene da impianti alimentati da fonti rinnovabili; e la percentuale, sempre nel 2009, è del 43 per cento negli Stati Uniti.

«E’ singolare che qualcuno parli di rinascita del nucleare nel momento in cui questa tecnologia conosce la sua crisi più profonda», osserva Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club. «Prendiamo il dato degli impianti costruiti a livello globale negli ultimi 5 anni, tra il 2005 e il 2009: la somma di eolico e solare ha battuto il nucleare 14 a 1 in termini di potenza installata e 3 a 1 in termini di elettricità prodotta. Se poi si tenesse conto delle centrali atomiche dismesse nel quinquennio la differenza diventerebbe ancora più clamorosa». – Antonio Cianciullo

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Veleni nucleari – speciale Carta

Il numero del settimanale Carta dell’11 novembre è dedicato al tema del nucleare, al suo impatto ambientale e alle politiche energetiche alla base di questa scelta.

Oltre a interviste e note sulla costruzione delle centrali nucleari europee, si fa notare come: “La valutazione del rischio nucleare è una questione politica in cui pesano più gli interessi dell’industria che i dati scientifici e l’evidenza”.

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